Berecche e la guerra/VI. Il signor Livo Truppel
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VI
IL SIGNOR LIVO TRUPPEL
Non se l’è mica dato né scelto da sé, il signor Truppel, quel cognome; gli è venuto da suo padre, morto a Zurigo da tanti anni; e non ci tiene.
Forse lí a Zurigo, chiamarsi Truppel voleva dire qualche cosa; ma fuori del paese natale, cioè fuori delle relazioni, parentele e conoscenze, che cos’è piú un cognome? Per uno sconosciuto, tanto vale chiamarsi Truppel quanto chiamarsi in un altro modo qualsiasi. Se non fosse per aver le carte in regola...
Il signor Livo, per conto suo, dentro di sé, si conosce un’anima pacifica, senza cognome, senza stato civile, né nazionalità; un’anima per due occhi aperta qua, come altrove, all’inganno delle cose che certamente non sono come appajono, se un po’ si vedono in un modo e un po’ in un altro, a seconda dell’animo e degli umori. Egli fa di tutto per non alterarselo mai, il suo modo, e si contenta di poco, perché quel poco sa gustarselo in pace e con saggezza, come gli innocenti piaceri della natura, la quale, a dir vero, è una di tutti e non sa né di patrie né di confini.
Candido com’è, e di tenero cuore, al signor Truppel piacciono specialmente le giornate di nuvole chiare, quelle dopo le piogge, quando c’è sapore di terra bagnata e nell’umida luce l’illusione delle piante e degli insetti, che sia di nuovo primavera. Di notte, guarda quelle nuvole che dilagano su le stelle e le annegano per poi lasciarle riapparire su brevi profonde radure d’azzurro. Guarda anche lui, come il suocero, quelle stelle; sogna senza sogni, e sospira.
Di giorno, il signor Truppel si considera un brav’uomo nella vita. Un brav’uomo, cosí, e basta. Non già a Roma, cioè in Italia, o altrove: no, nella vita. Cosí, e basta. Anzi, propriamente, un bravo orologiajo, nella vita.
Tutto circoscritto nei limiti del suo banco ricoperto di candida tela cerata dietro la vetrina della sua bottega in via Condotti, s’incastra nell’occhio destro il monocolo a cannoncino e, curvo su la pinzetta fissata al banco, prova e riprova con inesauribile pazienza sul pezzo da accomodare i tanti piccoli attrezzi del suo pazientissimo mestiere, lime, seghe e calibri, nel silenzio trapunto dall’assiduo acuto sottile pulsare dei cento orologi.
Non gli passa minimamente per il capo, nell’adoperare con infinita delicatezza quegli esili strumentini sul fragile congegno complicato degli orologi, che in quello stesso momento, altrove, per tanta parte d’Europa, uomini come lui a milioni ben altri strumenti adoperano, fucili, cannoni, bajonette, bombe a mano, per un lavoro ben diverso di questo suo, d’accomodare orologi; e che il silenzio vibrante qua attorno a lui dall’acuzie di quel ticchettío continuo, appena percettibile, è straziato altrove dall’orrendo rimbombo d’obici e di mortai.
Il suo mondo, la sua vita son concentrati lí, di giorno, in una calotta d’orologio; come, di notte, sciolta ormai da quasi tutte le passioni terrene, la vita del suo spirito è assorbita nella contemplazione dell’armonia di ben altre sfere: quelle celesti.
Benché il signor Truppel paja uno stupido, si può giurare dal modo come sorride voltandosi, a richiamarlo da quelle sue celesti contemplazioni, ch’egli non considera il firmamento come un sistema d’orologeria.
È rimasto perciò propriamente come uno che caschi dalle nuvole, l’altra sera, allorché, uscito sulla strada per abbassare la saracinesca, s’è vista addosso una grossa frotta di dimostranti, la quale, passando come un uragano, s’è avventata contro la sua bottega di orologiajo e gli ha fracassato in un batter d’occhio insegna, sporti, vetrina, ogni cosa.
Passato il primo sbalordimento per il fracasso dei vetri rotti, il signor Livo Truppel non temette tanto per sé, quanto per il fratello, suo socio nell’orologeria e di natura ben altra dalla sua: ispido, cupo e bestiale.
Tondo tondo, biondo biondo, il signor Livo si buttò avanti, parando con le manine bianche grassocce, con gli occhi pieni di lagrime, quegli occhi che di solito hanno la limpida chiarità ridente dello zaffiro, a gridare a quei dimostranti ch’egli era svizzero e non tedesco, svizzero e non tedesco, svizzero, svizzero, da piú di venticinque anni in Italia, e genero di un italiano, il signor professor Berecche. Sí, a chi lo gridò? ai suoi vicini di bottega che lo conoscono bene e sanno tutti che perla d’uomo sia. I dimostranti, fatto il danno, s’erano già allontanati da un pezzo, sicurissimi d’aver compiuto un atto, se non proprio eroico, certo molto patriottico. Ma il danno, anche quello, via, roba da poco. Il guajo, il vero guajo, è stato per il fratello, che il signor Truppel credeva ancora dentro la bottega, e invece no, non c’era piú. Terteuffel!, corso dietro a quei dimostranti, imbestialito.
Orbene, questo fatto, che per il pacifico signor Truppel ha avuto l’importanza di un semplice malinteso tra lui e la popolazione romana, a causa del suo cognome tedesco (malinteso deplorevole, sí, ma da non farne poi un gran caso), certamente non sarebbe stato cagione di gravi dispiaceri in famiglia, se il fratello non avesse riconosciuto tra quella frotta di dimostranti Faustino, il suo piccolo cognato.
Il fratello, bisogna dire la verità, non gli ha imposto d’abbandonare la moglie e il tetto coniugale per seguitare a convivere con lui in una casa a parte. No, ma ha preteso e si è fatto promettere e giurare che almeno non avrebbe rimesso piede mai piú nella casa del suocero e che se il suocero verrà qualche sera da lui a visitare la figliuola egli, ove non riesca lí per lí a trovare una scusa per andarsene fuori di casa, oltre il saluto non gli rivol gerà la parola e, dopo il saluto, sputerà in terra: cosí!
Sputare in terra?
Sí, sputare in terra; cosí!
Il signor Truppel ha guardato afflittissimo per terra lo sputo del fratello, ed è stato lí lí per cavare di tasca un fazzoletto per andare a pulire.
— No! no! sputare in terra — gli ha gridato il fratello, — sputare in terra. Cosí! —
E ha sputato di nuovo.
Santo nome di Dio benedetto! Se non sa sputare, lui, se non sputa mai neppure nel fazzoletto, da quella brava persona che è! Sí, sí, va bene: il signor Truppel ha promesso, giurato, per placare il fratello; ma, passato il primo momento, si sa che valore hanno certe promesse e certi giuramenti anche per coloro a cui sono fatti.
Il signor Livo Truppel, intanto, per ogni buon fine si propone d’andar di nascosto in casa del suocero per scongiurarlo di non venire da lui almeno per qualche tempo.
Ma il giorno che ci va, trova nella casa del suocero un tale scompiglio, e per una ragione cosí inopinata, che il signor Livo Truppel stima prudente tornarsene indietro senza farsi vedere da nessuno.