Caccia e Rime (Boccaccio)/Rime/LXII

LXII. Toccami ’l viso zephiro tal volta

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LXII.


Toccami ’l viso zephiro tal volta
     Più che l’usato alquanto impetuoso1,
     Quasi se stesso allora avesse schiuso
     Dal cuoi’ d’Ulixe, et la catena sciolta2.
     Et poi ch’à l’alma tutta in sé racolta,5
     Par ch’e’ mi dica: leva il volto suso;
     Mira la gioia ch’io, da Baia effuso,
     Ti porto in questa nuvola rinvolta3.

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Io lievo gli occhi, et parmi tanto bella
     Veder madonna entr’a quell’aura starse,10
     Che ’l cor vien men sol nel maravigliarse.
     Et com’io veggio lei più presso farse,
     Lievomi per pigliarla et per tenella:
     E ’l vento fugge, et essa spare in quella.


Note

  1. Anche questo sonetto è scritto, come i due precedenti, durante una dimora della Fiammetta a Baia, nella buona stagione (cfr. specialmente, per la menzione di zefiro, LX, 5-8).
  2. Allude al dono, che Eolo fece ad Ulisse, dei venti rinchiusi nell’otre di cuoio bovino (Odissea, X).
  3. Nella dedicatoria del Filostrato esprime, lo scrittore, il medesimo concetto, là dove, detto della lontananza della Fiammetta, afferma che l’unico conforto trovano i suoi occhi ‘riguardando quelle contrade, quelle montagne, quella parte del cielo, fra le quali e sotto la quale’ egli pensa che la donna si trovi, e aggiunge: ‘quindi ogni aura, ogni soave vento che di colà viene così nel viso ricevo, quasi il vostro senza niuno fallo abbia tocco’. Anche a Biancofiore, la quale, separata da Florio, si recava spesso nella parte più alta della casa per veder di lontano la città di Montorio, ‘talvolta avveniva che, stando ella, sentiva alcun soave e picciol venticello venir da quella parte, e ferivala per mezzo la fronte, il quale ella con aperte braccia riceveva nel suo petto dicendo: questo venticello toccò lo mio Florio’ (Filocolo, 11).