Avventure di Robinson Crusoe/19
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Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
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Malattia.
18.
19. Mi sentii assai male e sempre tormentato da brividi, come se la stagione fosse stata fredda.
20. Non ho dormito tutta la notte; violento male di capo e febbre.
21. Malissimo; atterrito quasi a morirne dal pensare alla trista mia condizione di essere ammalato e non avere chi mi presti assistenza: ho pregato Dio, ed è stata la prima volta dopo quella bufera su le acque di Hull; ma sapeva ben poco quel ch’io mi dicessi, o non ne conosceva il perchè: tanto erano confuse tutte le mie idee.
22. Un po’ meglio, ma sempre agitato dalle paure che accompagnano le malattie.
23. Un’altra volta malissimo; freddo e brividi oltre ad un terribile male di capo.
24. Assai meglio.
25. Una violentissima febbre; l’accesso di essa mi ha tenuto sette ore: freddo, poi caldo, indi sudori deprimenti.
26. Meglio; e non avendo carne di cui cibarmi, sono uscito col mio moschetto ad onta di un’estrema debolezza: pure ho ammazzata una capra che mi ho portata a casa con molto stento; arrostitone un pezzo, me ne sono cibato. Ne avrei volentieri fatto uno stufato, come pure avrei voluto procacciarmi con essa un poco di brodo; ma mi mancava una pentola.
27. La febbre tornò ad essere sì violenta, che rimasi in letto tutto il giorno senza mangiare nè bere. Io stava per morire di sete; ma in quello stato di debolezza non aveva forza per tenermi in piedi tanto da procurarmi un poco d’acqua. Tornai a pregare il Signore, ma era in delirio; e quand’anche non ci fossi stato, la mia ignoranza era sì crassa ch’io non sapeva che cosa dovessi dire; solamente da starmi giaciuto io esclamava: Dio volgetevi a me! Dio abbiatemi compassione! Dio usatemi misericordia! Credo di non aver fatto altro per due o tre ore continue sinchè, finito l’accesso della febbre, rimasi addormentato, nè mi destai se non tardi nel cuor della notte. Nello svegliarmi mi sentii alquanto ristorato, benchè debole e assetato oltre ogni dire; ma non avendo acqua in tutta quanta la mia abitazione, fui costretto aver pazienza sino a giorno; tornai pertanto ad addormentarmi. Oh qual terribile sogno io feci in questa seconda dormita!
Parevami essere seduto per terra fuori della mia trincea, come stava quando si sollevò quella burrasca che venne dopo il tremuoto; vedeva in lontananza calar giù da un grosso nuvolone nero nero un uomo avvolto in una gran vampa di fuoco che scendeva a terra. Sfolgorava sì tremendamente da tutte le parti, che i miei occhi non reggevano a fisarsegli incontro; l’aspetto di esso ineffabilmente spaventoso è impossibile a descriversi con parole; allorchè si movea, credeva che la terra traballasse come appunto nel giorno del tremuoto, e tutta l’aria sembravami in fiamme. Appena postosi a camminare, veniva alla mia volta brandendo una lunga lancia o spada a due mani destinata ad uccidermi; poi arrivato sopra un’eminenza ed in minore distanza da me, mi parlò, o vero credei udire una voce sì tremenda che m’agghiacciò d’uno spavento di cui tenterei invano or darvi un’idea. Quanto posso dire di ricordarmi son queste parole: Dopo aver veduto tutto ciò che hai veduto, non ti sei ridotto a penitenza: or morrai! dopo i quali detti mi parve vedergli sollevare la brandita arma per darmi morte.
Niun leggitore si aspetti ch’io sapessi render conto a me stesso dell’orrore di cui tal visione mi aveva compreso; intendo dire che ancorchè questa fosse un sogno, la mia mente era di per sè stessa immersa in un delirio, che con quel mio orrore si conformava1; nè è possibile il descrivere l’impressione che me ne rimase allorchè svegliandomi m’avvidi d’avere meramente sognato.
Io non avea per mia disgrazia verun principio di religione; chè quanti me ne aveva instillati l’educazione del mio buon padre erano svaniti dopo un corso non interrotto per otto anni di vita licenziosa da marinaio, e di un costante conversare con compagni scapestrati e dissoluti al massimo grado come era io. Io non mi ricordo di avere avuto in tutto quell’intervallo un pensiere che m’innalzasse a Dio, o mi traesse a scendere entro me stesso per esaminare la mia condotta. Una perfetta stupidezza, ugualmente lontana dal desiderio del bene e dalla coscienza del male, mi dominava interamente; ond’era tutto quel che di peggio, di più incallito nella colpa, di più spensierato potesse immaginarsi fra i nostri comuni marinai; basti il dire ch’io non aveva alcun sentimento di timor di Dio nel pericolo, o di gratitudine a lui dopo esserne liberato.
Ove si richiami ad esame tutto quanto ho già narrato della mia storia, tal mia perversità sarà sempre più facilmente creduta, se aggiugnerò un caso di più. In mezzo a tanta varietà di miserie sin qui occorsemi, non mi nacque mai in pensiere esser tutto ciò opera della mano di Dio, giusto punitore o dell’insubordinato contegno di cui mi resi reo verso mio padre, o delle mie colpe presenti, grandi da vero, o in generale di tutto il corso dell’iniqua mia vita. Quando mi gettai corpo morto in quella disperata spedizione alle deserte coste dell’Africa senza pensar più che tanto a ciò che avverrebbe di me, non volsi una sola preghiera a Dio, affinchè mi proteggesse ovunque fossi per addirizzarmi, o mi campasse dai pericoli che secondo ogni apparenza mi circondavano, quali erano la voracità delle belve e la crudeltà dei selvaggi. Senza pensar menomamente a Dio o alla providenza, io, a guisa d’un vero animale irragionevole, mi lasciava guidare unicamente dagl’istinti della natura e dai dettati d’un rozzo senso comune, e ciò anche a stento. Liberato e accolto nel suo vascello dal capitano portoghese, e trattato da lui con onestà, cortesia e ad un tempo con caritatevole amorevolezza, l’idea di gratitudine non mi passò nemmeno per la mente. Naufragato, ridotto ad ultima estremità, in pericolo d’annegarmi, quando fui gettato in quest’isola, io era lontanissimo dai ricordarmi le mie colpe e dai riguardare quanto avvenivami come un giudizio di Dio; non sapeva dir altro che: Son proprio un povero diavolo sfortunato e nato per essere sempre un miserabile!
Egli è vero che al primo toccar questa spiaggia, e quando vidi sommersi i miei compagni, unicamente me salvo, fui preso da una specie di estasi e da una certa espansione di anima, sentimenti che avrebbero potuto con l’assistenza di Dio condurmi a quelli della gratitudine; ma tutto finiva, com’era cominciato, in un’ebbrezza di gioia, in un’esultanza di esser vivo, disgiunta da ogni considerazione benchè menoma su la bontà segnalata della mano che mi aveva salvato e prescelto per camparmi dalla distruzione, cui tutti gli altri miei compagni soggiacquero. Non pensai ad esaminare per qual fine la providenza mi si fosse mostrata tanto misericordiosa; la mia gioia fu quella specie d’allegrezza comune a tutti gli uomini di mare, che quando dopo un naufragio si vedono vivi sopra la spiaggia, non hanno altra sollecitudine che annegarla entro un bowl di punch; poi dimenticano ogni cosa appena è passato il pericolo: tutta la mia vita era stata di questo tenore.
Ed anche in appresso, quando non potei essere insensibile all’evidente orridezza della mia posizione, di essere cioè gettato in sì spaventoso luogo, fuori d’ogni consorzio del genere umano, senza speranza alcuna d’aiuto o di riscatto, non appena vidi una probabilità di poter vivere e di non morire dalla fame, ogni affetto di costernazione si dileguò dal mio animo; cominciai ad essere di più lieto umore, dandomi ai lavori più adatti alla mia salvezza ed al mio mantenimento, e tenendo ad una buona distanza da me quel cruccio che dovea derivarmi dal riguardare il mio stato presente siccome una giusta punizione del Cielo; oh! questi pensieri mi passavano per il capo ben rare volte.
Il germogliare improvviso del grano, di cui feci menzione nel mio giornale, produsse su le prime qualche picciolo effetto su l’animo mio, e cominciava ad eccitarvi affetti di una maniera più solenne; ma ciò fin tanto che durò in me la persuasione di alcun che di miracoloso. Appena questa persuasione fu rimossa, si dileguò l’impressione ch’essa avea fatto nascere, come ho già notato. Lo stesso dicasi del tremuoto. Benchè non siavi cosa nè più terribile in sè stessa nè più atta a volgere subitamente le umane menti verso quel potere invisibile che solo regola l’universo, pure appena ne fu andata via la paura, se ne andò seco l’impressione ch’esso aveva eccitata in me. Io così poco sentiva Dio e i suoi giudizi, molto meno poi il venirmi dalla sua mano le mie tribolazioni d’allora, come se mi fossi trovato nella più prospera condizione di vita che si fosse potuta immaginare.
Ma questa volta, quando caddi infermo e l’immagine delle calamità, della morte, venne grado grado a pormisi innanzi; quando i miei spiriti principiarono a sentirsi depressi sotto il peso di una gagliarda malattia, e la natura fu esausta dalla violenza della febbre, or si la coscienza rimasta dormigliosa si lungo tempo comincio a risvegliarsi; or sì rimproverai me medesimo di avere con la straordinaria perversità della trascorsa mia vita così evidentemente provocata la giustizia di Dio che mi puniva col sottomettermi ad angosce proporzionate soltanto ai miei falli. Furono queste le considerazioni che mi oppressero nel secondo e nel terzo giorno della mia infermità e che, nella violenza così della febbre come de’ rimorsi della mia coscienza, mi trassero alcune parole di preghiera a Dio. Ma io non posso dire se queste preghiere fossero l’espressione del mio desiderio di guarire o della mia fiducia nell’ente pregato: erano esse piuttosto le voci della paura e dell’angoscia. Confusi erano i miei pensieri; grandi i rimorsi nella mia mente; e il ribrezzo destato dalla sola idea di morire in un sì miserabile stato mi facea salire tetri vapori al cervello. Nè in queste strette dell’anima io sapea quali cose profferisse la lingua: erano piuttosto esclamazioni del genere di queste: Signore, che miserabile creatura son io! Se mi ammalo, morrò certo per mancanza di soccorsi, e che cosa sarà di me? Allora mi sgorgarono le lagrime dagli occhi, e credo poter affermare per un bel pezzo di tempo.
In questo mezzo mi tornarono alla memoria i buoni consigli di mio padre e soprattutto quelle sue predizioni da me commemorate sul principio di questa storia; vale a dire che se mi fossi posto su questo pazzo cammino, Dio non mi avrebbe benedetto; che avrei avuto tutto il tempo di gemere per non avere ascoltati i consigli paterni, quando non avrei avuto alcuno che mi avesse aiutato a trovare un rimedio, uno scampo. «Ora, io diceva ad alta voce, i pronostici del mio caro padre si sono avverati; la giustizia di Dio mi ha colpito, e non ho veruno che mi aiuti o mi ascolti. Respinsi la voce della providenza che m’avea misericordiosamente posto in uno stato di vita ove sarei stato felice ed agiato; non volli mai nè vedere da me medesimo nè imparar dai miei genitori la felicità di un simile stato. Lasciai gli autori de’ miei giorni nel cordoglio che costarono ad essi le mie follie; or son lasciato nel cordoglio che mi costano le conseguenze di esse. Io ricusai il loro aiuto, la loro assistenza, che m’avrebbero portato a buon fine nel mondo, ed appianate tutte le vie per arrivarvi; or mi tocca lottare contro a tribolazioni sì grandi, che la natura stessa mal regge a sopportarle; or mi vedo privo d’ogni assistenza, d’ogni conforto, d’ogni consiglio.2» In quel momento esclamai: «Signore, aiutatemi voi, perchè io sono abbandonato sopra la terra!» Fu questa la prima preghiera, se pure può chiamarsi tale, ch’io avessi pronunziato dopo il corso di lunghi anni. Ma torniamo al nostro giornale.
Note
- ↑ I mean, that even while it was a dream, I even dreamed of those horrors. Così il testo. Si vedrà fra poco perchè l’autore faccia dir così al personaggio della sua storia.
- ↑ Robinson era in questo stato di rimorso, d’angoscia, di confusione quando fece il sogno per cui disse poco prima: «Ancorchè questo fosse un sogno, la mia mente era di per sè stessa immersa in un delirio che con quel mio orrore conformava.»