"È di mia speciale invenzione"

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Lewis Carroll - Attraverso lo specchio (1871)
Traduzione dall'inglese di Silvio Spaventa Filippi (1914)
"È di mia speciale invenzione"
VII IX


Dopo un po’, parve che il rumore gradatamente cessasse, finchè tutto fu silenzio perfetto, e Alice levò la testa sgomenta. Non si vedeva nessuno, e il suo primo pensiero fu di aver sognato il Leone e l’Unicorno e quello strano Alfiere anglosassone. Però ai suoi piedi, c’era ancora l’enorme piatto sul quale ella s’era ingegnata di tagliare la torta.

— Dunque non ho sognato, — si disse, — salvo che tutti non facciano parte dello stesso sogno. Solo spero che il sogno sia mio — non quello del Re Rosso. Non vorrei appartenere al sogno di un’altra persona, — continuò in tono piuttosto lamentoso. — Ho una gran voglia d’andare a svegliarlo per veder che cosa accadrà.

— In quel momento i suoi pensieri furono interrotti da alte grida di "Ohi, ohi, scacco!", e un Cavaliere, vestito d’una corazza cremisi, veniva galoppando verso di lei, brandendo una gran mazza. Non appena la raggiunse, il cavallo immediatamente si fermò.

— Sei mia prigioniera! — gridò il Cavaliere, precipitandosi di sella.

Sorpresa com’era, Alice fu più spaventata per lui che per sè in quell’istante, e lo vide con ansia rimontare a cavallo. Com’egli si trovò di nuovo a suo agio in sella, ricominciò:

— Tu sei mia...

Ma allora si levò un’altra voce: "Ohi, ohi, scacco!" e Alice guardò intorno sorpresa per vedere il nuovo nemico.

Questa volta era un Cavaliere Bianco. Egli si trasse a fianco di Alice, e precipitò dal cavallo nell’istessissimo modo del Cavaliere Rosso; poi si rialzò e i due Cavalieri si guardarono l’un l’altro per qualche tempo, senza parlare.

Gli sguardi d’Alice andavan stupiti dall’uno all altro.

— Ella è mia prigioniera, sai! — disse finalmente il Cavaliere Rosso.

— Sì, ma io son venuto a riscattarla, — rispose il Cavaliere Bianco.

— Allora dobbiamo combattere per lei, disse il Cavaliere Rosso, mentre dava mano all’elmo (che era sospeso alla sella e aveva in qualche modo la forma d’una testa di cavallo) e se lo metteva in testa.

— Tu osserverai, naturalmente, le Regole della Battaglia, — osservò il Cavaliere Bianco mettendosi anche lui l’elmo.

— Le osservo sempre, — disse il Cavaliere Rosso; e cominciarono a picchiarsi con tanta furia che Alice si rifugiò dietro un albero per star lontana dai colpi.

"Chi sa mai quali siano le Regole della Battaglia, — si diceva, assistendo al duello e facendo timidamente capolino dal suo nascondiglio; — una regola par sia questa, che se uno dei Cavalieri colpisce l’altro, lo fa precipitare di sella, e se fallisce il colpo, precipita egli stesso... e un’altra regola par sia questa: che entrambi usano le mazze ferrate con le braccia, come se fossero Pulcinella e don Anselmo. Che fracasso che fanno quando precipitano! Come un fascio di molle, palette e soffietti, che cada sul focolare! E come se ne stan quieti i cavalli! Li lasciano andare su e giù come se fossero tavole."

Un’altra regola della battaglia, della quale Alice non s’era accorta, sembrava fosse questa: che essi cadevano sempre a testa in giù. E la battaglia finì con la caduta d’entrambi a questo modo, l’uno accanto all’altro: quando si rialzarono si strinsero la mano, e allora il Cavaliere Rosso montò a cavallo e partì al galoppo.

— È stata una vittoria gloriosa, — disse il Cavaliere Bianco, levandosi ansante.

— Non so, — disse Alice dubbiosa. — Io non voglio essere prigioniera di nessuno.

— Sarai libera, quando avrai traversato il prossimo ruscello, — disse il Cavaliere Bianco. — Io ti condurrò sana e salva fino al limite del bosco... e poi debbo tornare indietro, sai. Questo è lo scopo della mia mossa.

— Vi ringrazio tanto, — disse Alice. — Posso aiutarvi a togliervi l’elmo? — Evidentemente, egli non poteva toglierselo da solo, ed ella tanto fece che finalmente glielo trasse.

— Ora si può respirare più facilmente, — disse il Cavaliere, riportandosi indietro con ambe le mani la chioma setolosa, e volgendo ad Alice il viso affabile e i grandi e miti occhi.

Ella pensò di non aver mai visto in vita sua un soldato di apparenza più strana.

Aveva l’armatura di zinco, che gli si adattava male, e un piccolo zaino di strana forma legato sottosopra sulle spalle e col coperchio aperto penzoloni. Alice lo guardò con molta curiosità.

— Veggo che tu ammiri il mio zaino, — disse con affabile tono il Cavaliere. — È di mia speciale invenzione... serve per tener gli abiti e la colazione. Come vedi, lo porto sottosopra, in modo che la pioggia non c’entri.

— Ma gli oggetti possono caderne, — osservò gentilmente Alice, — tenendolo così aperto.

— Non lo sapevo, — disse il Cavaliere, e un’ombra di amarezza gli passò sul viso. — Allora tutti gli oggetti debbono essere caduti. E lo zaino non mi serve più.

Lo sciolse mentre così parlava, e stava per gettarlo nei cespugli, quando gli venne una nuova idea, e lo sospese con gran diligenza a un albero.

— Puoi indovinare perchè ho fatto così? domandò ad Alice.

La bambina scrollò il capo.

— Con la speranza che delle api possano farsi un nido... e io mi piglierei il miele.

— Ma voi avete un alveare... o qualche cosa di simile... legato alla sella, — disse Alice.

— Sì, è un ottimo alveare, — disse in tono di poca soddisfazione il Cavaliere, — un alveare della migliore qualità. Ma non c’è entrata ancora nessuna ape. E l’altro oggetto è una trappola di topi. Credo che i topi allontanino le api... o le api allontanino i topi, veramente non so.

— Mi domandavo appunto a che servisse la trappola, — disse Alice. — Non è probabile che un topo s’arrischi a salire sulla groppa di un cavallo.

— Non molto probabile, certo, — disse il Cavaliere, — ma se venissero, non vorrei che andassero scorrazzando da per tutto. Così, — continuò dopo una breve pausa, — è bene andar premunito per ogni caso. Ecco perchè il cavallo ha intorno alle zampe tanti cerchietti di ferro irti di aculei.

— Ma a che servono? — chiese Alice, con accento di grande curiosità.

— A preservarlo dai morsi delle serpi, — rispose il Cavaliere. — Sono di mia speciale invenzione. E ora aiutami a montare. Verrò con te fino all’estremità del bosco. Perchè hai quel piatto?

— M’è servito per la torta, — disse Alice.

— Faremo bene a portarcelo, — disse il Cavaliere. — Ci servirà, se mai troveremo qualche torta. Aiutami a metterlo in questo sacco.

Ci volle parecchio tempo, sebbene Alice tenesse con gran diligenza aperto il sacco. Il Cavaliere si mostrò così poco abile a ficcarci il piatto, che le prime due o tre volte che tentò di farlo ci cadde lui dentro.

— È piuttosto difficile, — egli disse, quando finalmente ne venne a capo, — ci sono tanti candelabri dentro.

E lo attaccò alla sella, che era già carica di mazzi di carote, e soffietti e molle, e attizzatoi e tanti altri oggetti.

— Spero che tu abbi i capelli ben legati, — egli continuò, mentre s avviavano.

— Come il solito, — disse Alice con un sorriso.

— Difficilmente basterà, — egli disse con ansia. — Non vedi quanto è forte il vento qui? È forte... come un peperone.

— Avete inventato un mezzo per impedire al vento di agitare i capelli? — domandò Alice.

— Non ancora, — disse il Cavaliere, — ma ho già trovato il mezzo per non farli cadere.

— E come?

— Si prende prima un bastone, — disse il cavaliere, — e sulla sua punta si mette la chioma, come quella d’un albero. I capelli cadono perchè stanno all’ingiù... ma all insù non cade mai nulla.

Non era un mezzo efficace, Alice pensava, e per pochi minuti camminò in silenzio, confusa da quella idea, e fermandosi di tanto in tanto per dare un aiuto al povero Cavaliere, che certamente non era un buon cavalcatore.

Ogni volta che il cavallo si fermava (cosa che avveniva spesso), egli cadeva in avanti, ed ogni volta che quello ripigliava a trottare (cosa che generalmente faceva con risoluzione piuttosto improvvisa), egli cadeva all’indietro. Altrimenti si manteneva piuttosto bene, tranne che aveva l’abitudine di cadere di tanto in tanto di lato; e siccome generalmente lo faceva dal lato di Alice, questa tosto penso che fosse meglio non camminare troppo vicino al cavallo.

— Temo che non siate molto esercitato in equitazione, — ella s’arrischiò di dire, mentre lo aiutava a rilevarsi da una quinta caduta.

Il Cavaliere sembrò molto sorpreso e un po’ offeso di quella osservazione.

— Perchè dici così? — egli chiese arrampicandosi di nuovo sulla sella e afferrando con una mano la chioma di Alice, per risparmiarsi un tonfo dall’altro lato.

— Perchè quelli che sono esercitati ad andare a cavallo non cadono con tanta frequenza.

— Io ho un sacco d’esercizio, — disse il Cavaliere con gravità, — un sacco d’esercizio.

Alice non seppe dir altro che "Davvero?"; e lo disse con la maggiore cordialità possibile.

Essi camminarono un po’ in silenzio dopo questo, il Cavaliere con gli occhi chiusi, mormorando fra sè, e Alice aspettando con qualche ansia il prossimo capitombolo.

— La grande arte dell’equitazione, — cominciò improvvisamente il Cavaliere a voce alta, gestendo col braccio destro mentre parlava, — consiste nel tenersi...

Improvvisamente com’era cominciata, la frase fu interrotta e il Cavaliere cadde pesantemente nel punto esatto dove Alice camminava. Ella s’impaurì assai questa volta, e domandò con ansia mentre lo rialzava:

— Spero non vi siate rotto nulla?

— Nulla di grave, — disse il Cavaliere, come se non volesse dir nulla l’essersi rotte due o tre ossa. — La grande arte dell’equitazione, come dicevo, consiste nel tenersi nel giusto equilibrio. Così come ora vedi...

Abbandonò la briglia, e stese le braccia per mostrare ad Alice ciò che intendeva, e questa volta cadde di piatto sulla schiena, proprio sotto i piedi del cavallo.

— Un sacco d’esercizio, — continuò a ripetere, mentre Alice lo rimetteva in piedi. — Un sacco d’esercizio!

— È troppo ridicolo! — gridò Alice, perdendo la pazienza questa volta. — Dovreste avere un cavallo di legno con le ruote, ecco che dovreste avere.

— È un animale tranquillo? — chiese il Cavaliere con accento di grande interesse, abbracciando il collo del cavallo mentr’egli parlava, appena in tempo per salvarsi da un nuovo capitombolo.

— Molto più tranquillo d’un cavallo vivo, disse Alice, con uno scroscio di risa, nonostante si fosse sforzata di non ridere.

— Ne voglio acquistare uno, — disse il Cavaliere, pensoso. — Uno o due... parecchi.

Vi fu un breve silenzio e poi il Cavaliere continuò:

— Io ho un gran genio per le invenzioni. Ora certo avrai notato l’ultima volta che m’hai raccolto che io apparivo piuttosto meditabondo.

— Sì, eravate un po’ grave, — disse Alice.

— Bene, proprio in quel momento stavo inventando la maniera per salire su un cancello... vuoi sentirla?

— Volentieri, — disse cortesemente Alice.

— Ti dirò come mi è venuta in mente, — disse il Cavaliere, — Vedi’ io mi son detto: "La sola difficoltà è nei piedi: la testa è già abbastanza alta". Dunque, prima metto la testa sopra il cancello... così la testa è alta abbastanza... allora mi poggio sulla testa... così, vedi, i piedi si trovano abbastanza in alto; — e allora son su, vedi.

— Sì, credo che sarete su, quando avrete fatto tutto questo, — disse Alice pensosa, — ma non vi sembra un po’ difficile?

— Non lo so ancora, — disse gravemente il Cavaliere, — e non posso dirlo con certezza... ma temo che sia un po’ difficile.

E parve così amareggiato all’idea, che Alice cambiò discorso in fretta.

— Che curioso elmo che avete! — ella disse lietamente’ — è anche questa una vostra speciale invenzione?

Il Cavaliere guardò orgogliosamente l’elmo, che pendeva dalla sella:

— Sì, — disse, — ma ne ho inventato uno migliore... a pan di zucchero. Quando io usavo di portarlo, se cadevo di cavallo, esso toccava il suolo sempre prima. Così avevo pochissima via da fare... Ma v’era il pericolo di cadervi dentro... Sicuro. Questo mi accadde una volta... e il peggio si fu che prima che io potessi uscirne arrivò l’altro Cavaliere Bianco e se lo mise. Egli credette che fosse il suo.

Il Cavaliere parlava con tanta solennità che Alice non osò di ridere.

— Temo che gli abbiate fatto male, — ella disse con voce tremante, standogli sopra la testa.

— Dovetti dargli dei calci, — disse il Cavaliere, con molta serietà. — E poi si tolse l’elmo... ma ci vollero ore e ore perchè io uscissi fuori. Ero stretto come... come un buco.

— Ma quella è una strettezza diversa — obiettò Alice.

Il Cavaliere scosse la testa:

— Ti giuro che sentivo ogni specie di strettezza, — egli disse. Levò le mani eccitato mentre pronunziava questo, e immediatamente rotolo dalla sella, andando a cadere lungo disteso in un fosso profondo.

Alice corse sull’orlo del fosso per dargli una mano. Era sorpresa di quella caduta, chè, per qualche tempo, egli era andato innanzi senza incidenti, ed ella temè che quella volta veramente egli si fosse fatto male. Pure, sebbene non vedesse di lui che le suole delle scarpe, si confortò sentendolo parlare nel solito tono.

— Ogni specie di strettezza, — egli ripeteva, — ma non fu un bel tratto mettersi l’elmo d’un’altra persona, con la persona dentro per giunta.

— Come potete continuare a parlare con tanta tranquillità a testa in giù? — chiese Alice, mentre lo tirava per i piedi, e lo metteva come un fagotto sulla sponda.

Il Cavaliere parve sorpreso alla domanda:

— Che importa dove il corpo si trovi? — egli disse. — Il mio cervello continua a lavorare lo stesso. Anzi, più mi trovo a testa in giù e più continuo a inventare cose nuove. Ora la più bella invenzione da me fatta, — egli continuò dopo una pausa, — è quella d’un nuovo bodino nel corso del pranzo.

— Da fare in tempo per averlo pronto per la prossima portata? — disse Alice. — Certo una bella invenzione.

— Non per la prossima portata, no, — disse il Cavaliere lento e pensoso, — no, non per la prossima portata.

— Forse allora per il giorno seguente, per non avere due piatti di bodino nello stesso pranzo?

— No, non per il giorno seguente, — ripetè il Cavaliere come prima, — no, non per il giorno seguente. Veramente, — egli continuò, chinando la testa e parlando sempre più lento e più piano, — credo che quel bodino non sarà mai cotto. Veramente, credo che quel bodino non sarà mai cotto. E pure non ci è voluto poco per inventarlo.

— Di che volevi che si facesse? — chiese Alice, sperando di fargli piacere, perchè il povero Cavaliere sembrava tanto scoraggiato a causa del bodino.

— Cominciava con la carta asciugante, — rispose il Cavaliere con un gemito.

— Temo non sarà appetitoso...

— Non molto appetitoso, — egli interruppe pronto, — ma tu non puoi immaginare come sarebbe diverso mischiato con altre cose... per esempio, con polvere da sparo e ceralacca. E ora io debbo lasciarti.

Erano appunto arrivati all’estremità del bosco.

Alice appariva tutta confusa, pensando al bodino.

— Tu sei triste, — disse il Cavaliere con ansia, — ti canterò una canzone per confortarti.

— È molto lunga? — chiese Alice, perchè aveva sentito molta poesia quel giorno.

— Sì lunga, — disse il Cavaliere, — ma è molto, molto bella. Chiunque la sente cantare, o piange o pure...

— O pure che? — disse Alice, perchè il Cavaliere s’era subitamente interrotto.

— O non piange. Il nome della canzone si chiama Occhi d’Agoni.

— Ah, questo è il nome della canzone, disse Alice, tentando di sentirsi interessata.

— No, non capisci, — disse il Cavaliere, apparendo un po’ amareggiato. — È il nome come è chiamata. Il nome vero è "L’uomo vecchio, vecchio."

— Allora, io avrei dovuto dire: "E così che è chiamata la canzone?" — Alice si corresse.

— No, che non dovevi. È diverso. La canzone è chiamata "Modi e Mezzi", ma, sai, così si chiama soltanto.

— Bene, qual’è la canzone allora? — chiese Alice che era già completamente sconvolta.

— Venivo appunto a questo, — disse il Cavaliere. — Il titolo della canzone è veramente: "Seduto su un cancello."

Così dicendo, fermò il cavallo e gli abbandono le redini sul collo; poi, pianamente, battendo il tempo con le mani e con un debole sorriso che gli illuminava il viso sciocco e gentile, come compiaciuto della musica della sua canzone, egli cominciò.

Di tutte le strane cose viste da Alice nel suo viaggio per la Casa dello Specchio, questa fu l’unica che le rimase in mente impressa più chiaramente. Molti anni dopo poteva rappresentarsi tutta la scena come se l’avesse veduta soltanto il giorno prima... I miti azzurri occhi del Cavaliere; il sole al tramonto che gli irradiava i capelli e si rifletteva nella corazza con uno splendore che quasi l’accecava; il cavallo che s’aggirava tranquillamente intorno con le redini che gli pendevano dal collo, brucando l’erba ai suoi piedi; e le ombre nere della foresta in fondo... tutto questo ella guardava come un quadro, mentre con una mano si faceva schermo agli occhi, appoggiata a un albero, mirando la strana coppia e ascoltando, come in sogno, la melanconica musica della canzone.

"Ma la musica non è di sua speciale invenzione" — ella si disse, perchè ricordava d’averla già sentita. L’ascoltò con molta attenzione, ma non le vennero agli occhi le lagrime.

Ti dirò.... presta l’orecchio...
ma non c’è nulla di bello...
vidi un uomo vecchio vecchio
star seduto su un cancello
"Chi sei, vecchio? Come hai nome?
Come vivi?" poi gli faccio;
e attraverso la mia testa la risposta passa come
l’acqua messa nello staccio.

Disse: "Cerco le farfalle
che s’addormon nel frumento,
io ne faccio torte gialle,
che poi vendo al Parlamento
e alle barche quando insane
in tempesta vorticosa
scioglie il mare l’onde irate e così guadagno il pane;
 come vedi un’ardua cosa."

Ma pensavo in quel momento
a un bellissimo progetto;
colorarsi in verde il mento
come un fresco cespuglietto.
Così senza una risposta
al discorso del vecchietto
dissi sol queste parole:
"La tua vita quanto costa?"
e gli caddi sopra il petto.

Ei riprese con bel tono:
"Faccio sempre a modo mio:
se nel bosco incontro un tuono,
lo precipito nel rio.
Se ne forma una sostanza molto simile al catrame;
io guadagno cinque soldi;
ed inver non me ne avanza
per calmare la mia fame."

Ma pensavo come fare
per cibarmi di formaggio,
e ogni giorno diventare
di maggiore tonnellaggio.
Io lo scossi in tutti i sensi,
e, lasciandol senza fiato:
"Parla", dissi, "come vivi; parla", aggiunsi, "come pensi?
e che cosa hai progettato?"

Ei rispose: "Occhi d’agoni
vo cercando nei giardini;
li trasformano in bottoni
per le giacche dei bambini,
ma per oro non li vendo
e neppure per argento,
o per qualche nichelino. Un soldin di rame prendo,
e con un ne acquisto cento.

Spesso cerco zolle erbose
per far ruote ai miei carretti,
pesco frutta butirrose,
spesso scavo dei panetti
e così (strizzando l’occhio)
io mi faccio un gruzzoletto
che mi serve per benino; fo’ il signore, vado in cocchio
e a te brindo con rispetto."

Tacque, ed io senza far motto
concretato avea un disegno:
preservar col Vino cotto
dalla ruggine ogni legno.
Ringraziai molto il vecchietto,
che mi diede assai cortese
le notizie a lui richieste: ma ancor più per il rispetto
nel suo brindisi palese.

Ed io or se alle finestre
le mie dita a un tratto affaccio
od un piede della destra
nel sinistro guanto caccio
e nel pollice del mento
mi si versa un monumento,
tosto a piangere mi metto,

chè ricordo quel vecchietto,
dolce e bruno, mite e schietto,
che parlava con affetto
con linguaggio assai corretto,
che tenea coperto il petto
d’un bellissimo farsetto
ed intorno al capo stretto
un magnifico berretto
che accostava al naso un netto
ricamato fazzoletto
e sedea, come ho già detto,
sul cancello d’un muretto.

Mentre il Cavaliere cantava le ultime parole della ballata, raccolse le redini, e volse la testa del cavallo verso la strada dalla quale erano venuti...

— Tu hai ancora pochi passi da fare, — egli disse, — giù per la collina e oltre quel ruscelletto e poi sarai Regina... Ma fermati un poco e guardami andar via prima, — aggiunse mentre Alice volgeva subito lo sguardo nella direzione da lui indicata. — Farò presto. Tu aspetta e agita il fazzoletto quando arrivo a quell’angolo della strada. Ne sarò incoraggiato, sai.

— Andate, chè aspetto, — disse Alice, — e tante grazie per esser venuto fin qui... e per la canzone... che mi è piaciuta molto.

— Lo spero, — disse il Cavaliere con accento di dubbio, — ma non hai pianto, come io immaginavo.

Si strinsero le mani, e il Cavaliere s avviò lentamente a cavallo per la foresta.

— Non passerà molto che lo vedrò cadere credo, — si disse Alice, mentre lo guardava. — Eccolo, è caduto con la testa in giù, come al solito. Però, si rialza abbastanza facilmente... Cade perchè ha tanti oggetti appesi al cavallo...

Così continuò a parlare a sè stessa, mentre sulla strada guardava il cavallo andare al passo e il cavaliere precipitare prima da un lato e poi dall’altro. Dopo il quarto o il quinto capitombolo, egli raggiunse la voltata; ella agitò il fazzoletto verso di lui, aspettando che fosse fuor di vista.

"Spero di averlo incoraggiato, — ella disse, e si voltò correndo giù per la collina: — e ora per l’ultimo ruscello ad essere Regina. Come suona solenne!"

Pochi passi la portarono sull’orlo del ruscello.

"L’ottava Casella, finalmente!" — ella gridò, mentre saltava, e si gettò a riposare su un prato morbido come il musco, con aiuole che lo circondavano qua e là.

"Oh, come son contenta d’essere qui! E che cosa ho sulla testa? — esclamò in tono di sorpresa dolorosa, mettendo le mani su un oggetto molto pesante, che le aderiva strettamente alla fronte. — Ma come posso essermelo messo senza saperlo?" — essa aggiunse, togliendosi l’oggetto e mettendoselo in grembo per veder che cosa fosse.

Era una corona d’oro.