Canti (Leopardi - Ginzburg)/Appendice/Dediche/I
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[I]
[Dedica delle prime due canzoni, nell’ediz. Bourlié, Roma, 1818.]
Al chiarissimo
sig. cavaliere Vincenzo Monti
Giacomo Leopardi
Quando mi risolsi di pubblicare queste Canzoni, come non mi sarei lasciato condurre da nessuna cosa del mondo a intitolarle a verun potente, cosí mi parve dolce e beato il consacrarle a Voi, Signor Cavaliere. Stante che oggidí chiunque deplora o esorta la patria nostra, non può fare che non si ricordi con infinita consolazione di Voi che insieme con quegli altri pochissimi, i quali tacendo non vengo a dinotare niente meno di quello che farei nominando, sostenete l’ultima gloria nostra, io dico quella che deriva dagli studj, e singolarmente dalle lettere e arti belle, tanto che per anche non si può dire che l’Italia sia morta. Di queste Canzoni, se uguaglino il soggetto, che quando lo uguagliassero, non mancherebbe loro né grandiositá né veemenza, sarà giudizio non tanto dell’universale quanto vostro; giacché da quando veniste in quella fama che dovevate, si può dire che nessuno scrittore italiano, se non altro, di quanti non ebbero la vista impedita né da scarsezza d’intelletto, né da presunzione e amore di se medesimi, stimò che valessero punto a rifarlo delle riprensioni vostre le lodi dell’altra gente, o lodato da voi riputò mal pagate le sue fatiche, o si curò de’ biasimi o dello spregio del popolo. Basterá che intorno al canto di Simonide che sta nella prima Canzone io significhi non per Voi, ma per li piú de’ lettori, e domandandovi perdono di questo, ch’io mi fo coraggio e non mi vergogno di scriverlo a Voi, che quel gran fatto delle Termopile fu celebrato realmente da un Poeta greco di molta fama, e quel ch’è piú, vissuto in quei medesimi tempi, cioè Simonide, come si vede appresso Diodoro nell’undecimo libro, dove recita anche certe parole di esso Poeta; lasciando l’epitaffio riportato da Cicerone e da altri. Due o tre delle quali parole recate da Diodoro sono espresse nel quinto verso dell’ultima strofe. Ora io giudicava che a nessun altro Poeta lirico né prima né dopo toccasse mai verun soggetto cosí grande né conveniente. Imperocché quello che raccontato o letto dopo ventitre secoli, tuttavia spreme da occhi stranieri le lagrime a viva forza, pare che quasi veduto, e certamente udito a magnificare da chicchessia nello stesso fervore della Grecia vincitrice di un’armata quale non si vide in Europa se non allora, fra le maraviglie i tripudj gli applausi le lagrime di tutta una eccellentissima nazione sublimata oltre a quanto si può dire o pensare dalla coscienza della gloria acquistata, e da quell’amore incredibile della patria ch’è passato in compagnia de’secoli antichi, dovesse ispirare in qualsivoglia Greco, massimamente Poeta, affetto e furore onninamente indicibile e sovrumano. Per la qual cosa dolendomi assai che il sovraddetto componimento fosse perduto, alla fine presi cuore di mettermi, come si dice, nei panni di Simonide, e cosí, quanto portava la mediocritá mia, rifare il suo canto, del quale non dubito di affermare, che se non fu maraviglioso, allora e la fama di Simonide fu vano rumore, e gli scritti consumati degnamente dal tempo. Di questo mio fatto, se sia stato coraggio o temerità, sentenzierete Voi, Signor Cavaliere, e altresí, quando vi paia da tanto, giudicherete della seconda Canzone, la quale io v’offro umilmente e semplicemente insieme coll’altra, acceso d’amore verso la povera Italia, e quindi animato di vivissimo affetto e gratitudine e riverenza verso cotesto numero presso che impercettibile d’Italiani che sopravvive. Né temo se non ch’altri mi vituperi e schernisca della indegnitá e miseria del donativo; che quanto a voi non ignoro che siccome l’eccellenza del vostro ingegno vi dimostrerá necessariamente a prima vista la qualitá dell’offerta, cosí la dolcezza del cuor vostro vi sforzerá d’accettarla, per molto ch’ella sia povera e vile, e conoscendo la vanitá del dono, a ogni modo procurerete di scusare la confidenza del donatore, forse anche vi sará grato quello che non ostante la benignitá vostra, vi converrá tenere per dispregevole.