Berecche e la guerra/V. La guerra nel mondo

V. La guerra nel mondo

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V

LA GUERRA NEL MONDO

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S
’È fatto sera. Ma egli resta al bujo nel suo studio e passeggia con una mano su la bocca, guardando di tanto in tanto l’estremo barlume del crepuscolo ai vetri delle due finestre. Scorge da una il lampadino rosso già acceso innanzi alla Madonnina del villino dirimpetto; aggrotta le ciglia e si appressa alla finestra. Vede allora, al lume della grossa lampada che si projetta dal vestibolo, uscire di casa e attraversare il giardino sua moglie con Margheritina per mano.

Va, che non pare, la piccola cara. Quasi non pare, se non si sapesse. Almeno a guardarla cosí di dietro. Forse perché si fida della mano che la guida. Solo, a osservarla attentamente, tiene la testina un pochino rigida sul collo, e le spallucce un pochino rialzate. La ghiaja non stride sotto i suoi piedini, perché l’anima è levata per non toccare quel che non vede, e il corpicciuolo quasi non pesa.

Ma dove va con la mamma a quest’ora? E Faustino, come non è ancora rincasato? Sarà andato via Gino Viesi? [p. 58 modifica]

Berecche si reca a far tutte queste domande a Carlotta. Nella saletta da pranzo non c’è piú nessuno. Carlotta s’è chiusa nella sua stanza e seguita a piangere, anch’essa al bujo; risponde alle domande col tono secco e sgarbato della madre: — Gino? Andato via. — Faustino? Che ne sa lei? — La mamma? Con Ghetina, da Monsignore, per la novena.

Da tre sere, nel villino di Monsignore dirimpetto, si fanno preghiere per il Papa che sta male, per il Papa che muore.

Berecche rientra nello studio, si riappressa alla finestra e guarda al villino dirimpetto, con l’animo ora oscurato e compreso di cordoglio per questo Papa, santo vecchio paesano, cui solo la schiettezza grande della fede fa degno del gran seggio. Ah, chi piú di lui, Pio veramente, volle richiamar Cristo nel cuore dei fedeli? E muore in mezzo a tanta guerra, ucciso dal dolore di tanta guerra. Certo, sul suo letto di morte, egli non dirà, come forse dice piano qualcuno accanto a lui, che questa guerra è per la Francia la retribuzione giusta di Dio per i suoi torti verso la Chiesa. Piú nefandi peccatori per lui sono certo quegli altri che hanno osato chiamar [p. 59 modifica]Dio a proteggere la marcia e la carneficina dei loro eserciti e il segno della divina protezione hanno osato vedere ed esaltare nelle atrocità delle loro vittorie. Egli non ha detto piú nulla; con orrore ha ritratto la mano, che altri voleva levata a benedire questa scelleraggine mostruosa; e s’è chiuso nel dolore che l’uccide.

Lume maledetto della ragione! Ragione maledetta, che non sa accecarsi nella fede! Lui Berecche vede, o crede di vedere con questo lume tante cose che gl’impediscono ora di pregare con la sua piccola figliuola Margherita, cieca nella cieca fede, per il Papa buono che muore. Ma è contento, sí, ch’ella preghi di là, la sua Margheritina; è contento che una parte di lui, cosí angosciosamente amata, priva di quel suo lume di ragione, cieca preghi di là per il buon Papa che muore. Gli sembra veramente che con le pallide gracili mani di quella sua piccola cieca, giunte nella preghiera, egli, della sua anima che per sé non sa pregare, dia adesso qualcosa — quel che può — in suffragio del buon Papa che muore. [p. 60 modifica]

Intanto, si fanno le otto della sera; poi le nove, poi le dieci, e Faustino ancora non rincasa.

La madre, ritornata da un pezzo con Ghetina dal villino di Monsignore, e la sorella Carlotta sono entrate piú volte nello studio a manifestare la loro costernazione, a scongiurarlo a mani giunte di muoversi, d’andare in cerca di lui, per sapere almeno se qualche disgrazia, Dio liberi, non sia accaduta con quelle maledette dimostrazioni.

Berecche le ha cacciate via, furente, ha gridato loro in faccia di non volersi muovere perché di quel mascalzoncino là non gliene importa piú nulla, non lo considera piú come suo figliuolo, e se l’hanno calpestato, ferito, arrestato, piacere, piacere, piacere.

Finalmente, poco dopo le dieci e mezzo, Faustino rincasa, con addosso una gran paura del padre, ma pure acceso e vibrante ancora di quanto gli è accaduto. Lo hanno arrestato. Ma vibra di sdegno, di nausea, per l’ira dei soldati, ah, per fortuna pochi, che lo hanno arrestato, malmenandolo e gridandogli: [p. 61 modifica]

— Vigliacco, fai cosí perché non dovrai andarci tu, domani, alla guerra!

E ora lui vuole andarci, vuole andarci, vuole andarci, alla guerra, per dare a quei soldati che lo hanno arrestato una degna risposta.

— Zitto! — gli grida la madre piú scarmigliata che mai. — Se tuo padre ti sente di là! —

Ma Berecche non si muove dallo studio. Non vuol vederlo. Alla moglie che viene ad annunziargli che è ritornato, ordina di dirgli che non s’arrischi a farsi vedere. Poco dopo, Carlotta sporge il capo dall’uscio:

— La cena è pronta. Fausto è in camera sua.

— Resto io, qua! Mi porti qua da cena la serva. Non voglio veder nessuno! —


Ma non può cenare. Ha un nodo alla gola, piú di rabbia che d’angoscia. A poco a poco però comincia a calmarsi, a cadere quasi in un letargo grave, attonito, a lui ben noto. È la ragione filosofica, che pian piano, come si fa sera, riprende in lui il predominio.

Berecche si alza, s’appressa alla finestra piú [p. 62 modifica]vicina, siede e si mette a guardare le stelle.

La vede per gli spazii senza fine, come forse nessuna o appena forse qualcuna di quelle stelle la può vedere, questa piccola Terra che va e va, senza un fine che si sappia, per quegli spazii di cui non si sa la fine. Va, granellino infimo, gocciolina d’acqua nera, e il vento della corsa cancella in uno striscio violento di tenue barlume i segni accesi dell’abitazione degli uomini in quella poca parte in cui il granellino non è liquido. Se nei cieli si sapesse che in quello striscio di tenue barlume son milioni e milioni d’esseri irrequieti, che da quel granellino lí credono sul serio di potere dettar legge a tutto quanto l’universo, imporgli la loro ragione, il loro sentimento, il loro Dio, il piccolo Dio nato nelle animucce loro e ch’essi credono creatore di quei cieli, di tutte quelle stelle: ed ecco, se lo pigliano, questo Dio che ha creato i cieli e tutte le stelle, e se lo adorano e se lo vestono a modo loro e gli chiedono conto delle loro piccole miserie e protezione anche nei loro affari piú tristi, nelle loro stolide guerre. Se nei cieli si sapesse, che in quest’ora del tempo che non ha fine questi milioni e milioni d’esseri impercet[p. 63 modifica]tibili, in questo striscio di tenue barlume, sono tutti quanti tra loro in furibonda zuffa per ragioni che credono supreme per la loro esistenza e di cui i cieli, le stelle, il Dio creatore di questi cieli, di tutte queste stelle, debbano occuparsi minuto per minuto, seriamente impegnati in favore degli uni o degli altri. C’è qualcuno che pensi che nei cieli non c’è tempo? che tutto s’inabissa e vanisce in questo vuoto tenebroso senza fine? e che su questo stesso granellino, domani, tra mille anni, non sarà piú nulla o ben poco si dirà di questa guerra ch’ora ci sembra immane e formidabile?

Ricorda Berecche com’egli insegnava, or son pochi anni, la storia ai suoi alunni di liceo: — Intorno al 950, ridotti in obbedienza i Danesi che gli si erano ribellati, passò Ottone in Boemia a combattere il duca Bodeslao, ch’erasi costituito indipendente, e spintosi fin davanti a Praga costrinse quel duca a ritornare vassallo del germanico regno. Nel tempo stesso il fratel suo Enrico usciva in campo contro gli Ungari e li cacciava oltre la Theiss togliendo loro le conquiste fatte sotto il regno di Lodovico il Bimbo...

Domani, tra mille anni, un altro Berecche [p. 64 modifica]professore di storia dirà ai suoi alunni, che intorno al 1914 c’erano ancora potenti e fiorenti nel centro d’Europa due imperi: uno detto di Germania, su cui sedeva un Guglielmo II d’una dinastia scomparsa, che pare fosse detta degli Hohenzollern; e detto, l’altro, impero d’Austria, su cui sedeva vecchissimo un Francesco Giuseppe della dinastia degli Absburgo. Erano questi due imperatori tra loro alleati e forse entrambi, almeno a quanto si suppone per certi dati, benché a lume di logica non paja verosimile, alleati anche col re d’Italia, un Vittorio Emanuele Terzo della dinastia di Savoia, il quale però, almeno in principio, mancò alla guerra che quell’imperatore di Germania, togliendo — pare — a pretesto l’uccisione per mano dei Serbi d’un tal Francesco Ferdinando arciduca ereditario d’Austria, stupidamente mosse contro la Russia, la Francia e l’Inghilterra, allora anche esse alleate tra loro e potentissime, una segnatamente, l’Inghilterra, padrona in quel tempo dei mari e d’innumerevoli colonie.

Cosí, tra mille anni — pensa Berecche — questa atrocissima guerra, che ora riempie [p. 65 modifica]d’orrore il mondo intero, sarà in poche righe ristretta nella grande storia degli uomini; e nessun cenno di tutte le piccole storie di queste migliaja e migliaja di esseri oscuri, che ora scompajono travolti in essa, ciascuno dei quali avrà pure accolto il mondo, tutto il mondo in sé e sarà stato almeno per un attimo della sua vita eterno, con questa terra e questo cielo sfavillante di stelle nell’anima e la propria casetta lontana lontana, e i proprii cari, il padre, la madre, la sposa, le sorelle, in lagrime e, forse, ignari ancora e in tenti ai loro giuochi, i piccoli figli, lontani lontani. Quanti, feriti non raccolti, morenti su la neve, nel fango, si ricompongono in attesa della morte e guardano innanzi a sé con occhi pietosi e vani, e piú non sanno vedere la ragione della ferocia che ha spezzato sul meglio, d’un tratto, la loro giovinezza, i loro affetti, tutto per sempre, come niente! Nessun cenno. Nessuno saprà. Chi le sa, anche adesso, tutte le piccole, innumerevoli storie, una in ogni anima dei milioni e milioni d’uomini di fronte gli uni agli altri per uccidersi? Anche adesso, poche righe nei bollettini degli Stati Maggiori: — s’è progredito, [p. 66 modifica]s’è indietreggiato; tre, quattro mila tra morti, feriti e scomparsi. E basta.

Che resterà domani dei diarii della guerra su per i giornali, ove una minima parte di queste piccole innumerevoli storie sono ap pena, in brevi tratti, accennate? Quei galletti, quei galletti che all’alba cantavano a Belgrado deserta e bombardata dai cannoni austriaci, al principio della guerra... Oh, cari galletti, ecco, di qui a mill’anni Berecche, se potesse ritornare al mondo a insegnare la storia di mill’anni addietro, quando ogni memoria dei fatti che ora ci sembrano enormi sarà cancellata e tutta questa immane guerra sarà per gli uomini venturi ristretta in poche righe, ecco, di voi, cari galletti, vorrebbe ricordarsi Berecche e dire che voi cantavate all’alba, a Belgrado, come se nulla fosse, tra le bombe che scoppiavano su le case deserte, fumanti.

No: questa non è una grande guerra; sarà un macello grande; una grande guerra non è perché nessuna grande idealità la muove e la sostiene. Questa è guerra di mercato: guerra d’un popolo bestione, troppo presto cresciuto e troppo faccente e saccente, che ha voluto [p. 67 modifica]aggredire per imporre a tutti la sua merce e, bene armata e azzampata, la sua saccenteria.

Con quest’ultima considerazione Berecche si leva; passeggia, aggrondato, ancora un po’ per lo studio; poi esce sul corridojo; vede accostato l’uscio della camera del suo figliuolo; stende una mano e pian piano lo schiude. Faustino è a letto, con le coperte tirate fin sotto il naso; ma ha gli occhi sbarrati nel bujo della cameretta, accesi ancora e brillanti di sdegno. Subito, vedendo entrare il padre, li chiude e finge di dormire placidamente.

Berecche lo guata, accigliato; tentenna il capo, vedendo in giro la cameretta in disordine; poi, con le mani in tasca, avviandosi per uscire, dice piano, strascicato, con un tono apparentemente di derisione per il figliuolo, ma che in realtà esprime il suo sentimento cangiato:

— Viva... già! viva il Belgio... viva la Francia... —