Canti dell'ora/I. Fantasie/I lavini di Marco
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I LAVINI DI MARCO
Dante qui l’occhio posò. Ne l’interna
passione tal forza ebbe la vista
3de la ruina, che divenne eterna.
E la rivide ne la valle trista
dove le cose son verace specchio
6del male che più l’anima contrista.
Dove ne’ strazii sempre nuovi ’l vecchio
odio si sconta: e i disperati stridi
9percuotono tuttora il nostro orecchio.
Quanto si spazia lungo gli aspri lidi,
fosso parea lo sterminato crollo
12da martorar tiranni ed omicidi.
Non altro. Era il fiero animo satollo.
Non han salvezza i rei se Dio li fiacca.
15Quando giustizia dà il fatal tracollo,
non sorge l’uomo La natura stracca
da lo sfacelo non ottien sollievo.
18Dante guardava. E la deserta lacca
empivagli di sangue il medioevo.
Nel suolo che di scogli irto e ferrigno
21sente ancora l’orribile conquasso
sotto il piccone crepita il macigno.
D’ogni parte fuggendo, al ferro il masso
24cede; co’l tuon de la fenduta scheggia
se’n va la gran ruina a passo a passo,
come da i paschi la nomade greggia;
27e a lunghe strisce ne la scarca valle
il seminato qua e là verdeggia.
Spunta il magliuolo dal calcare, dalle
30bonificate sabbie esce la spica
dove i geli bruciarono le spalle
de i tagliapietre, e tese a la fatica
33spaccò le schiene su la roccia il sole,
che l’assiduità de la formica
aveano al traino de le carriuole
36d’ingente soma, e il nerbo del Ciclopo
al carico de la sassosa mole.
L’informe avanti ’l cosmo; il verbo dopo
39gli abissi de la tenebra; e sovrano
radiante ne’ secoli ’l tuo scopo,
o creazione del lavoro umano,
42cui preparava campi ed officine
l’alluvione, il tremuoto, il vulcano.
La storia ormai è sgombra di rovine,
45nè più teme natura il cieco scempio.
Specchio di mondi che non hanno fine
de l’operosa età sorge l’esempio;
48ed escono pinnacoli e colonne
dal masso antico per il nuovo tempio.
E la bellezza, ove raggio lascionne
51più vivido il pensier, che pare albeggi
da cieli eterni su la terra insonne,
l’aspra forza sentì de le tue leggi.
NOTA.
I Lavini di Marco: vasta landa sulla riva sinistra dell’Adige presso Rovereto, coperta di massi franati, la cui rovina, secondo gli Annali di Fulda, sarebbe da attribuirsi ad un terremoto che sconvolse tutta quella regione nell’867 e ad un monte smosso, caduto nell’Adige nell’883. Ottone di Frisinga (sec. xii) ricorda un altro terremoto, non meno spaventoso, che circa il 1111 aveva rovesciato città, ville e monti.
Lo spettacolo di questa enorme frana è descritto nella visione dantesca, là dove il Poeta col Duce suo, scendendo dal sesto al settimo cerchio infernale,
giù per lo scarco
Di quelle pietre che spesso moviensi
La riviera del sangue, in la qual bolle
Qual che per violenza in altrui noccia. Inf., xii.
Oggi l’industria, che s’impossessò dei Lavini di Marco, ne trae ottimi materiali da fabbrica; e quel suolo, già in più parti liberato dalle pietre, è bonificato e ridotto a cultura.