Cartagine in fiamme/25. Un duello terribile

25. Un duello terribile

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24. La caccia ai sacerdoti 26. Il ritorno a Cartagine

UN DUELLO TERRIBILE


Non erano trascorsi due minuti, quando una barca, staccatasi dalla seconda triremi, abbordava quella guidata da Hermon ed un uomo, acceso in viso, fremente, furibondo, irrompeva sulla tolda avventandosi impetuosamente contro Hiram.

— Ancora tu! — parlò.

— E ti meravigli? — rispose il capitano un po' beffardamente.

— Aspettavo di essere chiamato per infliggerti la lezione che tu meriti.

— Per quale motivo?

— Sei un miserabile!

— Oh!

— Un pirata!

— Chi te l'ha detto? Fino a pochi giorni or sono non ero che un onesto trafficante di Tiro.

— Tu hai cercato di rapirmi la fidanzata.

— Era proprio tua, Tsour? Ne sei ben sicuro? Ignoravi dunque che Ophir amava me, prima ancora di averti conosciuto?

— Ciò non m'interessa. D'altronde non credo che la figlia di Hermon si abbassi tanto da scegliere un capitano di ventura, piuttosto che il figlio d'uno dei più ricchi mercatanti di Cartagine.

— Quanti talenti pagheresti per trovarti al posto di quel capitano di ventura, che fingi di disprezzare?

— Io?

— Sì, tu — disse Hiram.

— Darei un buon colpo di daga.

— A chi?

— A quel capitano.

— Allora siamo perfettamente d'accordo.

— Che cosa vuoi dire? — chiese Tsour.

— Che uno di noi è di troppo nel mondo, e che sarebbe meglio andasse a riposarsi nella necropoli di Cartagine.

— Hai indovinato il mio pensiero — disse il mercatante sguainando con un rapido gesto la daga iberica, che portava al fianco.

— Non credevo che tu fossi tanto coraggioso — disse Hiram con accento sempre beffardo.

— Io ti darò or ora una prova contraria. Se sappiamo maneggiare i pesi e le misure, sappiamo, occorrendo, anche impugnare saldamente le armi che noi abbiamo affidate a quei mercenari che paghiamo lautamente, onde ci lascino vendere tranquillamente le nostri merci.

— Bada, che il mio braccio ha vinto un giorno i romani.

— Quel braccio io lo spezzerò — rispose Tsour, che dimostrava un coraggio meraviglioso, che stupiva perfino il suo avversario.

Anche Hiram aveva levata dal fodero la daga, una lama quasi eguale a quella che impugnava il mercatante, ma più larga e più pesante. In quel momento il vecchio Hermon, che fino allora era rimasto silenzioso, credette opportuno intervenire e disse:

— Mio dovere è quello, prima che il sangue scorra, di vedere se è possibile di mettervi d'accordo. Tu Tsour non potresti vivere senza Ophir, è vero?

— O quella fanciulla o la morte — rispose il mercatante con voce decisa.

— Sei certo tu che Ophir ti ami?

— Lo credo.

— E se ti fossi ingannato? E se quella fanciulla amasse invece un altro uomo che aveva veduto prima di te?

— Questo capitano di ventura?

— Sì, Hiram.

— E non me l'hai detto, vecchio? — urlò ferocemente il mercatante.

— Io credevo che tu riuscissi a far dimenticare a Ophir quest'uomo.

— Allora non mi rimane altra speranza che di ucciderlo. Morto lui, Ophir mi amerà. A noi due, capitano; abbiamo parlato perfino troppo. La posta è Ophir: tu Hermon sarai il testimone di entrambi. Quanti passi, capitano?

— Dieci, se non ti spiace.

— Fai schierare i tuoi marinai dietro di noi, Hermon, e misura la distanza.

Il capo dei Centoquattro, ormai convinto che qualsiasi tentativo per pacificare i due avversari sarebbe stato inutile, contò i dieci passi, per limitare il campo del combattimento, poi alle due estremità di quella distanza, fece schierare due linee di marinai, armati di picche, onde impedire la fuga a uno od all'altro avversario. Così combattevano in quei tempi i campioni che si sfidavano.

— Quando vuoi, Tsour, — disse Hiram imbracciando uno scudo datogli da Hermon, mentre il mercatante ne prendeva un altro offertogli dall'hortator della triremi, — sono pronto.

Entrambi si erano posti in guardia, scegliendo la posa che meglio a loro conveniva, non essendovi una vera scuola nei duelli, come nel medioevo. Tsour, che pareva ebbro di collera, fu il primo che si avventò all'assalto, vibrando una terribile botta che scrosciò formidabilmente sullo scudo del capitano. Quel giovanottone, quantunque non sembrasse, pareva che possedesse una forza poco comune, e la muscolatura potente, più che l'agilità e la destrezza, valevano contro quegli uomini coperti di ferro.

Hiram aveva sostenuto l'attacco senza muoversi. Completamente sicuro di sé, aspettava il buon momento per assalire a sua volta e portare all'avversario un colpo mortale.

— Ti smuoverò dal tuo posto e ti caccerò contro le picche dei marinai! — gridò Tsour. — Tu non sei incrollabile come un bastione di Cartagine.

— Sfortunatamente tu non hai in questo momento nelle tue mani un ariete — rispose Hiram.

— Un'altra volta porterò con me una catapulta.

— Io non ti aspetterò un'altra volta; tu sarai con Tanit.

— Prendi questa palla intanto! — gridò Tsour. — Sono duri anche i muscoli dei mercatanti.

Un altro colpo, più tremendo del primo, scrosciò sullo scudo del capitano. Tsour aveva cercato di sfondargli l'elmetto e di gettarlo a terra stordito, per poi finirlo senza correre alcun pericolo.

Hiram, che non era uomo da lasciarsi sorprendere, aveva avuto il tempo di alzare lo scudo e non si era nemmeno piegato sotto l'urto poderoso della pesante daga iberica.

Tsour aveva fatto un passo indietro, guardandolo con spavento. — Sei una colonna tu dunque? — chiese coi denti stretti.

— Ho sfidato i colpi dei guerrieri romani, che erano ben più pesanti dei tuoi — rispose Hiram, sempre tranquillo. — Mi vergognerei se dovessi piegare sotto quelli d'un mercatante.

Il vecchio Hermon che rimaneva impassibile spettatore di quel tragico duello, aveva approvato le fiere parole del capitano.

— Assali tu dunque? — urlò Tsour.

— Io non ho mai avuto fretta di finire un uomo — rispose Hiram.

— Credi proprio di tenere fra le tue mani la mia vita?

— Lo spero.

Tsour con un salto improvviso fu addosso al capitano, tirando sette od otto colpi che non ebbero altro successo che quello di produrre un gran fracasso.

Parte collo scudo e parte colla lama, Hiram li aveva parati tutti, senza dare indietro un solo passo.

Vedendo il mercatante a dare indietro per riprendere lo slancio, a sua volta assalì con grande impeto.

Il primo colpo scrosciò sulla corazza dell'avversario, senza riuscire a squarciarla; il secondo incontrò lo scudo messogli dinanzi appena a tempo; il terzo, più tremendo, fu mortale. La larga daga era penetrata quasi fino all'impugnatura nel petto del nemico, in direzione del cuore, spaccando nettamente due piastre di ferro e producendo un'orribile ferita.

Tsour aveva mandato un grido, uno solo, poi era rovinato al suolo con un fragore di ferraglia, che si ripercosse cupamente nella stiva della triremi.

— L'ha voluto — disse il capitano, gettando la daga.

Tsour non parlava più; solo un leggero tremito che rapidamente diventava sempre più debole, agitava le sue membra.

Hermon si era curvato sul moribondo, ma dopo pochi istanti si era rialzato, dicendo con voce triste:

— È andato a trovare Tanit.

A bordo della triremi regnò un lungo silenzio. Il vecchio ed i suoi uomini parevano in preda ad un profondo sgomento.

Hiram fissava lo smorto viso del suo avversario, tenendo una immobilità assoluta.

— Ed ora? — chiese finalmente il capo dei Centoquattro avvicinandosi al capitano.

— Dirai a suo padre che egli è morto da prode, combattendo contro uno dei capitani del grande Annibale — rispose Hiram. — Questo sarà il suo più bell'elogio.

— E Ophir che cosa dirà quando apprenderà la miseranda fine di Tsour?

— Non lo amava — disse seccamente Hiram. — Ora che hai veduto come un capitano di ventura, così chiamate noi che diamo il nostro sangue per difendere la repubblica, sa combattere, quale opinione ti sei fatta di me? Dimmelo francamente, vecchio Hermon. Un giudizio pronunciato da te, può aver maggior valore dei giudizi pronunziati da tutti i nostri compatrioti presi insieme.

Hermon lo guardò senza parlare, aggrottando più volte la fronte: una fiamma viva balenava nei suoi occhi, che ordinariamente parevano spenti.

— Parla — riprese Hiram. — Io non ho tempo da perdere. Rimanere o partire per andarmene lontano lontano...

— Con chi? — chiese il capo dei Centoquattro.

— Con Ophir.

— Tu non sai dove si trova.

— E se io lo sapessi?

— Non è possibile.

— Chi inseguivo io poco fa? Forse che quelli non erano i sacerdoti del tempio di Tanit?

— Per Astarte! È vero! — esclamò il vecchio battendosi violentemente la fronte. — Io non ho avuto il tempo d'interrogarli.

— Lo farai più tardi. Dunque?

— Io, capo del Consiglio dei Centoquattro, quasi re di Cartagine, ti proclamo un eroe e l'unico uomo capace di frenare l'urto formidabile dei romani. Vuoi tu un comando?

— Vi è Asdrubale.

— A lui l'esercito; a te la flotta.

— E Ophir sarà mia?

— Sì, ma solo se tu riuscirai vincitore nell'impresa temeraria.

Hiram ebbe un sorriso di profondo sdegno.

— Sia, — disse poi: — Cartagine vende le sue donne, e regala i suoi talenti ai difensori della patria. Quando ci rivedremo?

— Questa sera io parlerò della tua nomina al Consiglio dei Centoquattro.

— Dell'esiliato?

— Tu non lo sei più.

— Dove potrò trovarti?

— A casa mia.

— Giura su Astarte che tu non mi tenderai un agguato.

— Hai la mia parola.

— Mi basta — disse Hiram.

— Bada però che io non ti darò Ophir che dopo la vittoria.

— Non è Ophir che oggi è in giuoco, perché saprei prendermela anche senza il tuo consenso: è la vecchia daga che col grande Annibale ha vinto sul lago Trasimeno, che si mette ai servigi della patria. Addio Hermon: dopo il tramonto sarò a casa tua.

Gettò un ultimo sguardo sul cadavere di Tsour, ormai immerso in una larga pozza di sangue, chinò la fronte e attraversò a lenti passi la tolda della triremi, ridiscendendo indisturbato nella sua barcaccia.

— Al largo — disse subito ai suoi uomini, che lo interrogavano cogli sguardi, mentre Fulvia ed Ophir sollevavano leggermente quella specie di manto che le nascondeva.

I numidi afferrarono i remi e si allontanarono dalle due triremi, puntando non più verso Utica, bensì verso il porto mercantile di Cartagine.

Anche le due navi si erano messe in marcia; e siccome avevano un numero quattro volte superiore di remi, in pochi minuti furono fuori dalla portata di voce.

— Che cos'è accaduto dunque Hiram? — chiese Ophir, scoprendosi in parte. — Perché hai tanto indugiato? Quante angosce, mio valoroso! Ho udito un cozzare d'anni!

— Un morto vi è stato, fanciulla mia, — rispose Hiram, — ma come però vedi non sono stato io il caduto.

— Un morto! — esclamarono ad una voce Ophir e Fulvia.

— Lui.

— Hermon? — gridò la giovane cartaginese.

— Io uccidere un vecchio? Che cosa dici Ophir? Quale stima hai tu di me? Non è lui che è andato a riposarsi nelle oasi verdeggianti di Tanit.

— Spiegati meglio, Hiram.

— Amavi Tsour?

— No: lo detestavo. Tu lo sapevi senza che fosse necessario che te lo dicessi.

— Così non correrai più il pericolo di amarlo, né lo detesterai più. Il morto è lui.

— L'hai ucciso?

— Sì, in un leale combattimento, dove quel mercatante ha dato prova d'un coraggio poco comune nella sua casta. Se avessi saputo prima che oltre essere un buon venditore di mercanzie, era anche un buon soldato, forse l'avrei risparmiato, a patto che avesse fatto rinuncia di te. Sventuratamente era ormai troppo tardi; e poi era necessario che rimanesse in vita l'uno o l'altro soltanto.

— Povero giovane! — mormorò Ophir. — Io non lo amavo, ma nemmeno l'odiavo. Ed Hermon sa che io sono con te?

— Lo saprà più tardi; poco fa lo ignorava.

— E dove mi conduci ora?

— A casa di Fulvia.

— E dopo?

— Dopo vedremo la terribile lotta, che finirà pur troppo colla distruzione di Cartagine.

— Che cosa speri tu? — chiese Fulvia.

— Non lo so: Annibale non è più vivo. Io tenterò tutto quello che potrò, giacché oggi si ritorna ai capitani che vinsero le guerre d'Italia.

— Come? Tu... — chiese Ophir.

— Sarò io che prenderò il comando della flotta cartaginese. Hermon me l'ha promesso.

— Tu cercherai di salvare questa patria che ti ha disprezzato e che ha ricambiate le tue gesta eroiche coll'esilio? — disse Ophir guardandolo con suprema ammirazione.

— Lo farò — rispose Hiram.

— E tutto dimenticherai?

— Tutto.

— Quale uomo sei tu dunque?

— Un uomo che non ha dimenticato innanzi tutto, di essere cartaginese.

— Sei Tanit o Melkarth?

— Più Melkarth che Tanit, giacché è sul mare che affronterò i compatrioti di Fulvia.

Ophir guardò l'etrusca, ma pareva che la giovane italiana non avesse nemmeno udite le parole pronunciate dal capitano.

Guardava dinanzi a sé, cogli occhi tetri, come se seguisse una lontana visione, reggendosi la testa con ambe le mani.

A che cosa pensava? Alla bianca casetta, assisa sulle rive del lago Trasimeno, fra le alte piante e alla cameretta dove il giovane guerriero languiva, semispento dall'astario romano? O alle tristi vicende della schiavitù che avevano seguito il suo primo amore di fanciulla, purtroppo spentosi così rapidamente e non da parte sua? Chi avrebbe potuto dirlo?

Certo non dovevano essere lieti i pensieri che turbavano in quel momento il cervello ardente della bruna figlia della penisola. La conversazione era cessata fra Ophir ed Hiram.

La barcaccia scorreva rapida sul mare azzurro e tranquillo, seguendo da lontano le due triremi che stavano per scomparire.

Sulla purissima linea dell'orizzonte, gli imponenti bastioni di Cartagine cominciavano ad apparire stendendosi in forma di semicerchio dinanzi al porto mercantile.

Ophir, colla bellissima testa appoggiata ad una spalla del capitano, aspirava la fresca brezza del Mediterraneo, impregnata di salsedine; Fulvia pareva sempre assorta in profondi pensieri.

I numidi davano furiosamente dentro ai remi, senza scambiare una sillaba; anche i veterani tacevano.

Solo Sidone, come d'altronde era sua abitudine, brontolava, dimostrandosi non troppo contento delle notizie che aveva apprese.

Della disgraziata fine di Tsour, se ne infischiava altamente: era tutto il seguito che lo preoccupava e non poco.

I bei tempi in cui le quinqueremi cartaginesi potevano tener testa a quelle romane erano passati ormai. Valeva meglio per lui, uomo sempre prudente, piantare in asso Hermon, il Consiglio dei Centoquattro, i Suffetti, Cartagine ed i suoi avidi mercatanti; e giacché Ophir era stata catturata, filarsela al più presto, prima dello scoppiare della guerra, a Melila od in Sicilia, e meglio ancora in Grecia.

— Ah, questi guerrieri! — borbottava. — Mescolano l'amore con una patria ingrata!

Entrarono senza incidenti nel porto mercantile, tenendosi lontani dalla squadra che stavano riparando frettolosamente, onde fosse in grado di opporre almeno una valida difesa all'urto delle quinqueremi romane, che avevano già lasciate le coste italiane. La barcaccia si diresse verso uno dei sobborghi meno abitati.

— A casa di Fulvia subito — disse Hiram, sbarcando in un luogo quasi deserto.

— Voi fanciulle copritevi il capo: è meglio che non vi vedano in viso.

La cartaginese, la sua schiava e Fulvia obbedirono, mentre i numidi si sbarazzavano invece delle loro tonache sacerdotesche onde non attirare la curiosità dei passanti.

— E noi dividiamoci — disse Thala ai suoi veterani. — Noi non possiamo ancora contare sulla protezione del vecchio Hermon e le fauci di Baal-Molok ci minacciano ancora. Il ritrovo è alla casa dell'etrusca.

I numidi si erano già divisi in piccoli gruppi, prendendo diverse direzioni. Solo Sidone era rimasto per scortare il capitano e le tre fanciulle.

Non aveva quasi conoscenze a Cartagine, quindi non poteva correre alcun pericolo.

Il piccolo gruppo s'inoltrò attraverso le strette e sporche viuzze che giravano dietro i bastioni, che difendevano la città verso la parte meridionale dell'istmo; e dopo d'aver descritto un lunghissimo giro, giungeva senza cattivi incontri dinanzi la casupola di Fulvia.

Nessuno l'aveva occupata, essendovi perfino troppe case disabitate in quell'epoca in causa d'una forte emigrazione d'abitanti verso Utica, città che aumentava di giorno in giorno di splendore, minacciando di diventare una formidabile rivale, dell'opulenta colonia fenicia.

Poco dopo, a tre od a quattro, entravano i numidi portando viveri e vesti per le donne e più tardi anche i veterani.

Nella stanza più ampia, che era viceversa così stretta da contenere a malapena tutte quelle persone, fu subito tenuto consiglio per decidere sul da farsi. Molti, specialmente la maggior parte dei veterani, avevan fatta subito la proposta di noleggiare una nave e di mettersi in salvo prima che le quinqueremi romane si mostrassero nel golfo, e d'abbandonare Cartagine al suo destino. Prevalse però il consiglio d'Hiram, di nulla decidere prima d'aver avuto un colloquio con Hermon.

— Voi avete ragione — aveva detto ai veterani. — In questa guerra, perduta prima di cominciarla, voi nulla avrete da guadagnare, non potendo infondere in voi nessun entusiasmo per una patria che non è vostra. Voi non dovete però dimenticare che io sono un cartaginese e che il dovere d'un guerriero è quello di difendere la terra ove è nato, contro il nemico che la minaccia. Lasciate quindi che veda Hermon. Parlerò per me e anche per voi. Io spero che nel momento supremo del pericolo non vorrete abbandonarmi, dopo tante prove di amicizia che mi avete dato.

— Se tu rimani qui, checché debba succedere, rimarrò anch'io — rispose Thala.

— È nel pericolo che si giudicano i veri amici e mi vedrai nuovamente alla prova.

Otto ore dopo, quando già le tenebre eran calate ed i cittadini avevano fatto ritorno alle loro case pel pasto serale, Hiram accompagnato solamente dal fedele hortator, lasciava la casupola per recarsi nel palazzo del capo del Consiglio dei Centoquattro.

Avevano percorsi appena una cinquantina di passi, quando un uomo che era avvolto in un ampio mantello oscuro, uscì dall'ombra cupa, proiettata dall'arco che serviva di puntello a due case cadenti, dicendo:

— Buona sera, capitano.

— Phegor! — esclamarono ad una voce Hiram e Sidone.

— In persona, capitano — rispose la spia.

— Che cosa facevi qui? — chiese il cartaginese.

— Ti aspettavo per scortarti fino al palazzo. Non si sa mai quello che può succedere in questi tristi tempi.

— Chi ti ha dato questo incarico?

— Il vecchio Hermon. E Fulvia, dov'è?

— Nella sua abitazione, sotto buona scorta.

— Con Ophir, è vero?

— Sai dunque che siamo riusciti a prenderla?

— Me lo ha detto il vecchio Hermon. I sacerdoti lo hanno informato. Non darmi altre spiegazioni: so tutto. Vieni, capitano: il mio padrone non ama i ritardi.

— Non mi si tenderà un agguato? — chiese Hiram.

— Cartagine ha troppo bisogno di valenti guerrieri in questo momento, per pensare a sopprimerli od a esiliarli; e tu sei troppo prezioso. Il Consiglio ed i Suffetti ti hanno finalmente reso giustizia: ti voglio dare però un avvertimento.

— Parla.

— Non dire al vecchio Hermon dove hai nascosta Ophir. Non si sa mai!

— Purché tu non mi tradisca.

— Tu paghi, quindi sono anche tuo.

— Non interamente però.

— Ho altri padroni, e tu sai qual è il mio mestiere. Lasciamo questo discorso che non è utile né a me né a te. Il capo del Consiglio ci aspetta.