Cartagine in fiamme/24. La caccia ai sacerdoti

24. La caccia ai sacerdoti

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23. Il tempio di Tanit 25. Un duello terribile

LA CACCIA AI SACERDOTI


La lastra, vigorosamente intaccata dalle daghe sui suoi quattro margini, dopo un paio d'ore di lavoro furioso, era proprio caduta lasciando vedere un vasto buco nero, che pareva mettesse in un'altra stanza.

Udendo il grido di Sidone, Hiram e Fulvia si erano affrettati ad accorrere, scalando rapidamente quella specie di palco improvvisato che i lavoratori avevano appena in quel momento lasciato per non farsi schiacciare da quel pezzo di vòlta che doveva pesare quanto la testa d'un grosso elefante.

— Il passaggio è aperto — disse Thala, che pel primo si era issato sul palco.

— Dove mette? — chiese Hiram.

— Non saprei veramente, se in un'altra stanza od in un androne.

— Odi nessun rumore?

— Silenzio assoluto.

— Brilla nessuna luce?

— No. Fa' portare quassù una lampada.

— Le farò staccare tutte.

— E vuoi un consiglio?

— Parla, Thala.

— Fa' nascondere i rottami della pietra: la prudenza non è mai troppa in certi casi.

Tosto le lampade furono levate, mentre altri s'affrettarono a nascondere sotto le pelli, che in quell'epoca servivano da sedili, i frammenti della pietra. Thala allungò un braccio rischiarando la nera apertura.

— E così? — chiese Hiram.

— Un passaggio esiste — rispose il veterano. — Non ti posso dire di più pel momento.

— Puoi salire?

Thala depose la lampada sul pavimento di quel passaggio, poi a forza di braccia si issò.

Come aveva già supposto, si trovò in una stanza vasta quanto quella inferiore, ingombra di orci colossali che dovevano contenere i vini dei sacerdoti e le loro provviste d'olio.

— Siamo nella cantina del tempio — disse a Hiram che stava per tirarsi su.

— Vi sono delle uscite?

— Certamente qualcuna ve ne sarà — rispose il veterano. — Per qualche luogo dovranno passare i cantinieri. Fa' avanzare i nostri uomini.

Sidone pel primo, poi gli altri, uno ad uno, raggiunsero i loro capi.

— Che peccato che ci manchi il tempo di dare l'assaggio a questi vini! — disse l'hortator. — Qui ci sarebbe da fare una bevuta colossale alle spalle dei sacerdoti.

— Guai a chi tocca questi orci — disse Hiram che lo aveva udito.

Presero le lampade, sguainarono le spade e fecero il giro della cantina, scoprendo finalmente una porticina di legno, che non doveva opporre una lunga resistenza ai saldi muscoli dei veterani e dei numidi.

— Dove metterà? — si chiese Hiram.

— Forse nei dormitori dei sacerdoti, — rispose Thala, — o nelle cucine. Quattro uomini, i più robusti, si avanzino e sfondino.

Alcuni numidi si fecero innanzi e con pochi colpi di spalla scardinarono la porta.

— Che cosa c'è al di là? — chiese Hiram a Thala che si era avanzato tenendo alta la lampada.

— Una scala — rispose il veterano.

— Odi nulla?

— Sempre silenzio.

— Ciò m'inquieta.

— Perché?

— Temo che siano fuggiti portandomi via Ophir.

— Li inseguiremo, amico.

— E se fossero già lontani?

— I sacerdoti devono essere pessimi remiganti — disse l'hortator. — Se non hanno affondato la nostra barca, sono sicurissimo di poterli raggiungere in poche battute.

— Andiamo innanzi — disse Thala.

Salirono la scala che era strettissima e giunsero in un terzo stanzone dove si trovavano due dozzine di tettucci, disposti su una doppia fila e vuoti. Le coperte erano state gettate in aria, segno evidente che coloro che li avevano occupati si erano alzati frettolosamente.

— Te lo dicevo io che erano fuggiti! — esclamò Hiram, con intenso dolore.

— Questa è la prova.

— Che non vi sia proprio nessuno qui! — tuonò il veterano. — Amici, cerchiamo, frughiamo dappertutto e se trovate qualcuno morto o vivo portatelo qui.

— Questi sacerdoti sono stati più furbi di noi — disse Fulvia, commossa per la disperazione profonda che traspariva sul viso del capitano.

Guerrieri e numidi avevano varcate le due porte che s'aprivano all'estremità del dormitorio, mandando urla feroci. Guai se in quel momento avessero scoperto qualche sacerdote!... Non gli avrebbero certo fatto grazia della vita. Ad un tratto, acutissime grida di donna, seguite da clamorose risate e da bestemmie, giunsero agli orecchi di Thala e del capitano.

— Pare che abbiano scoperto qualcuno — disse il veterano.

— Una donna! — esclamò Fulvia.

— Questa non è la voce d'Ophir — disse Hiram che era diventato pallidissimo.

— Eppure non è la prima volta che la odo.

Quattro veterani in quel momento entrarono spingendo brutalmente innanzi a loro una giovane discinta e scarmigliata, che aveva la pelle assai abbronzata e i lineamenti bellissimi. Due grida erano sfuggite dalle labbra del capitano e di Fulvia:

— Sarepta!

Era infatti la schiava favorita di Ophir, quella che i veterani cacciavano innanzi a loro, minacciandola colle daghe e coprendola d'ingiurie.

— Oh mio signore! — esclamò cadendo in ginocchio dinanzi ad Hiram e tendendo le mani verso Fulvia. — Salvami da questi uomini che vogliono uccidermi.

L'etrusca si slanciò verso la schiava rialzandola prontamente.

I veterani, confusi e mortificati, si eran ritirati ringuainando le daghe.

— E Ophir? — gridò Hiram.

— Condotta via, signore — rispose la schiava ridendo e piangendo ad un tempo.

— Quando?

— Poco fa.

— E da chi?

— Dai sacerdoti del tempio.

— E perché ti hanno lasciata qui?

— Io li avevo pregati di condurmi con loro e di non separarmi dalla mia padrona, e mi hanno risposto che non avevano tempo d'occuparsi d'una miserabile schiava.

— Sei certa che siano fuggiti tutti?

— Li ho veduti io dirigersi verso la spiaggia.

— Quanti erano?

— Una trentina per lo meno.

— Thala, Sidone! — gridò Hiram. — Partiamo subito ad inseguirli.

— Vi sarà ancora la nostra scialuppa? — chiese Sidone.

— Speriamo che sia sfuggita ai loro sguardi — disse Thala.

— Sarepta, conosci questo tempio? — chiese Hiram.

— Sì, mio signore.

— Sai dunque da quale parte si esce.

— Ti guiderò io senza ingannarmi.

— Accompagnaci.

La bellissima schiava d'Ophir si gettò sulle spalle la tonaca d'un sacerdote e guidò il drappello; attraversò parecchi corridoi, finché raggiunse una scala che scendeva ripidissima.

— È di qui che si esce — disse a Hiram.

La discesero rapidamente, e varcate due porte che erano state lasciate aperte, numidi e veterani si trovarono all'aperto.

— Lesti, alla spiaggia — disse il capitano. — Forse non hanno avuto ancora il tempo di allontanarsi troppo.

Si erano messi tutti a correre dirigendosi verso la minuscola cala, dove avevano lasciata la barca data loro da Phegor.

Un grido di trionfo mandato da Sidone, avvertì tutti che il galleggiante non era stato scoperto dai fuggiaschi.

Hiram e Thala si erano precipitati verso la spiaggia, interrogando ansiosamente l'orizzonte. Essendo la notte chiara, quantunque mancasse la luna, era facile scoprire uno o più punti oscuri solcanti il mare.

— Ecco... là! — esclamò ad un tratto Thala, stendendo un braccio verso ponente. — Vedi, Hiram?

— Sì, due piccole macchie nere.

— Sono loro, sono certo di non prendere abbaglio.

— Mi pare che si dirigano piuttosto verso Utica, che verso Cartagine.

— Così pare anche a me... In tale caso non ci sfuggiranno. La via è molto più lunga.

Hiram e Thala corsero verso la piccola cala, e saltarono nella barca che era già stata rimessa in mare.

I numidi avevano alzati i remi e si trovavano pronti a far lavorare i loro poderosi muscoli.

— Al largo! — comandò Hiram sedendosi a fianco di Sarepta.

I dodici remi si tuffarono d'un colpo solo, e la barca s'allontanò velocemente dall'isolotto, dirigendosi là dove si vedevano spiccare i due punti neri.

Il vantaggio che avevano i sacerdoti era considerevole, essendosi imbarcati qualche ora prima; ma come aveva detto l'hortator non dovevano essere troppo abili naviganti.

— Prima che l'alba sorga noi li raggiungeremo — disse Sidone, che osservava attentamente le due imbarcazioni che navigavano a breve distanza l'una dall'altra. — Forza camerati, ed io rispondo di tutto.

Mentre la barcaccia s'avanzava con crescente velocità, a sbalzelloni, Hiram si era volto verso Sarepta, la quale si stringeva addosso il camice che si era gettata sulle nude spalle. Soffiava sul Mediterraneo una fresca brezzolina.

— Da quanto tempo eravate chiuse nel tempio di Tanit? — le chiese.

— Da quindici giorni, mio signore.

— Chi vi ha condotto?

— Phegor con una numerosa scorta.

— Ah!... il furfante lo sapeva — disse Hiram. — D'altronde ha anche lui un padrone che lo pagherà assai largamente, onde deve curare anche i suoi affari. E perché vi ha fatto condurre presso quei sacerdoti?

— Perché aveva paura d'un altro tentativo da parte tua — rispose la schiava.

— Ophir sapeva che io non ero morto?

— Aveva saputo anche che tu eri fuggito da non so quale fortezza.

— E saputo da chi?

— Dallo stesso Hermon.

— E Tsour?

— È troppo occupato in questo momento, per pensare a sposarsi; ed anche il vecchio padrone non ha tempo per dedicarsi a Ophir.

— Come vi trattavano quei sacerdoti?

— Coi dovuti riguardi, signore. È il padrone che ha fatto costruire quel tempio e che mantiene i sacerdoti.

— Pensa sempre a me, Ophir?

— Ti piange senza tregua.

— Ora però non mi sfugge più e sfido Hermon e Tsour a riprendermela.

— Ohe! — gridò in quel momento Sidone. — Allunga l'arrancata!... Sono in vista.

Hiram si era frettolosamente alzato guardando dinanzi a sé. Le due barche montate dai sacerdoti, che erano piccole e perciò troppo sovraccariche per poter procedere molto speditamente, non si trovavano che a sei o settecento passi.

Malgrado la distanza, il cartaginese che aveva buoni occhi, potè distinguere, dal colore delle vesti, che erano rosse invece di bianche, Ophir.

Montava la prima barca in compagnia d'una ventina d'uomini, fra remiganti e sacerdoti.

— La vedo! — esclamò con gioia suprema.

Stava per formare colle mani come un portavoce e avvisarla della sua presenza, quando Thala fu pronto a fermarlo.

— Non commettere imprudenze in tale momento — gli disse.

— Lascia che ella sappia che sono io che dò la caccia alle due barche.

— È meglio che quei sacerdoti ignorino che noi li inseguiamo per ritogliere loro la figlioccia di Hermon. Potrebbero aver ricevuto l'ordine di ucciderla, piuttosto che cederla a te.

— E allora sarebbe anche la mia morte.

— Lascia dunque fare a noi, e non farti conoscere se prima non abbordiamo le barche.

— Ti obbedisco amico.

— Ohe, camerati, preparate le armi e tenetevi anche pronti a gettarvi in acqua.

I remiganti delle due barche accortisi che si dava loro la caccia, facevano degli sforzi prodigiosi per non lasciarsi raggiungere. Anche alcuni sacerdoti, probabilmente i più giovani ed i più robusti, avevano presi dei remi per aiutarli. Voler lottare coi numidi dell'hemiolia era una follia. I poderosi figli dell'Africa vogavano meravigliosamente, e pareva che avessero appena allora cominciata la faticosa manovra.

La distanza spariva rapidamente e alte grida di spavento echeggiavano sulle due barche.

Probabilmente credevano di essere inseguiti da qualche masnada di pirati greci, i quali, in quell'epoca, frequentavano le coste africane, spingendosi anche a non molta distanza da Utica e da Cartagine, devastando, di quando in quando, perfino le terre della Sicilia e di Malta, sfidando anche audacemente le triremi romane, incaricate della sorveglianza del Mediterraneo. Quando la barca dei numidi si trovò a soli centocinquanta passi dai fuggiaschi, Thala fece colle mani portavoce, gridando minacciosamente:

— Fermatevi o vi coliamo a fondo!

A bordo delle due barche si vide un po' di confusione, poi una voce rispose:

— Chi siete voi che perseguitate dei poveri sacerdoti che si recano a Utica? Pirati greci forse?

— Noi siamo dei galantuomini, che non hanno bisogno di depredare nessuno — rispose Thala. — Noi lasceremo a voi le vostre ricchezze e vi promettiamo di conservare le vostre vite se vi arresterete.

— Possiamo fidarci delle tue parole?

— Sono un guerriero e non già un ladrone.

— Perché c'insegui allora?

— Perché così vuole il Consiglio dei Centoquattro — rispose Thala.

Le due imbarcazioni, che non potevano ormai lottare colla barca montata dai vigorosi numidi, si erano arrestate. I sacerdoti avevano ormai compreso che prolungare la fuga sarebbe stato pericoloso, senza speranza di buon successo.

— La vedi padrone la tua Ophir? — chiese Sidone al capitano.

— Non mi occorrono i tuoi occhi, amico.

— Devo abbordare innanzi a tutto la sua barca?

— Dell'altra non me ne curo.

— Sotto allora, camerati. Se non si arrenderanno, li manderemo tutti a nutrire i pesci. Fuori le spade, guerrieri!

La barcaccia con un ultimo slancio giunse addosso alla prima imbarcazione e le tagliò la strada, obbligandola a virare prontamente di bordo, onde non farsi affondare.

I veterani avevano alzate le daghe, pronti a scagliarsi sui sacerdoti e scannarli come agnellini.

Un uomo assai barbuto, che doveva essere il capo del tempio, si era alzato col viso trasfigurato, gli occhi lampeggianti, gridando:

— Che cosa volete voi miserabili? Chi oserà porre le mano sui sacerdoti di Tanit, il dio supremo?

— Noi, se non obbedisci — rispose Thala. — E se...

Un grido acutissimo lo interruppe.

— Hiram!

Ophir che occupava uno dei banchi del centro, si era alzata di scatto, tendendo le sue bellissime braccia verso il capitano cartaginese.

— Hiram!... Hiram!... Sogno io?

Il guerriero che stringeva la sua formidabile daga, era già piombato nella barca dei sacerdoti urlando:

— Largo, o vi stermino tutti!

Thala e Sidone l'avevano prontamente seguito per prestargli man forte. Quell'aiuto non era necessario, poiché i remiganti ed i sacerdoti erano in preda ad un tale sgomento, da non poter opporre la menoma resistenza. D'altronde non avevano altre armi che i remi, affatto insufficienti contro le solide corazze dei veterani.

— Vi arrendete sì o no? — urlò Thala, maneggiando sopra le teste dei sacerdoti terrorizzati la daga.

— Noi siamo nelle tue mani — rispose il capo barbuto. — Che cosa vuoi da noi! Ricchezze non ne abbiamo.

— Ti ho già detto che noi non siamo pirati greci, quantunque meritereste una severa punizione, pel modo con cui ci avete trattati al tempio. Non è con del vino che si pagano i valorosi guerrieri, bensì con del sangue, per la morte di Baal-Molok, d'Astarte e di Tanit!

— Tu bestemmii...

— Non te ne incaricare, sacerdote.

Nel frattempo, Hiram e anche Fulvia, che eran passati sulla barca dei sacerdoti, senza preoccuparsi dell'altra che continuava a fuggire, si erano avvicinati ad Ophir.

— Mia!... E questa volta lo sarai per sempre! — esclamò Hiram, stringendosela freneticamente al petto. — Ti strappino dalle mie braccia ora!...

— Tua, sempre tua, mio valoroso! — rispose la fanciulla i cui occhi si coprivano di lagrime.

— Provino disputarti a me questi miserabili, che avevano cercato la nostra rovina. Vuoi che li uccida tutti?

— Hanno obbedito agli ordini impartiti dal vecchio Hermon, Hiram. Domando grazia per loro.

— Esigo però che ritornino subito al loro tempio.

— E gli altri? — chiese Sidone. — Non lasciamoli scappare. Possono fuggire a Utica od a Cartagine e mandarci incontro qualche quinqueremi.

— Sei un uomo sempre prudentissimo — disse Thala. — Lasciamo questa gente che non ci darà ormai più nessun impiccio e diamo addosso agli altri. I pesci hanno fame e li ingrasseremo.

Tolsero all'imbarcazione dei disgraziati sacerdoti i remi, per impedire loro di prendere la fuga, e ripresero l'inseguimento dell'altra, che nel frattempo aveva guadagnati cinque o seicento passi, dirigendosi verso Cartagine, che era ormai in vista coi suoi imponenti bastioni e le sue superbe merlature.

— Bisogna raggiungerli a qualunque costo — disse Thala a Sidone.

— Lo so, signore — rispose l'hortator che digrignava i denti. — E bisogna raggiungerli prima che se ne accorgano quelle due triremi, che stanno girando il promontorio.

— Triremi?

— Sì; devono venire da Utica, signore. Le vedi laggiù?

Una bestemmia sfuggì al veterano.

Due grosse navi che fino allora erano rimaste nascoste dietro una lingua di terra, che si protendeva per qualche migliaio di passi sul Mediterraneo, erano improvvisamente comparse, puntando le alte prore verso Cartagine. Dalle torrette che sorgevano alle due estremità della coperta, era facile riconoscerle per due legni da guerra, ed era appunto verso di esse che si dirigeva velocemente la seconda imbarcazione dei sacerdoti per chiedere soccorso.

— Hiram! — gridò Thala. — Lascia Ophir ed impugna la daga. Fra poco avremo un bel da fare.

Il cartaginese che stava seduto presso l'amata fanciulla, si era prontamente alzato, mentre dall'imbarcazione fuggente si alzavano altissime grida d'aiuto. Nel medesimo tempo anche a Ophir sfuggiva un urlo di terrore e d'angoscia.

— La triremi di Hermon!

A bordo della barcaccia vi fu un istante di stupore impossibile a descriversi. I numidi avevano lasciati andare i remi; mentre le daghe dei veterani s'abbassavano.

Perfino Sidone, che pareva fosse stato fulminato, aveva abbandonato il remo che gli serviva di timone.

— Hai detto Ophir? — chiese finalmente Hiram, rompendo il silenzio.

— È la triremi del mio padrino che s'avanza.

— Non t'inganni tu?

— No no, Hiram!... Siamo perduti!... Maledetto destino!...

— Questa è la fine — borbottò Sidone. — Il capitano non ha fortuna. Melkarth ancora una volta lo ha dimenticato.

Hiram ritto, cogli occhi fiammeggianti, il viso contratto da una collera terribile, fissava le due triremi che già avevano cambiato rotta, per accorrere in aiuto della seconda barca dei sacerdoti.

Sembrava in preda ad uno spasimo, ad un dolore indescrivibile. Era dunque proprio la fine? Sotto quale luce maligna era egli nato? Gli dei lo avevano dunque proprio abbandonato. Ophir, a sua volta, si era alzata posando una mano sulle spalle del disgraziato guerriero.

— Affronterò il mio padrino — disse con voce stridente. — O te, o la morte mia: scelga.

— Che cosa vuoi fare, fanciulla? — chiese Hiram con voce rotta.

— Adagio — disse Sidone. — Non siamo ancora morti, capitano. Hai dimenticato che i tuoi uomini posseggono delle daghe e che indossano delle buone corazze?

— Ammiro il tuo coraggio, hortator, — disse Thala; — credo però che non vi sia più nulla da fare.

— Meglio morire combattendo, con una lama od una freccia in mezzo al petto, che finire nella bocca ardente di Baal-Molok, signore — rispose il pilota.

— Forse né l'una né l'altra morte — disse Hiram che pareva avesse presa una improvvisa risoluzione. — Lasciate pensare a me ed in ogni caso tenete pronte le armi.

Strappò ad uno dei suoi numidi il camice, lo gettò addosso ad Ophir in modo da nasconderla quasi interamente, poi fece altrettanto con Fulvia dicendo loro:

— Non muovetevi! Voglio vedere fin dove giungerà l'audacia di Hermon. Sidone, muovi diritto verso la sua triremi.

Le due navi erano allora appena lontane dieci tiri d'arco, e la barca dei sacerdoti aveva già abbordata quella del capo del Consiglio dei Centoquattro. Sulla sua coperta si vedevano uomini radunarsi a prora ed a poppa, armati di archi, di arpioni e di lance, pronti ad impegnare il combattimento, tanto più che erano convinti di avere una facile vittoria, essendo il loro numero superiore di almeno quattro volte quello degli avversari.

Sidone continuava a guidare la barcaccia verso la triremi di Hermon, la quale s'avanzava a sua volta mostrando minacciosamente il suo formidabile rostro, spalleggiata dall'altra che era di mole molto minore, quantunque fosse bene equipaggiata.

— Gettate una scala! — gridò Hiram quando fu a portata di voce.

— Chi siete? — chiese il comandante della triremi.

— Onesti guerrieri.

— O pirati che cercano di sorprenderci? Abbiamo centocinquanta uomini pronti a trucidarvi tutti.

— Non salirò che io solo a bordo — rispose Hiram.

— Che cosa vieni a proporci?

— Desidero parlare al tuo padrone.

— Lo conosci?

— È Hermon, il capo del Consiglio dei Centoquattro.

— Chi te l'ha detto?

— Lo so e basta.

— Chi devo annunciargli?

— Il capitano Hiram.

Fra i due equipaggi delle triremi s'alzarono esclamazioni di stupore; poi ad un comando del capo i remi furono alzati rimanendo immobili. Sidone spinse la barcaccia sotto quella d'Hermon, abbordandola sotto la murata poppiera di babordo. Una scala era stata subito gettata.

— Rimanete qui, amici, — disse Hiram ai suoi uomini; — e se mi tocca qualche disgrazia vendicatemi come meglio potrete.

Poi curvandosi verso Ophir, che era sempre coperta dal camice, le sussurrò:

— Vado a tentare la sorte. Se le cose volgeranno a male, entrerai anche tu in scena. Pel momento non farti vedere, a parlare.

Ringuainò la daga, passò sui banchi della barcaccia e salì lestamente la scala di corda che era stata abbassata dalla triremi, balzando agilmente sopra la murata.

— Largo — disse con accento imperioso.

I marinai della triremi si erano fatti da parte per lasciargli libero il passo, senza però abbandonare le armi che stringevano con mano sicura, essendo quasi tutti guerrieri d'un provato coraggio.

Fatti pochi passi, Hiram si era fermato dinanzi ad un vecchio, che era coperto d'un ampio mantello di lana oscura e leggerissima.

— Non mi aspettavi, è vero Hermon? — disse il capitano con un leggero accento ironico. — Non credere però che io sia uno sciacallo, che si getta fra le mascelle d'un vecchio leone.

— Hiram! — esclamò il capo del Consiglio dei Centoquattro, con voce alterata. — Che cosa vieni a fare qui sulla mia triremi? Io ammiro la tua audacia e mi domando se sei finalmente stanco della tua vita.

— Non ancora, vecchio Hermon — rispose l'esiliato con un sorriso sprezzante. — Ho la mia daga al fianco e tu sai quanto valga.

— Te la farò togliere.

— Da chi?

— Tu sai che un uomo che è stato proscritto, non può ritornare in patria sotto pena di morte.

— Io sfido le vostre leggi infami.

— Che cosa vuoi infine?

— Dirti che la spada che vinse in altri tempi i nemici della repubblica, sulle rive del Trasimeno, può ancora servire a qualche cosa alla patria pericolante.

— La tua spada! — gridò Hermon. — Tu la offri?...

— Forse che ho dimenticato di essere io un cartaginese come te? Vili!... Avete servito Roma denunciando le bellicose idee del grande Annibale. Quale frutto ne avete tratto, mercatanti? Che più della patria e della supremazia del Mediterraneo, facevate l'amore al talento d'oro? Dimmelo, vecchio Hermon, se tu sei leale. Ecco come Roma vi ricompensa della vostra viltà, sciagurati!

Il capo del Consiglio dei Centoquattro era rimasto muto e pensieroso.

— Tu mi hai esiliato, perché amico del grande capitano che vinse, a più riprese, le orde romane, e per altre cose ancora. Tu mercatante, arricchitoti colle porpore di Tiro, disprezzavi la gente di spada, che difendeva la tua patria! Meglio era dare la tua figlioccia ad un altro venditore di vasi di vetro o di argilla, che ad uno stimato guerriero. È vero, Hermon? Chiama i tuoi commessi a difendere ora la patria a colpi di peso e di misure. Vedremo se essi vinceranno le corazze e gli scudi dei romani, di quei romani che oggi non desiderano altro che la distruzione dei vostri fiorenti commerci e che voi non saprete ormai più difendere. Non parole, vecchio Hermon: io ti chiedo qualche cosa di meglio.

— E tu offri la tua spada?

— Sì, la offro, ma non a te, alla patria — disse Hiram con suprema fierezza.

— E che cosa chiedi? Quanti talenti?

Uno scoppio di risa sardoniche era sfuggito alle labbra del capitano.

— A me dell'oro! Hiram non è un vile mercenario, m'intendi tu, vecchio Hermon? Sono cartaginese come te; nelle mie vene scorre il sangue dei grandi navigatori del Mediterraneo. Che cosa vuoi che ne faccia io dei talenti della repubblica? Sono abbastanza ricco per armare guerrieri e navi. Desidero ben altro compenso io da te che sei il capo del Consiglio supremo, da te, che devi vegliare sulla sicurezza della patria che i cittadini vi hanno affidata.

— Quale? — chiese Hermon, trasalendo.

— Ophir — rispose Hiram.

— La mia figlioccia?

— Sai che mi ama.

— E Tsour?

— Lo ucciderò.

— È un mercatante, come tu ami chiamare noi, ma valoroso. Fra i pesi e le misure non ha dimenticato di addestrarsi nell'arte della guerra.

— Per combattere chi? I vasi o le porpore di Tiro? — chiese Hiram beffardamente.

— Anche te — disse Hermon, impallidendo.

— Gettamelo dinanzi dunque, se egli ha il coraggio d'affrontarmi, ciò che non credo.

— Tu insulti gli assenti.

— Quando vorrà, sarò pronto ad aspettarlo.

— E se fosse più vicino di quello che tu credi? — gridò il capo del Consiglio dei Centoquattro.

— Se possiede veramente quel coraggio che tu vanti, vecchio Hermon, conducilo dinanzi a me, se si trova a bordo della tua triremi. Vediamo se sarà più valoroso il capitano del grande Annibale, o quel venditore di porpore e di statuette d'avorio.

— Egli è un uomo da tenerti testa.

— Sì, da tener testa ai mercatanti, ma non ai guerrieri — disse Hiram.

Hermon aveva mandato un grido altissimo:

— Tsour!

Quasi subito dal boccaporto di prora, un uomo col petto coperto da una corazza scintillante e che teneva in pugno una larga e pesante daga iberica, era sorto come per incanto, balzando agilmente sulla tolda della triremi. Era il fidanzato di Ophir.

— L'hai udito? — chiese Hermon coi denti stretti.

— Sì — rispose il giovane mercatante, lanciando uno sguardo irato sul capitano.

— Egli ti sfida.

— Ed io gli mostrerò che se i mercatanti cartaginesi sanno adoperare i pesi e le misure, possono anche, quando la salvezza della repubblica lo esige, impugnare le armi e difenderla estremamente.

— Chi? — chiese Hiram con un scatto di collera. — Voi venditori di porpora? Voi che assoldate truppe straniere perché non sapete difendervi, o meglio perché non desiderate esporre i vostri petti adiposi alle spade ed alle lance dei nemici della repubblica? Voi che disprezzate i vostri compatrioti, che per fierezza impugnano le armi per difendere la vostra fortuna? Che cosa ne avete fatto voi del solo uomo che poteva, se aiutato dalla patria, vibrare il colpo mortale a quella Roma che oggi insorge minacciosa e che si prepara a schiacciarvi? Ditemelo, mercatanti!

Il vecchio Hermon era rimasto silenzioso, preoccupato da tetri pensieri.

— Che cosa farete voi ora? — riprese Hiram dopo un breve silenzio. — In chi fondate le vostre speranze? A chi affiderete la difesa della patria?

— Abbiamo Asdrubale — disse Hermon.

Un sorriso di disprezzo contorse le labbra del fiero capitano.

— È su quel condottiero che voi contate? — chiese con voce beffarda. — Voi mercatanti conoscete meglio le vostre stoffe e i vostri vasi, che i guerrieri valenti. Asdrubale!... Che cosa ha fatto quell'uomo finora per affidargli la suprema difesa della patria? Quali battaglie ha vinto e dove ha combattuto? Mostri le sue glorie se ne ha! Quell'uomo, sappilo, Hermon, non farà che del male alla repubblica; e te lo dice un guerriero che fece le sue prime armi sotto il grande Annibale.

— Sei troppo severo con lui.

— A suo tempo mi dirai se io l'ho giudicato male.

— Che cosa ci consiglieresti tu di fare? Io comprendo benissimo che la situazione è grave e che Cartagine giuoca gli ultimi giorni della sua vita.

— Un esiliato che viene considerato come un nemico della repubblica, pel solo delitto di aver combattuto contro quella Roma che vuole la vostra distruzione, non può dare consigli, vecchio Hermon — disse Hiram.

— Tu esageri — rispose il capo del Consiglio dei Centoquattro. — Noi ti avevamo proscritto perché eri troppo intraprendente e troppo amico di Annibale, e si temeva che tu ci suscitassi dei fastidi con Roma, mentre in quell'epoca noi, appena usciti da guerre disastrose, avevamo bisogno di una grande tranquillità.

— O per qualche tuo scopo personale.

— Che cosa vorresti dire? — chiese Hermon, trasalendo.

— Sei stato tu a proscrivermi, perché tu avevi saputo che io amavo la tua figlioccia, e che ella mi riamava. Negalo se l'osi, vecchio Hermon, negalo.

Il capo dei Centoquattro si passò una mano sulla fronte rugosa, poi afferrando bruscamente il capitano per un braccio lo trasse verso la poppa della triremi, dove non vi era pel momento alcun marinaio.

— Sì, è vero — gli disse. — Io ti ho esiliato perché amavi Ophir.

— Forse che un capitano, che tutta Cartagine stimava, non era degno d'impalmare Ophir, che era pure figlia d'un prode condottiero? Ho ancora case, ville e terre.

— Non era per quello, Hiram — disse il vecchio. — Io l'avevo promessa al figlio d'un mio caro amico e poi temevo, che dandola a te, sicuro del mio potente appoggio, riprendessi le mene pericolose di Annibale. Io non ignoravo quanto tu valevi, come non ignoravo che tu eri adorato dall'esercito, ed ebbi paura che tu ci creassi imbarazzi con Roma.

— Spento Annibale, nessun altro avrebbe osato impegnare nuovamente la repubblica — rispose Hiram. — Non era d'altronde quello un motivo per esiliare un uomo, che fanciullo aveva dato il suo sangue alla patria.

— C'era di mezzo Ophir, te lo confesso.

— Dunque è stata una vendetta tua.

— Non potrei negarlo.

Hiram incrociò le braccia sul petto e piantando addosso al vecchio i suoi occhi sfavillanti di collera e d'indignazione, gli chiese coi denti stretti:

— Ed ora, che cosa pretendi fare di me? Gettarmi, come hai promesso, entro il ventre infuocato di Baal-Molok?

Hermon erse la testa fieramente:

— Io spegnere una delle migliori spade che possiede ancora Cartagine? — disse. — Sarebbe un tradire la patria nel supremo momento della sua lotta disperata.

— Che cosa vorresti fare della mia spada?

— Non hai tu nelle vene sangue cartaginese come il mio? Non freme il tuo cuore pensando che forse fra pochi giorni, quei romani, che tu hai sconfitti sul Trasimeno coll'urto irresistibile della tua cavalleria, saranno qui?

— Manda loro incontro Tsour — rispose Hiram ironicamente.

— A che cosa potrebbe servire quel fanciullone?

— A far solamente felice Ophir.

— Forse nemmeno a quello — disse Hermon. — Già la mia figlioccia non lo amerà mai.

— Ha nelle vene sangue di guerriero e non già di mercatante.

Fra quei due uomini successe un lungo silenzio. Pareva che né l'uno né l'altro volesse essere il primo a romperlo. Non era più la repubblica che era in giuoco, era Ophir. Fu Hiram che, meno paziente del vecchio e desideroso di affrontare risolutamente il fuoco, ruppe quel silenzio.

— Tu credi che Ophir non amerà mai Tsour, mi hai detto.

— Lo sospetto.

— Puoi dire francamente che ne sei ben certo.

— Sia pure, di fronte a te non lo negherò.

— Sicché non ignori che ella non apparterrà a nessun altro uomo che non sia il capitano Hiram.

— Può darsi.

— Perché non me la cedi dunque?

— E Tsour?

— Che cosa vuole quel ragazzo?

— L'ama.

— Ci sono delle daghe che calmano l'amore.

— È forte anche lui, quantunque sia figlio d'un mercatante.

— Dov'è?

— Comanda la seconda triremi, non lo vedi sulla prora che ci osserva?

— Fallo venire qui.

— Che cosa vuoi fare? — chiese Hermon spaventato.

— Mettere la mano d'Ophir sulla punta delle nostre daghe — rispose Hiram risolutamente. — Se non è un codardo accetterà, e il cuore della fanciulla rimarrà al vincitore.

— E se tu lo uccidessi, tu toglieresti un uomo di più alla patria.

— Ed io che cosa sono dunque? — chiese Hiram. — Forse che non valgo quanto qualunque altro combattente?

— Tu combatteresti in difesa della patria?

— Sì — rispose il capitano.

— Di quella repubblica che ti ha esiliato?

— Sì.

— La tua valorosa spada ancora contro Roma?

— Appartiene alla repubblica come vent'anni fa.

— E quale compenso chiedi?

— Ophir e null'altro, se Tsour non mi ucciderà.

Il vecchio aveva represso a stento un urlo di gioia pronto a sfuggirgli. Si slanciò verso la murata di poppa e alzando ambo le braccia, gridò:

— A me, Tsour!... il tuo rivale ti aspetta. Coraggio figliuolo. Ophir è in giuoco!...