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CAPITOLO XIV.
Come Candido ritrovò la moglie e perdè l'amante.
Non aveva il nostro eroe a soffrire altro che le alterigie del suo padrone, e ciò non era un comprar troppo caro l’affetto della dolce amante. L’amor soddisfatto non si cela così facilmente, come suol dirsi: i nostri amanti si tradirono da loro stessi: il loro accordo non fu più un mistero, se non agli occhi poco penetranti di Volhall, tutti i domestici lo sapevano; Candido ne ricevea de’ mirallegro che lo facevan tremare; aspettava egli la tempesta vicina a cader sopra di lui; e non si sarebbe mai pensato che una persona che gli era stata cara, fosse sul punto d’affrettare la sua disgrazia. Erano alcuni giorni che aveva scorto un volto che si assomigliava a quello di Cunegonda e l’aveva ritrovato ancora alla corte di Volhall; questa tal persona era malissimo vestita e non vi era apparenza che una favorita d’un gran maomettano si trovasse nel cortile d’un palazzo a Copenaghen. Intanto quell’oggetto disaggradevole osservava Candido con moltissima attenzione: quell’oggetto s’avvicinò tutt’a un tratto, e acciuffando Candido per i capelli gli diede il più sonoro schiaffo ch’egli avesse mai ricevuto. — Io non m’inganno, grida il nostro filosofo: oh cielo! chi l’avrebbe mai creduto? che cosa venite a far qui dopo d’esservi lasciata sedurre da un settatrio di Maometto? Andate, perfida sposa, io non vi conosco. — Tu conoscerai i miei furori, replicò Cunegonda: io so la vita che tu meni, il tuo amore per la nipote del tuo padrone, e il tuo disprezzo per me. Ahimè! son tre mesi che ho lasciato il serraglio, perchè non ero più buona a niente; comprommi un mercante per ricucir la sua biancheria, e mi condusse con lui in un viaggio che fece per queste coste. Martino e Cacambo ch’egli avea pur comprati erano nello stesso viaggio: il dottor Pangloss, per il caso più strano del mondo, trovossi nello stesso vascello in qualità di passeggiere. Naufragammo qualche miglio lontano di qui; io scampai dal periglio col fedele Cacambo: qui ti rivedo e ti rivedo infedele. Tremane, e temi quanto si può temere una donna irritata!
Era Candido tutto stupefatto da quella affettuosa scena e lasciava andar Cunegonda, senza pensare a quanto dobbiamo riguardarci da chi conosce il nostro segreto, quando gli si fece innanzi Cacambo. Si abbracciarono teneramente; Candido ascoltò quanto egli veniva a dirgli, e molto si afflisse della perdita del gran Pangloss, che dopo d’essere stato impiccato e abbruciato, s’era annegato miseramente. Essi parlavano con quella tenerezza di cuore che ispira l’amicizia, quando un bigliettino che Zenoide gettò dalla finestra mise fine alla conversazione. Candido l’aprì e vi trovò queste parole:
«Fuggi, mio caro bene; tutto è scoperto. Una inclinazione innocente che la natura autorizza, e che non ferisce in niente la società, è un delitto agli occhi degli uomini creduli e crudeli. Volhall esce dalla mia camera ove mi ha trattata con l’estrema inumanità. Egli va ad ottenere un ordine, per farti perire in un carcere. Fuggi, o troppo caro amante! poni in sicurezza quei giorni che non puoi più passare presso me. Ecco il fine di quei tempi felici, in cui la nostra reciproca tenerezza... Ah misera Zenoide, che hai tu fatto al cielo, per meritare un trattamento sì rigoroso? Io mi perdo: ricordati sempre della tua cara Zenoide. Caro bene, tu vivrai eternamente nel mio cuore: no, tu non hai compreso mai quanto io t’amassi... Possa tu ricevere, sulle mie labbra ardenti, il mio ultimo addio, e l’ultimo mio sospiro! Io mi sento vicina a raggiungere il padre infelice: la luce del giorno ora mi è in orrore; essa non illumina che misfatti.»
Cacambo, sempre saggio e prudente, trascinò Candido che era fuor di sè, ed escirono dalla città per la più corta. Candido non apriva bocca, ed erano già lontani da Copenaghen, ch’egli non era ancor uscito da quella specie di letargo in cui era sepolto. Finalmente volse un guardo al fedele Cacambo, e parlò in questi termini: