Berecche e la guerra/VII. Berecche ragiona
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VII
BERECCHE RAGIONA
Il quartierino nella villetta fuorimano, la pace sognata per gli ultimi anni in quel ritiro quasi campestre, con la villa patrizia davanti — quella cortina di cipressi là, maledetti dalle donne come un tristo presagio di morte — ma pur belli quei cipressi a vedere, che non sanno del funebre ufficio a cui l’uomo li destina e s’indorano al sole, al bel sole che entra per le quattro finestre sul giardino e si stende nelle stanze; e pur belli sotto la luna, la sera, mentre la fontanella chioccola vicino... — ah la fontanella, sí; ma chi l’ascolta piú? e c’è il sole? chi lo vede? chi bada alla luna? Solo quei cipressi là maledetti, ora, si parano davanti, saltano agli occhi, ispidi, lugubri, appena la ghiaja si sente scricchiolare nel giardino sotto i passi di qualcuno.
— No... no... Il guardiano... —
E pianti, strilli, strepiti, che s’odono da lontano; fin dalla via Nomentana, s’odono — e perdio, di questi tempi il cuore d’un galantuomo!... se questa è vita! — Il passante irascibile, col giornale aperto in mano, da cima a fondo occupato dalle notizie della guerra, si ferma e altri passanti fa fermare.
— Sarà una rissa? che diavolo? S’ammazzano anche per niente? —
Due, tre, non reggono alla curiosità, imboccano di corsa la traversa appena tracciata, altri due, tre, li seguono, ma perplessi; si voltano a guardare quelli rimasti su la via, meno curiosi o piú prudenti; guardano intorno (che buon odore di fieno! pare in campagna! ); si risolvono, accorrono anch’essi: davanti al cancello guardano inquieti alle quattro finestre da cui quei pianti, quegli strilli, quegli strepiti s’avventano. Che avviene? Nessuno si muove. Strepitano lí dentro; ma intorno tutto è tranquillo, e il guardiano della villetta, oh eccolo là, pacifico, sta a mangiare. Ma niente, dunque! Qualche disgrazia, una morte, forse?
— Ah, non si sa neppure, e strillano cosí?
— Scomparsi, come?
— Alla guerra? dove, alla guerra? in Francia?
— Ah, non si sa neppure, e strillano cosí? —
Bello, quel villino! s’affitta? sei quartini? Non sarà mica tanto alta la pigione. Ah, sí, tanto? Per questo è tutto sfitto... Bello, sí, al sole... un bel giardino... troppo lontano però... quasi in campagna...
Dio, ma strillare cosí, poi... Sarà la madre, è vero?
— La fidanzata?
— No, questa è la madre... —
Il guardiano fa un cenno come per dire: — «Impazzita...» — e se ne torna a man giare. Se ci son pazzi al mondo, perdio, con la guerra che pende sul capo di tutti, volerci andar prima, come fosse una festa a cui non sembri l’ora d’arrivare...
— No, per questo, ecco, se sono andati in Francia...
— Ma che Francia, mi faccia il piacere! La Francia, caro signore...
— Si difende, aggredita! Il pericolo vero, per noi...
— Ma lasci stare, via, che o di qua o di là...
— Siamo neutrali, siamo neutrali...
— E se n’annamo a magnà, — conclude filosoficamente un operajo: — romano.
Poterlo fare! Da sei giorni, non si mangia, non si dorme in casa Berecche.
Due furie scatenate, la moglie e la figliuola Carlotta. Specialmente la moglie. Scarduffata, strozzata dagli strilli, dal continuo mugolare, corre per casa annaspando, come se cercasse una via di scampo al suo folle dolore. Le corre appresso Carlotta; appresso, le tre povere zitellone sorelle di Monsignore, venute dal villino dirimpetto: magre tutt’e tre allo stesso modo; pettinate e vestite allo stesso modo tutt’e tre, di grigio, con uno scialletto nero sul seno per la morte del Santo Padre; appresso, una dietro l’altra, con la bocca appuntita, gli occhi sbarrati e pietosi, accomodandosi lo scialletto sul seno con le mani inquiete, in un dito il ditale tutt’e tre, perché sono accorse agli strilli mentre stavano a cucire e non sanno come confortare quella madre.
— Signora... — dice una.
E l’altra dice:
— Ma signora...
E la terza:
— Ma signora mia... —
Non può sentirsi dir nulla la madre disperata: grida, grida fino a stracciarsi la gola, levando le braccia e scotendo le mani, frenetica, appena qualcuno accenni di volgerle una parola. Oh benedetto il nome di Dio, benedetto il nome di Dio! Anche Monsignore, venuto jeri, è stato accolto cosí.
La serva... spazzare? Le ha strappato di mano la scopa e l’ha inseguita per darglie la in testa! Ha lanciato per aria guanciali, coperte, lenzuola dai letti che quella s’era messa a rifare; dalla tavola da pranzo ha strappato la tovaglia con tutto il vasellame apparecchiato: un fracasso di piatti bicchieri bottiglie, in frantumi, giú a terra... Vedesse almeno il terrore della povera Margheritina, che al fracasso è balzata dal pianto silenzioso nel suo solito cantuccio, con le manime aggricchiate e tremanti innanzi al petto! Non vede nulla; non ode nulla; di tratto in tratto s’avventa contro l’uscio dello studio; lo sforza a furia di manate, di spallate, di ginocchiate e si scaglia contro il marito, gli si para davanti con le dita artigliate su la faccia, come volesse sbranarlo, e gli urla, feroce:
— Voglio mio figlio! Voglio mio figlio! Assassino! voglio mio figlio! voglio mio figlio! —
Berecche, piú vecchio di vent’anni in sei giorni, non dice nulla: per quanto offeso in fondo dalla volgarità della manifestazione, rispetta lo strazio di quella madre, che è lo strazio suo stesso. Vederlo però con tal furia volgare ritorto contro di lui gli provoca sdegno, e per poco lo strazio accenna d’arrabbiarsi anche in lui e d’insorgere allo stesso modo feroce. Ma lo frena e guarda con cosí acuto spasimo negli occhi la moglie, che questa in prima sbarra i suoi da folle, poi disperatamente rompendo in un pianto che spezza il cuore, gli s’aggrappa al petto, sul petto gli fruga con la testa scarmigliata e geme:
— Dammi mio figlio! Dammi mio figlio! —
E allora Berecche, dapprima con un muto sussultare del petto e delle spalle, poi con un fitto singultío nel naso, si piega a piangere anche lui sul grigio capo scarmigliato della vecchia compagna non amata.
Tutto il primo giorno — sei giorni addietro — passato in un’ansia crescente d’ora in ora, tra un’oscura costernazione e un’irritazione sorda man mano anch’esse crescenti, per il ritardo del figliuolo a rincasare; ritardo sempre piú inescusabile e inesplicabile, perché non c’erano piú dimostrazioni per Roma che potessero far pensare a un arresto, come l’altra volta; — poi, la sera, le corse affannose di qua e di là in cerca di lui, dove si fosse potuto attardare tanto, nei caffè, in casa di qualche amico, nella camera mobiliata di Gino Viesi — e la sorpresa, qui, nel sapere che anche lui, Gino Viesi, uscito dalla mattina alle sette, non s’era piú fatto vedere; poi, la notte, quella prima notte senza il figliuolo in casa, con la casa che sembrava vuota e paurosa, come vuoto e pauroso l’animo di lui; e le ore che passavano a una a una lente, eterne, su la sua ansia pure angosciata dallo sgomento di vederle passare, cosí, a una a una, nella vana attesa alla finestra, con l’ossessione delle vie per cui il figliuolo poteva essersi incamminato, per cui forse camminava ancora nella notte, per allontanarsi sempre piú, sempre piú dalla sua casa, sciagurato! ingrato! ma dove? dove diretto? — e poi l’alba e il silenzio di tutta la casa, orribile, con le donne cedute al sonno tra il pianto, là su le seggiole, col capo su la tavola, sotto il lume ancora acceso — ah, quel lume giallo nell’alba, e quei corpi là, che da sé a poco a poco s’erano composti in atteggiamenti pietosi, rassettati per non soffrir tanto, per trovare un po’ di requie essi almeno, se l’anima nel sonno angoscioso non poteva trovarne! — e poi, al mattino e durante tutto il giorno seguente, le altre corse, tre, quattro, alla Questura, prima per denunziare la scomparsa del figliuolo e di quell’altro là, perché fosse spiccato subito e diramato da per tutto un ordine d’arresto; poi per sapere se qualche notizia fosse giunta; e mai nessuna! — quei no, quel no del delegato rosso lentigginoso, che pure la mattina pareva avesse preso con impegno la cosa nel sentire che forse si trattava di due giovanotti che tentavano di passare in Francia per arruolarsi nella legione garibaldina; e ora piú niente, tutto intento ad altro ora, come se non si ricordasse piú neanche dell’ordine dato; — e le invettive, le aggressioni d’ora in ora piú violente della moglie e della figlia Carlotta, perché erano sicure che Faustino e quell’altro erano scappati via per lui, ma sí, per lui, per lui che aveva fin dall’infanzia oppresso quel figliuolo col metodo tedesco, con la disciplina tedesca, con la coltura tedesca, fino a fargli concepire un odio indomabile, inestinguibile per la Germania, che Dio la danni in eterno! e — ultimamente, in faccia all’altro che piangeva due fratelli uccisi, non aveva forse avuto il coraggio di gridare che l’Austria aveva tutto il diritto di mandarglielial macello quei due fratelli? — lui! lui! — per questo erano scappati, per dargli una giusta risposta, per fare una giusta vendetta dei sentimenti da lui offesi nell’uno e oppressi nell’altro fin dall’infanzia: ebbene, non basta tutto questo? Ce n’è anche d’avanzo per spiegare come Berecche si sia in sei giorni invecchiato di venti anni.
Ma no, non basta invecchiato.
Berecche ora sostiene che non soffre piú nulla, proprio piú nulla. Al massimo, ecco, può ammettere, ammette d’avere l’idea astratta del suo dolore. L’idea astratta, forse sí. Ma non del suo dolore propriamente. Del dolore d’un padre, cosí in genere, a cui sia accaduto quello che è accaduto a lui. In realtà però non sente nulla. Piange, sí... forse, ma come un commediante, come un commediante su la scena, per l’idea soltanto del suo dolore, non perché lo senta. Si figura di sentirlo e lo dà a vedere. Che c’è da spaventarsi, se dice cosí? La prova piú convincente è questa: ch’egli ragiona, ra-gio-na; è in grado ora di ragionare perfettamente, perfettissimamente.
— Ti dico, perdio, che ragiono! — grida al buon Fongi sonnacchioso, che è venuto dalla birreria a fargli visita. — Ragiono! —
Come se il buon Fongi sonnacchioso sostenesse che non è vero.
— E guai se non ragionassi almeno io, qua dentro! Le hai vedute, le hai sentite, quelle due furie? La colpa è mia! Via, dimmi anche tu, dimmi anche tu che la colpa è mia! Mi faresti piacere, sai? Mi rialzerei di piú in mezzo a tutti questi pianti, in mezzo a tutti questi strilli, con l’orgoglio d’esser certo che io solo ho la mia ragione ancora qua! qua! qua! —
E si picchia forte su la fronte.
— Qua per compatire chi m’accusa! qua per compiangere con quelle due disgraziate anche questa miserabile Italia, donna come loro, che non avrà mai ciò che si chiama DISCIPLINA DELLA VITA! Ma non vedi, non vedi che avviene in questa miserabile Italia, perché si è presa una misura di tremenda disciplina — la neutralità? I figli che ti scappano! le madri che urlano! Ti sembra che io non ragioni? —
Il buon Fongi, dal gran naso carnuto, tiene la testa bassa e lo guarda come impaurito di sui cerchietti di platino degli occhiali a staffa. Medico in ritiro, forse pensa, entro di sé, che nessun segno piú manifesto di pazzia che il ragionare, o il credere di ragionare, in certi momenti. A ogni modo, se non proprio impaurito, si mostra per lo meno sbalordito, il buon Fongi, e non risponde né no né sí, quantunque Berecche lo miri con certi occhi che aspettano irosi una risposta affermativa.
— No? dici di no?
— Io? io, veramente...
— Pensi forse che al primo annunzio della dichiarazione di neutralità da parte dell’Italia io mi scagliai contro il governo?
— No, non penso...
— Ma devi pensare, devi pensare, perdio! Io ho bisogno di pensare in questo momento! Mi stai davanti come una marmotta! —
Il buon Fongi si scuote un po; s’affretta a dirgli:
— Ma sí, pensa..., se ti fa bene...
— Tu devi pensare con me! — gli grida Berecche. — Devi pensare che io obbedivo allora, di primo lancio, a un sentimento di lealtà, capisci? A un sentimento di lealtà verso quella nazione che m’aveva insegnato LA DISCIPLINA, la quale... — sai che vuol dire? — vuol dire frenare, frenare, soffocare, se occorre, i sentimenti naturali, di padre, di figlio, tutti i sentimenti naturali, che non vogliono aver legge! Hai capito? Frenare la natura che insorge contro la ragione. Hai capito? Ma mi sono ravveduto subito; ho compreso che la vera disciplina per noi doveva consistere nel soffocare anche questo sentimento di lealtà; e l’ho soffocato! E sono arrivato anche a riconoscere che la Germania ha agito sconsideratamente, capisci? che la Germania ha sbagliato, che la Germania ha perduto la testa... A questo, a questo sono arrivato! —
Si fa sempre più piccolo il buon Fongi, e pare che il naso gli diventi sempre piú grande. Glielo guarda Berecche, quel naso, e a mano a mano si sente crescere contro di esso un’irritazione ingiustificabile. Che naso è quello! che insopportabile realtà, quel naso! Gli scaglia addosso una confessione cosí grave, e niente, ecco, niente: resta lí, immobile; non si commuove. Pacifico, per quanto voluminoso. Non si commuove. Naso romano!
— Sono arrivato a questo! — urla Berecche. — E ad ammettere anche, se vuoi, che s’è messa contro di noi, la Germania, ajutando, per puro pretesto, l’Austria in una guerra offensiva che, rompendo i patti d’alleanza, doveva renderci per forza l’Austria nemica. Era disciplina per noi l’alleanza con l’Austria! La Germania l’ha spezzata, perché, dichiarando una guerra, doveva capirlo che noi, con l’Austria, non potevamo essere piú; non solo, ma dovevamo per forza esser contro l’Austria! A questo ero arrivato! E anche a pensare che se ci saremmo mossi anche noi, e il mio figliuolo, o perché chiamato prima del tempo sotto le armi o perché spinto da un sentimento, a cui io allora non avrei sa puto oppormi, sarebbe andato volontario alla guerra, ci sarei andato anch’io, anch’io cosí come mi vedi, volontario, a cinquantatre anni e con questa pancia, ci sarei andato anch’io! Ma ora, questo figlio, eccolo qua, vedi? s’è voluto mettere contro di me! ha inteso di mettersi contro di me! E perché? Perché, come tutti gli altri, non conosce la disciplina della vita! E contro di me ha messo questa povera madre e la sorella; e spavèntati, Fongi, ora sí, spavèntati: contro di me ha messo anche me stesso! sí, perché c’è anche un padre in me che piange, e a cui io, che conosco la disciplina della vita, sono costretto a gridare: «Va’ là, buffone, non piangere, perché tu hai torto di piangere!» — Piangano gli altri! io non piango, non piango piú, neanche se m’arriva la notizia, vedi? che è morto! Non solo; ma ti dico questo, e te lo dico forte, perché lo sentano anche di là, quelle due furie che vorrebbero impedirmi di ragionare, venendo qua a gridarmi che vogliono da me il fratello, il fidanzato, come se io fossi pazzo come loro; ti dico questo: che adesso io sono di nuovo per la Germania, sí, sí, te lo dico forte, per la Germania, per la Germania, che avrà commesso una pazzia, anzi l’ha commessa di certo, ma vedi che spettacolo offre ancora a tutto il mondo? Se l’è concitato contro e lo tiene a bada tutto il mondo! Impotenti tutti contro lei potente! Che spettacolo è questo! E volete abbatterla? distruggerla? Chi? La Francia, fradicia, la Russia coi piedi di creta, l’Inghilterra? E valgono forse piú di lei? Che valgono di fronte a lei? Niente! Niente! Non la vince nessuno! —
Ah, finalmente! dalla sua balordaggine, cosí battuta, cosí pestata, cosí accoppata dalla fiera invettiva, sorge tutt’a un tratto il buon Fongi col suo gran naso. Per protestare? No. Ha una notizia con sé, una notizia che si tiene in corpo fin dal suo arrivo e che, assalito da tanti pianti, da tanti strilli, non ha trovato ancor modo di metter fuori.
— Io — dice — ho qua una lettera di Faustino. —
Per miracolo Berecche non trabocca giú, tutt’in un fascio. Diventa pallidissimo, poi, tutt’a un tratto, paonazzo; si scaglia addosso al Fongi, come se Fongi se ne volesse scappare:
— Tu? — gli grida. — Una lettera? di Faustino? —
E piange e ride e trema tutto e col passo legato corre a gridar nel corridojo:
— Una lettera... una lettera di Faustino!... subito!... Margheritina, Margheritina, conducete anche Margheritina! —
E mentre la moglie e Carlotta con Margheritina per mano irrompono nello studio, ansanti, frementi d’impazienza, strappa con le mani che gli ballano dalle mani del Fongi la lettera e si prova a leggerla forte.
— Diretta a lui.
— A lei?
— Già...
— Caro... ecco... Caro signor... oh Dio... caro signor Fongi... —
Non può. La vista, la voce, il fiato, anche le gambe gli mancano. S’abbandona su una seggiola e cede a Carlotta la lettera, perché la legga lei.
La lettera è datata da Nizza e dice cosí:
Caro signor Fongi,
So l’affetto che Ella ha per mio padre e mi rivolgo a Lei per pregarla di recarsi da lui, appena riceverà questa mia, ad annunziargli ciò che del resto forse a quest’ora avrà indovinato, e lascio immaginare a Lei con quale sdegno e con quanto dolore.
Ma gli dica, signor Fongi, che io non sono venuto qua a combattere per la Francia. Ne sarà contento! Sono venuto qua, perché convinto (e Dio volesse a torto!) che l’Italia, «ancella» come sempre e ora senza padroni, non farà nulla. I due che aveva — l’uno cattivo, che l’ha sempre angariata; l’altro che s’è dato sempre l’aria di proteggerla, piccola vecchia signora decaduta, tutt’a un tratto, senza neppur licenziarla, senza neppur dirle che potevano anche fare a meno dei suoi servizii, l’hanno lasciata sola e si sono messi a sbrigare da sé le loro faccende. Ora la povera Italia, neppur certa d’essere stata licenziata, non sa che fare né dove andare. Ha paura degli antichi padroni, e ha paura di mettersi a servizio di nuovi che dalle agenzie di collocamento, dette Ambasciate, la richiedono e le fanno pressanti esibizioni. Da che parte voltarsi, tra chi le dice di stendere questo o quel braccio per riprendersi di qua o di là quello che era suo e che tutti le hanno preso? Star sola, da sé, la povera signora decaduta non sa e non può, avvezza come è ormai da tanto tempo a servire padroni per poса mercede negli appartamenti della sua casa antica, magnifica, ariosa, piena di sole, in luogo ridente e fiorito. Molte cose belle, lo so, e molte cose grandi e gloriose sono in questa casa antica, di cui la povera signora decaduta ha fatto una locanda; ma vi son pure cose tristi e una grande miseria, specialmente nell’anima deifigli di questa signora, nati servitori. La mamma li ha educati alla prudenza, alla tolleranza, a far le viste di non capire, di non sentire; a prendersi anche in santa pace, se capita, uno schiaffo per mancia, rispondendo con un bell’inchino: — Grazie, signore! — ; li ha educati a portare con disinvoltura tutte le livree come l’abito a loro piú proprio, a spazzolare con disinvoltura dalle falde di ciascuna l’impronta dei calci ricevuti, e a star bene attenti nel fare i conti, che spesso, ahimè, povera mamma, le sono venuti sbagliati a suo danno. Ebbene, signor Fongi, dica a mio padre che io sono qua in Francia, non per la Francia, con altri miei compagni — non molti, oh non molti! — ma soltanto per dimostrare che tra tanta prudenza, tra tanta tolleranza, tra tanta accortezza per non sbagliare i conti e tanta perplessità nel decidere quale livrea convenga meglio indossare in questo momento, c’è pure in Italia... niente, un po’ di gioventú sprecata, anche un po’ di gioventú che non sa fare i conti e non sa essere accorta e prudente, un po’ di gioventú, ecco. Alla nostra madre Italia non serve, forse non servirà; anzi le farà danno dentro; siamo venuti a gettarla qua fuori per lei. La mia mamma piccola dirà: — Ma come? e non c’ero io, che sono pur mamma? a me sí, tu mi servi! — È vero, mamma, ma pensa che questo è un momento che tutte le piccole mamme, come i loro figli, bisogna che si sentano figlie piccole anche esse d’una mammа piú grande. Io sono qua per te, se sono venuto per questa grande mamma comune, benché tu forse ora creda il contrario!
Le baci per me la mano, signor Fongi, e la assicuri che io le darò frequenti notizie di me; conforti mio padre, che forse soffre tanto di non potermi perdonare; baci le mie sorelle e dica a Carlotta che Gino è qua con me e che questa notte le scriverà a lungo. A Lei, signor Fongi, i miei piú vivi ringraziamenti e un rispettoso e cordiale saluto.
Suo dev.mo Fausto Berecche
Piangono tutti.
Hanno pianto, durante la lettura, piano, per non perdere una sillaba. Ora che la lettura è finita, seguitano a piangere piano, ancora per poco, come per non sperdere l’eco d’una voce lontana.
Fongi mormora, piano, quasi tra sé:
— Nobilissimo... nobilissimo... —
Berecche alla fine balza in piedi, soffocato, e si butta arrangolando sulla moglie; se la stringe tra le braccia, china di nuovo il viso sul capo di lei, e tutt’e due ora cosí stretti piangono forte, sussultando. Carlotta abbraccia Margheritina e piangono forte anch’esse. Il buon Fongi, dal canto suo, si torce per cavare dalla tasca di dietro della lunga finanziera il fazzoletto. Il gran naso pacifico gli s’è proprio commosso alla fine, e se lo soffia a piú riprese, forte, ripetendo a ogni ripresa con un moto del capo di profonda convinzione:
— Nobilissimo... nobilissimo... —