Autobiografia (Monaldo Leopardi)/Capitolo VI
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VI.
Ancora dell’infanzia.
Tornando all’infanzia mia se ne andava passando come quella di tutti i Fanciulli in giuochi e puerilità, senza che ora me ne sovvenga cosa degna di rimarcarsi. Lascerò un po’ di carta in bianco per aggiungere quello di cui potessi ricordarmi. Tanto però con i miei fratelli, quanto con altri molti fanciulli che trattavamo frequentemente, nel passeggio, nel giuoco, nello studio e in ogni circostanza io prendevo il tuono della superiorità, e tutti mi facevano largo. Talvolta si redimevano chiamandomi soverchiatore, e questa taccia mi pungeva all’estremo. Credo che in verità non la meritassi, ed ho abborrita sempre la superchieria talmente che ho urtato nell’estremo contrario e più volte sono stato generoso improvidamente, e con gravissimo danno mio. Forse quel mio soprastare dipendeva dall’età, da qualche poco di ingegno, e dalle circostanze domestiche, perchè venendo riconosciuto Padrone di sufficiente Patrimonio, la Famiglia non mi scontentava, ed avevo mezzi per grandeggiare fra i Bambocci compagni miei.
Il fatto sta che la natura o l’abitudine di sovrastare mi è sempre rimasta, e mi addatto malissimo anzi non mi addatto in modo veruno alle seconde parti. Voglio piegarmi, voglio esser docile, rimettermi e tacere; ma in sostanza tutto quello che mi ha avvicinato ha fatto sempre a mio modo, e quello che non si è fatto a modo mio mi è sembrato malfatto. Non vorrei adularmi, e non ho interesse alcuno per farlo, ma in verità mi pare che il desiderio di vedere seguita la mia opinione non sia tutto orgoglio, bensì amore del giusto e del vero. Ho cercato sempre con buona fede quelli che vedessero meglio di me ed ho trovate persone saggie, persone dotte, persone sperimentate; ma di ingegni quadri da tutte le parti e liberi da qualunque scabrosità ne ho trovati pochissimi, e ordinariamente in qualche punto la mia ragione, o forse il mio amor proprio mi hanno detto, tu pensi e vedi meglio di quelli. L’esperienza di tutta la vita mi ha dimostrato sempre vero il detto, credo di Seneca, che non si dà ingegno grande senza la sua dose di Pazzia, e mi ha sorpreso il vedere che in qualche angoluccio delle menti le più elevate si nascondevano incredibili puerilità. Ho fatta alcuna ricerca in me stesso per conoscere quale fosse il deliquio della mia ragione, e non avendolo trovato mi è venuta la tentazione di credere che la mia mente fosse superiore a molte, non già in elevazione ma in quadratura. Forse sono stato indulgente con me medesimo e forse è decreto della natura che l’uomo non conosca la sua debolezza caratteristica, ma se altri conosceranno la mia, io certamente non la ho dissimulata con mala fede.