Avventure di Robinson Crusoe/6
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Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
schiavitù e fuga dalla schiavitù
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Seconda navigazione alla costa d’Africa, schiavitù e fuga dalla schiavitù.
Mentre la nostra nave prendea via verso le isole Canarie, o piuttosto tra queste isole e la spiaggia dell’Africa, fu sorpresa sul far del giorno da un pirata turco di Salé, che a tutte vele spiegate ne dava la caccia. Noi per evitarlo facemmo forza di vele, quanta poteano spiegarne i nostri pennoni, o portarne i nostri alberi; ma vedendo che il pirata guadagnava via sopra di noi, e ne avrebbe certamente raggiunti entro poche ore, ci preparammo a combattere. Noi avevamo dodici cannoni: lo scorridore ne aveva diciotto.
A tre ore in circa dopo mezzogiorno ci trovammo sotto il suo tiro; ma per isbaglio portò l’assalto all’anca anzichè alla poppa della nostra nave, com’egli si credea; laonde noi puntammo otto dei nostri cannoni da quella banda, e gli demmo tal fiancata che lo costrinse a fuggire dopo avere contraccambiato il nostro fuoco con la moschetteria di circa duecento uomini ch’egli aveva a bordo, senza per altro toccare uno dei nostri; perchè ci eravamo tutti ben riparati. Dopo di ciò si dispose ad assalirci di nuovo, come noi a difenderci; ma questa seconda volta venendo all’arrembaggio su l’altra anca del nostro vascello, vi lanciò sul ponte sessanta uomini che immantinente spezzarono le vele, e misero fuor d’uso gli attrezzi della nostra nave. Noi li noiammo con moschetti, mezze picche e granate in guisa che per due volte gli scacciammo e schiarimmo il nostro ponte. Ciò non ostante, per far corta questa malaugurata parte della mia storia, essendo disalberata affatto la nostra nave e tre de’ nostri marinai uccisi, otto gravemente feriti, fummo costretti ad arrenderci: e tutti ci vedemmo trasportati a Said, porto spettante ai Mori.
Il trattamento che trovai quivi non fu tanto spaventoso, quanto io aveva temuto; nè fui condotto, come il rimanente de’ nostri, alla corte dell’imperatore, ma tenuto qual sua propria preda dal capitano del legno corsaro; chè trovandomi e giovine e snello, e assai adatto ai suoi bisogni, mi volle suo schiavo. A tal sorprendente cambiamento de’ casi miei, al vedere trasformata la mia condizione di mercante in quella di abbietto schiavo, rimasi come percosso dalla folgore, e rimembrai le parole profetiche di mio padre: Tu sarai miserabile, e non avrai alcuno che corra in tuo scampo: la qual profezia io credeva avverata ad un punto di cui non potesse immaginarsi il più tristo; io credea che la mano di Dio mi avesse percosso oltre ad ogni possibile limite; io mi vedea perduto senza riscatto; ma ohimè! ciò non era se non un preludio della miseria cui soggiacqui in appresso, come apparirà dalla continuazione di questa mia storia.
Poichè il mio padrone mi aveva preso in sua casa, io sperava che m’avrebbe tolto in sua compagnia corseggiando di nuovo e che, una volta o l’altra, il suo destino sarebbe stato quello di esser fatto prigioniero da qualche nave da guerra portoghese o spagnuola: io vedeva in ciò un raggio di futura mia liberazione. Ma questa mia speranza dovè cessare bentosto, perchè quand’egli si rimise in mare, mi lasciò su la spiaggia per custodirgli il suo piccolo giardino, e dedicarmi alle solite fatiche di schiavo nella sua casa; quando tornò dal suo corseggiare, mi pose nella camera del suo legno corsaro per farvi la guardia.
Quivi non meditava ad altro che alla mia fuga, e al modo di mandarla ad effetto; ma non trovava un espediente che avesse nemmeno la probabilità di riuscita. Nulla si presentava che mostrasse almen ragionevole questa mia idea; non un solo al quale potessi comunicarla per indurlo ad imbarcarsi con me; non un compagno di schiavitù, non un Inglese, non un Irlandese, non uno Scozzese; per due anni dunque, se bene mi andassi pascendo sovente di tal mia immaginazione, non ebbi mai la menoma speranza che mi confortasse di poterla mettere ad effetto.
Dopo circa due anni avvenne un singolare caso che mi tornò con maggior forza nella mente l’antica idea di fare uno sforzo per la mia libertà. Il mio padrone da qualche tempo rimaneva in casa più del solito senza far allestire per veruna corsa il suo legno corsaro, la qual cosa, come udii, gli derivava da mancanza di danaro. Intanto per diportarsi, avea presa l’usanza, due o tre volte la settimana, e più spesso se il tempo era bello, di entrare nello scappavia del suo legno corsaro, e di recarsi su quelle acque alla pesca. Poichè prendea sempre seco me ed un giovine moresco ad uso di rematori, noi lo tenevamo molto allegro, tanto più ch’io mi mostrai molto destro nel pigliare il pesce, onde qualche volta spediva me con un Moro suo cugino ed il giovinetto che chiamavano il Moresco, per provvedere di pesce la sua tavola.
Accadde una volta, che andando a pescare in una mattina fredda, ma tranquilla, si alzò d’improvviso una nebbia sì fitta che, sebbene non fossimo lontani dalla spiaggia una mezza lega, la perdemmo affatto di vista; e, remando senza sapere nè da qual parte nè per dove remassimo, ci affaticammo inutilmente tutto il giorno e la seguente notte; e quando venne il mattino, trovammo che ci eravamo innoltrati di più nel mare in vece di avvicinarci alla spiaggia; dalla quale eravamo lontani per lo meno due leghe: pur finalmente la raggiugnemmo con grande stento, e non senza qualche pericolo, perchè il vento comincio a soffiar gagliardamente nella mattina; arrivammo dunque a casa, ma tutti orrendamente affamati.
Il nostro padrone, fatto circospetto da questa disgrazia, pensò a cautelarsi meglio per l’avvenire; onde decise di non andar più alla pesca senza una bussola ed alcune vettovaglie. Fermo in questo proposito, ed avendo a sua disposizione la scialuppa della nostra nave inglese che aveva presa, ordinò al suo falegname, che era uno schiavo inglese, di fabbricare nel mezzo di essa una elegante stanza, siccome quel la di una navicella di diporto con uno spazio dietro di essa per chi governava il timone e tirava le scotte, ed un altro spazio davanti per chi regolava le vele. Egli si giovava d’una di quelle vele chiamate spalla di castrato, e l’albero sovrastava alla stanza stretta e bassa, che nondimeno conteneva il letto per coricarvisi egli ed una o due schiave, una tavola da mangiare, e qualche piccola credenza per riporvi fiaschetti di quel liquore che gli fosse piaciuto bere, e soprattutto la sua provvigione di pane, riso e caffè.
Portatosi di frequente alla pesca su questa scialuppa, egli non vi andò mai senza di me, ch’egli avea riconosciuto assai destro nel prendere il pesce. Accadde ch’egli decise di portarsi su questa barca, così per pescare come per altri diporti, in compagnia di due o tre Mori assai riguardati in paese, e ad onor de’ quali avea fatti straordinari apparecchi. Mandate pertanto nella notte precedente a bordo della scialuppa vettovaglie più copiose del solito, mi comandò di approntare tre moschetti con polvere e pallini, tutti del suo legno corsaro, perchè contavano divertirsi non solo alla pesca, ma anche alla caccia.
Feci prontamente quanto mi era stato comandato, e nella mattina seguente assistetti a tutti i servigi che riguardavano la mondezza della barca, a far mettere fuori di essa e banderuola e bandiera di comando, in somma a quanto doveasi per onorar meglio i convitati ospiti. Di lì ad un momento arrivò solo a bordo il mio padrone, dicendomi come agli ospiti da lui aspettati fosse sopravvenuto tal affare che area mandato a vuoto il loro divertimento; soggiunse che ciò non ostante questi suoi amici avrebbero cenato con lui, onde mi ordinò di andarmene secondo il solito col Moro e col Moresco a pescare entro la scialuppa, portando a casa il pesce che avrei preso; tutte le quali cose io mi disponeva ad eseguire.
In quel momento le mie prime idee di libertà mi splendettero nel pensiere, perchè io trovava allora di avere una specie di piccola nave ai miei comandi e, poichè il mio padrone se n’era andato, mi preparai ad acconciarmi non per una pesca, ma per un viaggio, benchè io non sapessi, e nemmeno ci pensassi molto a qual parte mi sarei vòlto; per me ogni via che mi traesse fuori di lì era la buona.
La mia prima astuzia si fu quella di trovare un pretesto per mandare il Moro a cercare alcun che per la nostra sussistenza, mentre saremmo rimasti a bordo; perchè non dovevamo, gli diss’io, pensare a cibarci delle cose preparate ivi dal nostro padrone. Egli disse che ciò era giusto: in fatti porto un gran canestro di rusk, che è il loro biscotto, e tre orci di acqua fresca. Io sapeva dove stesse la cassa de’ liquori del mio padrone, i quali, come appariva evidentemente dalla fattura dei fiaschetti, erano una preda fatta su qualche vascello inglese, e la portai a bordo intantochè il Moro stava su la spiaggia, facendo credere che fosse stata posta ivi precedentemente per ordine del nostro padrone. Vi portai ancora un gran pane di cera che pesava più d’un mezzo quintale, ed una certa quantità di spago e di filo, un’accetta, un martello ed una sega, le quali cose ci resero grande servigio in appresso, specialmente la cera per far candele. Inventai un altro inganno, nel quale il Moro cadde parimente con la massima buona fede. Questi si nomava Ismael, che lì veniva chiamato Muley, o vero Moley; così dunque lo chiamai ancor io.
— «Moley, gli dissi, son qui a bordo i moschetti del nostro padrone; non potreste voi andar a prendere un poco di polvere e di pallini? Può darsi che ne accada di ammazzare alcune alcamie1 per noi, perchè so che ha lasciato nel brigantino la sua provvigione di polvere.
— Sì, me andare, e portarvi quel che voi mi dire.»
E di fatto portò una grande borsa di cuoio che conteneva una libbra e mezzo di polvere, piuttosto più che meno, e un’altra di pallini che pesavano cinque o sei libbre, ed anche alcune palle, mettendo tutto nella scialuppa. Nel tempo stesso io aveva trovata della polvere spettante al mio padrone, con la quale empietti uno de’ maggiori fiaschetti della cassa di liquori che era quasi vuota, versando il liquore che ci rimaneva in un altro fiaschetto; così provvedute tutte le cose necessarie, salpammo dal porto per andar a pescare.
Le guardie del castello poste all’ingresso del porto sapevano chi eravamo, onde non badarono a noi; ed eravamo più d’un miglio lontani dal porto quando ammainammo la nostra vela, e ci sedemmo per pescare. Il vento spirava da greco-tramontana (nord-nord-est) il che contrariava le mie intenzioni, perchè se avesse spirato da mezzogiorno, sarei stato sicuro di prendere la costa di Spagna, e di raggiugnere finalmente la baia di Cadice; ma, soffiasse quel vento che voleva soffiare, era presa la mia risoluzione di tirarmi fuori dell’orrido luogo ove mi trovava, e di lasciare la cura del rimanente al destino.
Dopo aver pescato per qualche tempo, e non aver preso nulla, perchè quando io aveva i pesci nel mio amo, non voleva tirarneli fuori e lasciarli vedere al Moro, dissi a costui:
— «Qui non facciamo bene, e il nostro padrone non deve essere servito così; bisogna andar a pescare più al largo.»
Egli non sospettando di nulla, convenne nella mia opinione, ed essendo alla prora della scialuppa spiegò di nuovo le vele; intanto standomi io al timone spinsi la scialuppa una lega più innanzi, ed allora misi in panna come se volessi fermarmi a pescare; indi lasciando il ragazzo al timone, m’avanzai laddove stava il Moro, ed abbassatomi come se avessi voluto cogliere qualche cosa cadutami, lo presi per sorpresa, cacciandogli un braccio fra le gambe, e di netto lo feci saltare dal bordo della scialuppa nel mare. Rialzatosi subito fuori dell’onda, perchè sapea galleggiare come se fosse stato di sughero, quel poveretto mi chiamava e supplicava di riprenderlo nella scialuppa, assicurandomi che sarebbe stato contento di venire in capo al mondo con me. Notava sì vigorosamente che m’avrebbe raggiunto prestissimo, perchè spirava un leggerissimo vento. Allora, entrato io nella stanza mi munii d’uno di quei moschetti ed addirizzandoglielo, dissi:
— «Non vi farò alcun male, semprechè vi regoliate come vi dico. Voi siete abile al nuoto abbastanza per raggiugnere la spiaggia, e il mare è tranquillo. Fate quanto potete per guadagnare il lido, nè vi farò male di sorta alcuna; ma se continuate ad accostarvi alla scialuppa, vi fo saltare in aria il cervello, perchè son risoluto di ottenere la mia libertà.»
Dopo le quali parole, egli tornò addietro e nuotò verso la spiaggia, nè dubito che non vi arrivasse comodamente, perchè, come ho detto, era un ottimo notatore.
Non avrei avuto difficoltà di tenermi meco il Moro, e di gettare in acqua il ragazzo; ma col primo non era da fidarsi, senza correre rischio. Poichè mi fui liberato di esso, mi volsi al fanciullo, di nome Xury, e gli dissi:
— «Xury, se voi volete essermi fedele, io vi farò un grand’uomo; ma se non vi battete la faccia (ciò equivaleva per lui al giurare per Maometto e per la barba di suo padre) in pegno della vostra fedeltà, lancio nel mare anche voi.»
Il fanciullo mi sorrise, e parlò con modi sì innocenti, che non avrei potuto ingannarmi nel credergli quando mi giurò di essermi fedele e di venire in qual si fosse luogo con me.
Fintantochè rimasi a vista del Moro, che notava verso la spiaggia, mi tenni bordeggiando come in cerca del vento, affinchè si potesse pensare che volessimo avviarci verso la foce dello stretto; intenzione che doveva attribuirci chiunque non ne stimasse affatto privi di giudizio; perchè chi mai avrebbe supposto che volessimo veleggiare ad ostro contro alle coste di Barbari affatto selvaggi, donde indubitatamente intere popolazioni di Negri sarebbero venute a circondarne co’ loro canotti e a distruggerci, e dove, arrivando anche a toccare la spiaggia, non avremmo potuto aspettarci altro, che di essere divorati dalle fiere o da belve di umana razza, più spietate ancora di esse.
Ma appena la sera si fece oscura, cangiai direzione governando immediatamente al sud-sud-est (un quarto d’ostro verso scirocco) piuttosto tenendomi verso questo secondo punto, a fine di guadagnare una spiaggia; e spirando una fresca brezza e tranquillissimo essendo il mare, veleggiai quanto bastava perchè, quando vidi terra alle tre dopo il mezzogiorno del dì appresso, potessi credere di non essere lontano meno di centocinquanta miglia dalla punta meridionale di Salé, affatto al di là degli stati dell’imperator di Marocco, o sicuramente di qualunque altro principe di que’ dintorni; chè non mi si offerse alla vista verun abitante per poter stabilire questo punto con certezza.
Note
- ↑ Uccelli che sono una specie delle nostre pavoncelle.