Candido/Parte I/Capitolo XXVII

Parte I - Capitolo XXVII

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Voltaire - Candido
Traduzione di anonimo (1882)
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CAPITOLO XXVII.

Ciò che accade a Candido, a Cunegonda, a Pangloss, a Martino, ecc.

– Perdono, per questa volta, dice Candido al barone, perdono, mio reverendo padre, di avervi dato una stoccata traverso il corpo. — Non ne parliamo più, risponde il barone: io fui un po’ troppo vivo, lo confesso ma giacchè volete sapere per quale avventura mi avete veduto in galera, vi dirò, che dopo d’essere stato guarito della mia ferita dal padre speziale del collegio, fui attaccato e preso da un partito spagnuolo, e fui messo in prigione a Buenos-Aires nel tempo che mia sorella ne partiva. Chiesi di tornare a Roma presso il padre generale, e fui nominato per servire quale elemosiniere a Costantinopoli l’ambasciatore di Francia. Non erano otto giorni ch’io era entrato in funzione, quando trovai sulla sera un giovine turco; facea molto caldo; il giovine volle bagnarsi, ed io presi quell’occasione per bagnarmi anch’io. Io non sapea che fosse un delitto capitale per un cristiano l’esser trovato nudo con un giovine musulmano; un cadì mi fece dare cento bastonate sotto le piante de’ piedi, e mi condannò alla galera. Io credo che non possa darsi una più orribile ingiustizia. Ma vorrei sapere perchè mia sorella è nella cucina d’un principe di Transilvania, rifugiato fra’ Turchi?

— Ma voi, mio caro Pangloss, come può darsi che io vi riveda? — È vero, dice Pangloss che voi mi avete veduto impiccare; io dovea naturalmente esser bruciato, ma vi ricorderete che piovve a distesa, allorchè si volea cuocermi; la tempesta fu sì violenta, che si disperò di accendere il fuoco; fui impiccato, perchè non si potea fare di meglio; un chirurgo comprò il mio corpo, e mi condusse a casa sua per notomizzarmi. Mi fece tosto un’incision crociale dall’ombelico fino alla clavicola. Io non potea essere stato impiccato peggio di quel che lo era: [p. 67 modifica]l’esecutore dell’alte opere della santa Inquisizione, il quale era suddiacono, bruciava invero la gente a maraviglia, ma non era accostumato ad impiccare: la corda era bagnata, e scorse male: il nodo era altresì mal fatto; insomma io respirava ancora. L’incisione crociale mi fece alzare un sì gran strido, che il mio chirurgo cadde indietro, e credendo di notomizzare il diavolo, mezzo morto di paura fuggì ruzzolando per la scala. A quello strepito corse la moglie da un gabinetto vicino e vedendomi disteso sulla tavola coll’incision crociale, ebbe maggior paura di suo marito, fuggì e cadde sopra di lui. Quando furono un poco rinvenuti, io sentii che la chirurga diceva al chirurgo: — Mio caro, perchè proporti di notomizzare un eretico? non sai che il diavolo è sempre nei corpi di simil gente? Io vado ora a cercare un prete per esorcizzarlo.

Raccapricciai a tal proposizione, e raccolsi le poche forze che mi restavano per gridare: — Abbiate pietà di me. Allora il barbiere portoghese riprese l’ardire, e ricucì la mia pelle; la sua moglie medesima prese cura di me, ed io fui libero in termine di quindici giorni. Il barbiere mi trovò da servire, e mi fece lacchè d’un cavalier di Malta che andava a Venezia, ma non avendo il mio padrone di che pagarmi, io mi misi al servizio di un mercante veneziano, e lo seguii a Costantinopoli.

Un giorno mi venne la fantasia di entrare in una moschea; non v’era che un vecchio imano, e una giovine bacchettona molto bella che diceva i suoi paternostri; sul seno aveva un bel mazzetto di tulipani, di rose, d’anemoni, di ranuncoli, di giacinti e d’orecchie d’orso. Ella lasciò cadere il suo mazzetto, ed io con una fretta rispettosissima glielo raccolsi, ma l’imano entrò in collera, e vedendo che io era cristiano gridò al sacrilegio. Fui menato dal cadì, egli mi fece dare cento staffilate sotto le piante de’ piedi, e mi condannò alla galera. Fui incatenato appunto nella galera e al banco medesimo del signor barone. V’erano in quella galera quattro giovani marsigliesi, cinque preti napolitani, e due frati di Corfù, i quali ci dissero che simili avventure accadevano tutti i giorni. Il signor barone pretendeva d’aver sofferto una ingiustizia maggiore della mia; noi disputavamo senza fine, e ricevevamo venti nerbate il giorno, quando il concatenamento degli eventi di quest’universo vi ha a noi condotto.»

— Ebbene, mio caro Pangloss, gli dice Candido, quando voi siete stato impiccato, notomizzato, arruotato, ed avete remato nella galera, avete sempre pensato che tutto andava ottimamente? — Io son sempre del mio primo sentimento, risponde Pangloss, perchè finalmente essendo [p. 68 modifica]io filosofo, non mi conviene il disdirmi. Leibnitz non può aver torto, e l’armonia prestabilita è la più bella cosa del mondo, come il pieno e la materia sottile1.

Note

  1. Queste sono le opinioni di Cartesio.