Autobiografia (Monaldo Leopardi)/Capitolo V

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V.

Don Vincenzo Ferri.

Viceversa il sacerdote don Vincenzo Ferri cappellano di casa era il rifugio di me e delli Fratelli miei nell’infanzia nostra, perchè sopportava qualunque impertinenza, ci contentava in tutti i desiderî, e ci rallegrava con la sua inalterabile giocondità. Era il più brutto uomo del paese, ma l’affetto che risentivo per lui mi rese talmente simpatici i tratti del suo volto che oggi pure mi sento inclinato ad amare chiunque sopra una tinta affricana ha occhi di [p. 5 modifica]gatto, gran bocca e naso schiacciato, perchè mi presenta l’idea del mio ottimo Ferri.

Voglio dire un’altra parola di questo buon Prete di cui probabilmente non si parlerà più fino al giorno del Giudizio universale. Ancorchè non avesse nè coltura nè dottrina, il suo ingegno il buon cuore e l’ottimo umore lo rendevano utilissimo agli amici e grato a tutte le società. Attaccatissimo alla mia famiglia con la quale visse trenta anni si inteneriva fino alle lagrime ad ogni piccola evenienza domestica, e qualora conosceva alcun desiderio o mio o dei miei congiunti non trovava riposo finchè aveva ottenuto di soddisfarlo. Siccome aveva per lungo tempo amministrato alcuna parte delle mie sostanze, allorchè venne a morire, gli dissi che risentendo inquietudine per le cose mie la deponesse francamente perchè intendevo di fargli amplissima condonazione, ma egli parte ridendosi di me e parte sdegnandosi replicò non averne bisogno perchè mai mi aveva pregiudicato neppure di un paolo. Morì nel 1806 con ilarità e rassegnazione cristiana, e senza smentire il suo naturale sempre faceto, perchè stando in silenzio il sacerdote che lo assisteva negli ultimi istanti, «Ebbene, gli disse, ditemi qualche cosa; non state a fare il minchione quando dovete assistere i moribondi».