Avventure di Robinson Crusoe/4
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Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
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Soggiorno a Yarmouth.
Ma il mio cattivo destino mi trascinava con una pertinacia cui nulla poteva resistere; e benchè parecchie volte sentissi forti richiami fattimi dalla mia ragione e dalle più chete mie considerazioni, non ebbi forza di arrendermi a queste voci. Io non so come chiamare (nè sosterrò che sia questo un preponderante misterioso decreto) ciò che ne spinge ad essere gli stromenti della propria nostra distruzione, ancorchè essa ne sia manifesta, e vi ci precipitiamo entro ad occhi aperti. Certamente null’altro, che qualche cosa di simile ad un tale decreto, qualche cosa di connesso ad inevitabile sciagura, cui mi era impossibile il sottrarmi, può avermi tratto ad ostinarmi contro ai freddi ragionamenti e alle persuasioni dei miei più raccolti pensieri, e contro a due lezioni tanto potenti, siccome quelle che mi occorsero nel primo mio cimento.
Il mio collega, quegli che dianzi avea tanto contribuito a confermarmi ne’ miei tristi propositi, figlio, come dissi, del capitano, si mostrava anche men coraggioso di me, quando gli parlai la prima volta da che fummo a Yarmouth, cioè passati due o tre giorni, perchè nella città eravamo stati distribuiti in separati quartieri. La prima volta dunque che mi vide, parea d’un fare tutto diverso, e aveva una cera assai malinconica, quando mi chiese come stessi. Egli era in compagnia di suo padre, al quale disse chi io fossi, e come avessi impreso questo viaggio soltanto per esperimento e con proposito di procedere molto più in là. Il capitano voltosi a me disse con accento grave e solenne:
— «Il mio giovine, voi dovete lasciar da banda ogni pensiere di rimettervi in mare, e ravvisare in quanto vi è avvenuto un pieno e visibile contrassegno, che la vostra vocazione non è quella del navigante.
— Perchè, signore? gli chiesi; voi non contate più di tornare in mare?
— Il mio caso è diverso; tale è la mia professione, e quindi anche l’obbligo mio: ma poichè voi avete fatto questo viaggio per prova, dal gusto che ci avete avuto, potete capire qual ne ritrarrete in appresso se vi durate. Forse la disgrazia che n’è toccata, ci è venuta per cagion vostra, come occorse alla nave di Tarso che portava Giona. Di grazia, per qual congiuntura vi trovaste imbarcato con noi?»
Raccontatogli allora qualche cosa della mia storia, si abbandonò ad una specie di stravagante collera, quando finii di parlare.
— «Che cosa ho mai fatto io, egli esclamò, perchè mi venisse l’ispirazione di prendermi nella nave un tal miserabile? Non metterei più il piede in una stessa nave con te, per un migliaio di sterlini.»
Questa per altro fu una scappata della sua testa tuttavia conturbata dal ricordo della perdita fatta; perchè veramente eccedè in tal suo dire tutti i limiti della ragionevolezza e della civiltà. Nondimeno mi parlò in appresso con molto senno e posatezza, esortandomi a cercar nuovamente la casa del padre mio, e a non tentare di più la Providenza, s’io non voleva vedere la mia rovina; pretendea riconoscessi in ciò la mano del Cielo, che si chiariva contro di me.
— «Giovine mio, egli concluse, tenetevi ben per sicuro che se non tornate addietro, ovunque andiate, non troverete altro che disastri ed afflizioni, finchè i presagi del padre vostro sieno avverati del tutto.»
Dopo di questo ci separammo; che ben poche cose io gli risposi: indi nol vidi più. Che strada abbia tenuto in appresso, lo ignoro; quanto a me, avendo un po’ di danaro nella mia borsa, m’avviai per terra a Londra, e sì in questa città e sì lungo il cammino ebbi molte lotte con me medesimo intorno al genere di vita che avrei abbracciato, sempre perplesso fra il tornare a casa ed il rimettermi in mare. Sul tornare a casa, la vergogna rintuzzava sempre quanti migliori pensieri potessero nascermi in mente, perchè la prima idea ad occorrermi, era quella della derisione che avrei trovata fra i miei concittadini, onde arrossiva non solamente di rivedere mio padre e mia madre, ma qualunque altra persona. Da quel momento ho fatto più volte una considerazione: come, cioè, sia fallace ed assurda in generale l’indole umana nell’istituire quei raziocini che dovrebbero guidarci in simili casi; non si ha vergogna della colpa, ma bensì del pentimento; non ci vergogniamo di un’azione che ne merita giustamente il credito di stolti, ma di un ravvedimento che solo potrebbe meritarci il nome di saggi.