Ben Hur/Libro Ottavo/Capitolo VII
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Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
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CAPITOLO VII.
Quando Ben Hur abbandonò la stanza degli ospiti, il suo passo era meno fermo di quando vi era entrato, e la testa gli era caduta sul petto. Aveva fatto la scoperta che un uomo, inchiodato sul letto, con la schiena rotta, poteva dalle nere profondità della sua anima, trarre forze sufficienti per nuocere ai suoi nemici, e stava riflettendo su questa scoperta.
E’ facile, dopo che una calamità ci ha colpiti, rivolgere lo sguardo indietro, e scorgere tutte le fila della trama prima nascoste. Il pensiero che egli non aveva neppure sospettato la complicità dell’Egiziana nei disegni di Messala, e che per anni egli aveva ciecamente fidato in lei, mettendo a repentaglio la propria vita e quella degli amici, ferì profondamente il suo orgoglio. — «Ora mi ricordo» — egli diceva fra sè — «che essa non ebbe una parola di sdegno quando il perfido Romano minacciò la sua vita alla fonte di Castalia! Io ricordo come essa lo esaltava quella notte di luna nell’Orto delle Palme! Ed, ah...» — egli si fermò battendosi violentemente il pugno sulla fronte — «ah! il mistero dell’appuntamento al palazzo di Idernee, non è più un mistero per me!» —
La ferita, dobbiamo osservare, toccava il suo orgoglio e la sua vanità, e per fortuna gli uomini non muoiono spesso di simili mali, e neppure ne soffrono molto a lungo. Nel caso di Ben Hur, poi, v’era compenso nella riflessione a cui egli diede voce improvvisamente esclamando, — «Lodato sia il Cielo che quella donna non s’è impadronita maggiormente del mio cuore! Ora m’accorgo che non l’ho mai veramente amata!» —
E come se si fosse liberato da un grave peso, arrivato con passo leggero all’estremità del terrazzo, dove <section="s2" /> terminava la scala che metteva sul tetto, la prese, e cominciò a salire rapidamente. Ma all’ultimo gradino s’arrestò di nuovo: Poteva Balthasar esser complice di questa fitta rete di frodi e menzogne da lei tessute? No, no. L’ipocrisia accompagna raramente l’età venerabile come la sua. Balthasar era un uomo onesto.
Con questa ferma convinzione raggiunse il tetto. V’era luna piena, ma la volta del cielo era luminosa pei riflessi delle migliaia di fuochi ardenti nelle strade e nei piazzali della città, intorno ai quali salivano i cantici e i cori dei vecchi salmi d’Israele. Quelle meste armonie che molcevano il suo orecchio, prendevano parole e significato nell’animo suo, e gli sembravano dire: — «Così, o figlio di Giuda, noi facciamo omaggio al Signore Iddio, e dimostriamo la nostra lealtà alla patria ch’egli ci ha dato. Venga Gedeone, o Davide, o un Macabeo, e ci troverà pronti.» —
E subito, come in un sogno, quasi a scherno, gli apparve l’uomo di Nazareth.
La dolorosa, quasi femminile immagine di Cristo, lo accompagnò, mentre attraversò la terrazza fin sopra alla via a settentrione della casa. In quel volto non appariva segno di guerra; ma piuttosto la calma e la rassegnazione di un tranquillo cielo lunare, provocando di nuovo la vecchia angosciosa domanda: — «Che sorta di uomo è egli mai?» —
Ben Hur diede uno sguardo sopra il parapetto, e poi si volse meccanicamente verso il Padiglione.
— «Facciano il loro peggio;» — egli disse, camminando a passi lenti — «io non perdonerò al Romano. Io non dividerò la sua sorte, e neppure fuggirò da questa città de’ miei padri. Farò appello alla Galilea e di là comincierò la battaglia. Con la fama di gesta eroiche chiamerò tutte le tribù dalla mia parte. Quegli che diede Davide e Mosè, ci troverà un condottiero, e se non sarà il Nazareno, sarà un altro dei molti che anelano di morire per la libertà.» —
L’interno del padiglione, verso il quale moveva Ben Hur era scarsamente illuminato, e le colonne del lato occidentale gettavano lunghe ombre sul pavimento. La poltrona solitamente occupata da Simonide era vicino alla finestra dalla quale si godeva la più ampia vista della città in direzione del Mercato.
La poltrona era occupata. — «Il buon uomo è ritornato» — pensò, — «Gli parlerò, se non dorme.» —
Entrò, e con passo leggiero si avvicinò alla poltrona. Chinandosi sopra la spalliera, vide Ester, addormentata e ravvolta nello scialle del padre. I capelli sciolti e disordinati piovevano sopra il suo volto. Il suo respiro era irregolare e affannoso. Un lungo sospiro terminante in un singhiozzo rompeva tratto tratto dal suo petto. Qualchecosa — la solitudine forse, o quei sospiri — diedero a Ben Hur l’idea che quel sonno fosse piuttosto il riposo del dolore più che il ristoro dopo la fatica. La natura manda questo sollievo ai fanciulli, ed egli era solito considerare Ester come quasi una bambina. Appoggiò le braccia alla spalliera e pensò:
— «Io non voglio svegliarla. Non ho nulla da dirle — nulla — se non ch’io la amo. Essa è figlia di Giuda, bella, e come diversa dall’Egiziana! Quella è tutta vanità, ambizione, egoismo; questa è tutta verità, dovere, abnegazione. No, il problema non è se io l’ami — ma se essa ama me. Sul principio mi era amica. Quella notte sul terrazzo ad Antiochia, con quale infantile ardore mi pregò di non inimicarmi Roma, e di parlarle della villa di Miseno, e della mia vita tranquilla colà! Io la baciai allora. Può essa aver scordato quel bacio? Io non l’ho dimenticato. Io l’amo. — Nessuno sa in città che ho ritrovato la mia famiglia. Non l’ho detto all’Egiziana; ma questa piccina si rallegrerà della mia gioia e darà loro il benvenuto con la mano e col cuore. Essa sarà un’altra figlia per mia madre, e una sorella per Tirzah. Io vorrei svegliarla e dirle tutte queste cose, ma — o maledetta maga d’Egitto! — come potrei avere il corraggio di parlare a lei? Io andrò via, aspetterò un’occassione migliore. Dormi in pace Ester, figlia amorosa, fiore di Giuda!» —
E, in silenzio, camminando in punta di piedi, si ritirò.