Ben Hur/Libro Quarto/Capitolo V

Capitolo V

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CAPITOLO V.


Allorchè Ben Hur uscì dal vasto magazzeno, il pensiero prevalente in lui era quello di un altro disinganno aggiuntosi ai molti che aveva già sofferto nella ricerca dei suoi cari. Questo pensiero lo riempì di una grande desolazione. Si sentì solo al mondo, e, giovane e ricco com’era, la vita gli parve divenuta un peso troppo grave da sopportarsi.

Facendosi strada fra la folla ed i mucchi di mercanzia, giunse al termine dell’approdo. Le acque del fiume apparivano più profonde e più oscure in quel punto per l’ombra delle case e degli alberi vicini; ed egli ne provò il fascino insidioso. La pigra corrente sembrava arrestarsi nel suo cammino, quasi lo attendesse; — ma a rompere l’incanto venne il ricordo delle parole del suo compagno di viaggio, che gli parve di riudire:

— «Meglio un verme e nutrirsi delle more di Dafne, che essere ospite di un Re.» — Si volse, e camminando rapidamente, fece ritorno al Khan.

— «La via per Dafne?» — esclamò l’albergatore, sorpreso dalla domanda di Ben Hur. — E’ la prima volta che venite in questa città? Allora questo giorno è fra i più felici della vostra vita. Non potete sbagliare la strada. La prima via verso mezzogiorno conduce direttamente al monte Sulpio sulla vetta del quale sono l’altare di Giove e l’anfiteatro; pigliate la terza via trasversale chiamata la colonnata d’Erode; là, voltate a destra e seguite la via attraverso la grande città [p. 187 modifica]di Seleucia fino alle porte di bronzo d’Epifane. In quel punto incomincia la via di Dafne — e che gli Dei vi proteggano.» —

Dopo aver dato alcuni ordini relativi al suo bagaglio, Ben-Hur si pose in cammino.

Non ebbe difficoltà a trovare la colonnata d’Erode; da quella, alle porte di bronzo correva un lungo porticato di marmo, che egli percorse fra mezzo ad una folla di gente composta dei rappresentanti di tutte le nazioni commerciali del mondo.

Era la quarta ora del giorno, quando oltrepassò le porte e si trovò in mezzo ad una interminabile processione diretta al bosco famoso. La strada era divisa in vie separate, una pei pedoni, una pei cavalieri e i cocchi; ed anche queste erano suddivise in due altre vie parallele per le quali, due correnti di persone si movevano in direzione opposta. Le linee di demarcazione erano segnate da basse balaustrate interrotte da statue poggianti su solidi piedestalli. A destra ed a sinistra della strada estendevansi magnifici prati ed aiuole, accuratamente tenuti, alternati di quando in quando da gruppi di querele, di siccomori e da pergolati di viti che invitavano i passeggieri a riposare. Le vie riservate ai pedoni erano lastricate di pietra rossiccia e quelle pei cavalieri erano cosparse di bianca arena compressa in modo da darle la consistenza di un marciapiede, senza però che, come questo, echeggiasse lo scalpitar dei cavalli ed il frastuono delle ruote. Innumerevoli fontane di varie e meravigliose foggie lanciavano i loro zampilli nell’aria; erano doni di Re che avevano voluto così eternare il ricordo delle loro visite. All’ingresso del bosco, a sudovest, fino alla città, questa magnifica strada misurava oltre quattro miglia in lunghezza.

Nello stato d’animo in cui si trovava Ben Hur, lo splendore regale della via passò quasi inosservato; e i suoi sguardi non si arrestarono neppure sulla folla che s’avviava insieme a lui come in processione. A dire il vero alla sua preoccupazione si univa anche una buona dose di quella compiacenza orgogliosa propria del Romano che visitava la provincia, mentre erano ancora fresche in lui l’impressioni della vita fastosa che s’agitava quotidianamente intorno alla colonna d’oro posta da Augusto nel Foro, come per indicare il perno del mondo. Non era possibile che le Provincie offrissero uno spettacolo più grandioso.

Impaziente per la lentezza dei suoi vicini, egli spiava ogni [p. 188 modifica]varco della folla, per approfittarne e portarsi avanti più rapidamente. Quando giunse ad Eraclea, villaggio suburbano a mezza strada fra la città ed il bosco, il movimento della folla festante cominciò a far sentire i suoi effetti sopra di lui, predisponendo il suo animo ad accogliere impressioni più gioconde. La sua attenzione fu dapprima attirata da un paio di capre guidate da una avvenente fanciulla; tanto le bestie come la loro guida erano festosamente ornate di nastri o fiori. Poi si fermò ad osservare un toro immenso, bianco come la neve, inghirlandato di viti e portante sull’ampia groppa un fanciullo nudo, immagine del giovane Bacco, il quale, seduto in un canestro, teneva in mano un calice colmo di vino.

A quali altari avrebbero servito quelle offerte? si domandò rimettendosi in cammino. Passò un cavallo con la criniera mozzata come lo esigeva la moda, montato da un cavaliere vestito con sfarzo. Ben Hur sorrise vedendo l’orgoglio dell’uno rispecchiarsi nell’altro. Cavalli e cocchi in grande numero continuarono a passare dinanzi a lui sulla strada a loro riservata, e, inconsciamente, quel moto e quella festa cominciarono ad interessarlo. Le persone che l’attorniavano erano di tutte le età, sessi e condizioni, tutti vestiti dei loro abiti di festa. Un gruppo era abbigliato uniformemente di bianco, un’altro di nero; alcuni portavano bandiere, altri turribuli fumanti; altri cantavano inni, ed eran seguiti da individui con flauti e tamburelli. Quale luogo meraviglioso doveva essere questo di Dafne, se ogni giorno vi si recava tanta gente!

Finalmente vi fu un batter di mani ed uno scoppio di grida gioconde; e, seguendo l’indicazione di molte dita, egli scorse sulla cima di una collina il tempio che serviva d’ingresso al bosco consacrato. Gli inni s’inalzarono con maggior foga, la musica accelerò i tempi, e Ben Hur, dividendo l’impazienza della folla, e trascinato dall’impetuosa corrente, mosse verso il tempio, oltrepassata la soglia del quale, romanizzato com’era nei costumi, il suo primo impulso fu quello di cadere in adorazione davanti a quel luogo.

A tergo dell’edificio che ornava l’ingresso, d’una costruzione di stile severamente greco, si stendeva una larga spianata lastricata di pietre luccicanti, ora quasi nascoste sotto una moltitudine di persone gaie ed irrequiete, spiccante sopra uno sfondo di iridescenti zampilli prorompenti da fontane marmoree.

[p. 189 modifica]Dinanzi a lui in direzione di sud ovest si diramavano gli innumerevoli sentieri di un giardino, il quale, si mutava più in là in una foresta, sulla quale, in quel momento, aleggiava una nube di un leggero vapore turchino. Ben Hur contemplava il panorama, pensoso ed incerto, quando una donna vicino a lui esclamò: «Bellissimo spettacolo! ma dove si deve andare adesso?» — Un uomo col capo cinto di bacche d’alloro e che la accompagnava, rise e rispose: «Bellissima barbara! La tua domanda mi sa di paura terrena, e abbiamo convenuto di lasciare questi pensieri in Antiocchia. I venti che qui soffiano sono l’alito degli Dei. Abbandoniamoci ad essi.» —

— «Ma se ci smarrissimo?» —

— «Oh, paurosa! nessuno si è mai perduto in Dafne eccetto quelli sui quali le sue porte si sono chiuse per sempre.» —

— «E chi son costoro?» chiese la donna tuttora conturbata.

— Son quelli che si sono abbandonati al fascino del luogo e lo hanno scelto a dimora per la vita e per la morte. Ascolta! Fermiamoci qui, e ti mostrerò quelli di cui parlo.» —

Sul marmoreo pavimento risuonò uno stropiccìo di piedi calzati di sandali; la folla si aprì e lasciò l’adito ad un gruppo di ragazze, le quali, accerchiati i due interlocutori, intonarono un canto; indi agitando i tamburelli cominciarono a ballare. La donna, sbigottita, s’aggrappò all’uomo, il quale, cintale la vita con un braccio, acceso in volto, batteva coll’altro il tempo della musica. I capelli delle danzatrici svolazzavano liberamente e le loro membra rosee s’intravvedevano sotto le vesti di garza che imperfettamente le coprivano. Non è concesso alla parola il descrivere la voluttà di quella danza.

Dopo un breve giro si aprirono un varco nella sala e scomparvero rapidamente come erano venute.

— «Che te ne pare?» — chiese l’uomo alla sua compagna.

— «Chi son desse?» — chiese a sua volta la donna.

— «Devadasi — sacerdotesse dedicate al Tempio d’Apollo. Ve ne sono eserciti. Sono esse che cantano in coro nelle feste. Questa è la loro dimora. Qualche volta visitano altre città, ma tutto quanto raccolgono è portato qui ad arricchire la casa del divino cantore. Dobbiamo andare?» —

Ben Hur, lieto di sapere che nessuno s’era mai perduto [p. 190 modifica]nel bosco di Dafne, infilò una qualunque delle vie che gli si aprivano dinanzi e penetrò nel giardino. Una statua, innalzata sopra un magnifico piedestallo attrasse per primo i suoi sguardi. — Raffigurava un centauro e un’iscrizione spiegava ai visitatori meno eruditi che quello era Chirone, amato da Apollo e Diana, da loro iniziato ai misteri della caccia, della medicina, della musica e della profezia. Nelle mani teneva un rotolo sul quale erano incisi in caratteri greci alcuni paragrafi di un avviso:

— «Viaggiatore!

Sei tu straniero?» —


I. Ascolta il mormorio dei ruscelli e non temere la pioggia delle fontane. Così le naiadi impareranno ad amarti.

II. Zeffiro ed Austro sono le brezze amiche di Dafne; gentili riformatrici della vita esse ti preparano infinite dolcezze. Quand’Euro soffia. Diana è a caccia; se Borea sibila, nasconditi, perchè Apollo e corrucciato.

III. Le ombre del Bosco sono tue di giorno: di notte appartengono a Pane ed alle sue Driadi. Non turbarle.

IV. Cibati parcamente del loto lungo le sponde dei rivi, se non vuoi perdere la memoria, il che equivale a diventare figlio di Dafne.

V. Non toccare il ragno che tesse. E’ Aracne che lavora per Minerva.

VI. Vuoi tu contemplare le lacrime di Dafne? Strappa un germoglio da un ramoscello di lauro, e morrai.

«Sta in guardia!

Fermati e sii felice.»


Ben Hur lasciò la cura d’interpretare il mistico avviso ad altri che facevano ressa intorno a lui, e si ritrasse nell’istante stesso in cui si avvicinava il toro bianco.

Il fanciullo sedeva sulla cesta seguito da una processione; dietro a questa veniva la donna colle capre e dietro a lei i suonatori di flauto e tamburelli, con un’altra processione di apportatori d’offerte.

— «Ove vanno costoro?» — chiese un astante. Un altro rispose:

— «Il toro al padre Giove; le capre...»

— «Non custodiva una volta Apollo il gregge di Admeto?» —

— «Appunto, le capre sono per Apollo.» —

[p. 191 modifica]Alla bontà del lettore chiediamo indulgenza per concederci una spiegazione. Una certa facilità di tolleranza in fatto di religione suol formarsi in noi dopo aver per molto tempo praticato con persone di divina fede; a poco a poco veniamo a riconoscere che ogni credenza vanta uomini buoni e degni del nostro rispetto, e che non ci è possibile rispettarli senza al tempo stesso estendere una certa deferenza anche alla loro religione.

A questo punto era giunto Ben Hur. Gli anni trascorsi a Roma e quelli vissuti nella galera avevano lasciato intatta la sua fede religiosa; egli era sempre Ebreo, ma, a suo modo di vedere, non eravi empietà alcuna nel contemplare il bello nel bosco di Dafne. — Ciò non toglie per altro che quand’anche, i suoi scrupoli fossero stati più rigidi, egli li avrebbe in quel momento probabilmente soffocati. Era concitato, non come gli esseri irascibili che un’inezia irrita; nè la sua collera era quella dello stordito, che, attinta alla fonte del nulla, si disperde in rimproveri e bestemmie; l’ira sua era quella propria delle indoli ardenti, destatasi di soprassalto pel subitaneo annientamento d’una speranza. —

In simili casi e con tali nature la lotta non termina perchè ha urtato contro un ostacolo, ma continua col destino, e sarebbe bene il destino medesimo rivestisse una forma materiale e tangibile, da potersi spezzare con uno sguardo o con un colpo, ovvero quella di un essere vivente col quale fosse possibile sfogarsi apostrofandolo con parole roventi. L’anima umana soffrirebbe meno combattendo un tale avversario.

A mente fredda Ben Hur non si sarebbe recato solo al Bosco, o, se vi fosse venuto solo, si sarebbe valso del posto da lui occupato nella famiglia del console, per procacciarsi una specie di pianta della località, facendosi indicare i punti di speciale interesse. Se poi avesse voluto abbandonarsi più a lungo agli ozii ed alle delizie di quel soggiorno, si sarebbe anzitutto presentato con una lettera di credenza a chi ne aveva la direzione.

Ma nella condizione d’animo in cui si trovava, non era uno spettatore uguale alla massa volgare che schiamazzava tutto all’intorno.

La Divinità del Bosco non gli ispirava rispetto, nè i misteri che vi si celavano provocavano la sua curiosità. Era un uomo smarrito dal dolore di un crudele disinganno, [p. 192 modifica]insofferente di indugi, animato da un cieco desiderio di incontrare il proprio fato, e di sfidarlo.

Il suo era quello stato mentale che rende possibile di compiere atti arditi con apparente tranquillità.