Il Leone e l'Unicorno

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Lewis Carroll - Attraverso lo specchio (1871)
Traduzione dall'inglese di Silvio Spaventa Filippi (1914)
Il Leone e l'Unicorno
VI VIII

L’istante dopo dei soldati arrivavano correndo per il bosco, in principio a due o tre, poi a dieci o venti insieme, e finalmente in tali masse che sembravano riempire tutta la foresta. Alice si rifugiò dietro un albero per paura d’esser travolta e li guardò passare.

Pensava di non aver mai veduto in vita sua tanti soldati proceder con tanta incertezza di gambe; inciampavano sempre su questo o quell’oggetto, e quand’uno cascava, parecchi altri gli cascavano addosso, di guisa che il suolo fu tosto coperto di mucchi di uomini.

Poi vennero i cavalli. Avendo quattro piedi, se la cavavano molto meglio dei fanti; ma anch’essi inciampavano di tanto in tanto, e sembrava che fosse regola normale, quando un cavallo inciampava, che il cavaliere dovesse istantaneamente cadere. La confusione si faceva ogni momento maggiore, e Alice fu lietissima di uscir fuori del bosco in un luogo scoperto, dove trovò il Re Bianco seduto a terra e tutto affaccendato a scrivere nel suo taccuino.

— Li ho mandati tutti, — gridò il Re in tono di grande soddisfazione vedendo Alice. — T’è capitato d’incontrare dei fanti, cara, venendo per il bosco?

— Sì, — disse Alice, — e parecchie migliaia, credo.

— Quattromila duecento e sette è il numero esatto, — disse il Re, riferendosi al libro. — Non ho potuto mandarli tutti, sai, perchè due occorrono al giuoco. E neanche ho mandato i due Alfieri. Entrambi sono andati in città. A proposito guarda sulla strada, e dimmi se vedi qualcuno di essi.

— Nessuno, — disse Alice, dopo aver dato un’occhiata alla strada.

— Mi rallegro con i tuoi occhi, — osservò il Re con tono stizzoso. — Poter veder Nessuno. E a tanta distanza poi! Figurati che è già tanto se mi riesce di veder qualcuno, con questa luce.

Tutto questo non fu sentito da Alice, ancora intenta a guardare sulla strada, facendosi schermo agli occhi con la mano.

— Io veggo qualcuno ora, — finalmente ella esclamò, — ma viene avanti pian piano, e con che strani atteggiamenti! (Perchè l’Alfiere continuava a saltare di qua e di là, e, contorcendosi come una anguilla, veniva innanzi con le mani aperte come ventagli ai due lati.)

— Niente affatto, — disse il Re. — Egli è un Alfiere anglo-sassone... e quelli sono atteggiamenti anglo-sassoni. Fa così quando si sente felice. Si chiama Fortunello.

— Io amo il mio amore con un F. — cominciò Alice, pensando a certo ritornello infantile, perchè egli è Felice. Lo odio con un F. perchè è Fellone. Lo cibo con... con... con Fette di sandwiches e Fieno. Si chiama Fortunello e vive...

— E vive a Firenze, — osservò il Re semplicemente, senza la minima idea di unirsi al giuoco, mentre Alice esitava nel cercare il nome di una città con un F. — L’altro Alfiere si chiama Hatta. Debbo averne due, sai, per venire e andare: uno a venire, e uno ad andare.

— Scusatemi... — disse Alice.

— Non hai fatto nulla per chiedermi scusa — disse il Re.

— Volevo dire che non capivo, — disse Alice, — perchè uno per venire e l’altro per andare?

— Non te l’ho detto, — ripetè il Re, impazientito, — che ne debbo aver due a... ad andare a portare. Uno ad andare e uno a portare.

In quel momento arrivò l’Alfiere: non gli era rimasto tanto di fiato da poter dire una parola; poteva solo accennare dei grandi gesti con le mani, e far le più terribili smorfie al povero Re.

— Questa signorina ti ama con un F. — disse il Re, presentando Alice nella speranza di stornar da sè l’attenzione dell’Alfiere; ma invano. Gli atteggiamenti anglo-sassoni si facevano sempre più straordinari, mentre gli occhi spalancati giravano furiosamente da un lato all altro.

— Tu mi allarmi, — disse il Re. — Mi sento debole... dammi una fetta di sandwich!

— A ciò l’Alfiere, con gran divertimento di Alice, aprì un sacchetto che portava appeso al collo, e diede un sandwich al Re, che lo divorò avidamente.

— Un altro sandwich! — disse il Re.

— Non è rimasto che il fieno, ora, — disse l’Alfiere, guardando nel sacchetto.

— Fieno, allora, — mormorò il Re con un sussurro.

Alice fu lieta di vedere che il fieno lo rianimava.

— Non c’è nulla come il fieno, se uno si sente debole, — egli le osservò, continuando a masticare.

— Forse sarebbe meglio gettarvi dell’acqua fredda addosso, — suggerì Alice, —...o dei sali volatili.

— Non ho detto che non v’è nulla di meglio, — rispose il Re, — ho detto nulla come il fieno.

Il che Alice non s’arrischiò di contestare.

— Chi passava sulla strada? — continuò il Re, stendendo la mano all’Alfiere per avere altro fieno.

— Nessuno, — disse l’Alfiere.

— Per l’appunto, — disse il Re, — l’ha visto anche questa signorina. Allora Nessuno cammina più piano di te.

— Io faccio del mio meglio, — disse l’Alfiere imbronciato, — e son sicuro che nessuno cammina più presto di me.

— È impossibile, — disse il Re, — sarebbe arrivato prima di te. Frattanto, hai ripigliato fiato e puoi dirci ciò che è accaduto nella città!

— Te lo dirò all’orecchio, — disse l’Alfiere, mettendosi le mani alla bocca a guisa di tromba, e chinandosi sull’orecchio del Re.

Alice si dispiacque di quest’atto, perchè voleva saper le notizie anche lei. Però, invece di far un sussurro con le labbra, l’Alfiere strillò con tutti i suoi polmoni:

— La solita battaglia!

— E questo tu lo chiami dirmelo all’orecchio? — gridò il povero Re facendo un balzo. — M’è parso d’avere un terremoto in testa.

— Chi è che fa la solita battaglia?

— Il Leone e l’Unicorno, chi altri può essere? — disse il Re.

— Battagliano per la Corona?

— Certo, — disse il Re, — e il più bello si è che è sempre per la mia corona. Corriamo a vedere

E s’avviarono al trotto, mentre Alice si ripeteva le parole della vecchia canzone:

Battagliar per la Corona il Leone e l’Unicorno,

che fu vinto dal Leone in cittade e intorno intorno,

chi mangiar fe’ I’Unicorno, chi mangiare fe’ il Leone
pane bianco e pane bruno, pan di Spagna con torrone.

— Chi vince ottiene la corona? — ella chiese, come potè, perchè la corsa le toglieva il fiato.

— Povero me, no! — disse il Re. — Che idea?

— Sareste così cortese..., — disse Alice ansando, dopo aver corso un poco più oltre, — da fermarvi un minuto... per respirare un poco.

— Io sono cortese, — disse il Re, — ma non son forte abbastanza. Vedi, un minuto è così tremendamente veloce. Sarebbe lo stesso che voler fermare un lampo.

Non avendo più fiato per parlare, Alice continuò a correre in silenzio, finchè si trovò di fronte a una gran folla, in mezzo alla quale battagliavano il Leone e l’Unicorno.

Erano in una nuvola di polvere così densa, che in principio Alice non potè distinguerli: ma poi capì dal corno qual’era l’Unicorno. Essa col Re si dispose accanto ad Hatta, l’altro Alfiere, che guardava il combattimento con una tazza di tè in una mano e un pezzo di pane imburrato nell’altra.

— È uscito ora di prigione, e non aveva finito il tè quando ci fu mandato, — sussurrò Fortunello ad Alice: — là dentro non si danno che gusci d’ostriche... così ha molta fame e molta sete. Come stai, caro mio? — egli continuò, mettendo affettuosamente il braccio intorno al collo di Hatta.

Hatta guardò in giro e fece un cenno con la testa continuando a mangiare il pane imburrato.

— Te la passavi felicemente in prigione, amico caro? — disse Fortunello.

Hatta girò ancora intorno lo sguardo, e una lagrima o due gli solleticarono questa volta la guancia; ma non disse una parola.

— Parla, non puoi parlare? — gridò Fortunello impaziente.

Ma Hatta masticava e beveva tè.

— Parla, non vuoi parlare? — gridò il Re. Come si conducono al combattimento?

Hatta fece uno sforzo disperato, e inghiottì un gran pezzo di pane e burro.

— Continuano benissimo, — egli disse con voce soffocata: — ciascuno dei due è caduto circa ottantasette volte.

— Allora si darà loro il pane bianco e il pane bruno?

— Li aspettiamo ora, — disse Hatta, — adesso me ne sto mangiando un pezzo.

Vi fu una pausa nel combattimento in quell’istante, e il Leone e l’Unicorno si sedettero ansando, mentre il Re gridava:

— Son concessi dieci minuti per i rinfreschi. Fortunello e Hatta si misero subito al lavoro, portando vassoi di pane bianco e bruno. Alice se ne prese un pezzo da assaggiare, ma era molto secco.

— Non credo ch’essi combatteranno più oggi, — disse il Re ad Hatta; — dà l’ordine ai tamburi di cominciare.

E Hatta se n’andò saltando come un grillo.

Per un minuto o due Alice se ne rimase in silenzio a guardarlo. A un tratto s’illuminò:

— Guarda, guarda! — ella gridò puntando un dito. — Ecco la Regina Bianca che corre per la campagna. Essa è venuta a volo dal bosco laggiù. Come possono correre presto queste Regine!

— Senza dubbio ha qualche nemico alle calcagna, — disse il Re, senza neanche levar lo sguardo. — Questo bosco n’è pieno.

— Ma perchè non correte ad aiutarla? — chiese Alice, sbalordita di vederlo prender la cosa con tanta tranquillità.

— È inutile, è inutile! — disse il Re. — Corre con tanta rapidità. Sarebbe come voler acchiappare un lampo. Ma io piglierò un appunto su di lei, se tu vuoi... È una creatura così buona! — ripetè pianamente a sè stesso mentre apriva il taccuino. — Creatura la scrivi con due "a"?

In quel momento arrivava trotterellando l’Unicorno, con le mani in tasca.

— L’ho vinto questa volta, — egli disse al Re, dandogli un’occhiata mentre gli passava accanto.

— Un poco... un poco, — rispose il Re con qualche nervosità. — Non avresti dovuto trafiggerlo col corno, però.

— Non gli ho fatto male, — disse calmo l’Unicorno, e stava per continuare quando s’avvide di Alice. Si voltò immediatamente e stette a guardarla con l’aria del più profondo disgusto.

— Che cosa... è... mai? — disse finalmente.

— Una bambina, — rispose subito Fortunello, mettendosi di fronte ad Alice per presentarla, e stendendo ambo le mani verso di lei in atteggiamento anglosassone. — L’abbiamo trovata oggi. È grande al vivo e più che naturale.

— Io avevo creduto sempre che fossero dei mostri favolosi, — disse l’Unicorno. — È viva?

— Può parlare, — disse Fortunello solennemente.

L’Unicorno guardò Alice come in sogno, e disse:

— Parla, bambina.

Alice non potè non schiudere le labbra a un sorriso, mentre cominciava:

— Non sapete, anch’io avevo sempre creduto che gli Unicorni fossero mostri favolosi. Non ne avevo visto ancora uno vivo.

— Bene, ora che ci siamo visti tutti e due, — disse l’Unicorno, — se tu crederai in me, io crederò in te. Accetti il patto?

— Sì, se vi piace.

— Adesso fa portare la torta, caro, — disse l’Unicorno volgendosi da lei al Re. — Per me, niente del tuo pane bruno oggi.

— Certo... certo! — mormorò il Re. e fece cenno a Fortunello. — Apri il sacco, — egli sussurrò. — Presto, non quello... quello è pieno di fieno.

Fortunello trasse una grossa torta dal sacco, e la diede a tenere ad Alice, mentre egli prendeva un piatto e un coltello. Come fossero tutte queste cose uscite dal sacco, Alice non potè indovinare. Era come un giuoco di prestidigitazione, essa pensava.

Il Leone li aveva raggiunti, frattanto: appariva molto stanco e assonnato, e aveva gli occhi semichiusi.

— Che è questo? — disse, dando una pigra occhiata ad Alice, e parlando in un tono di basso profondo, che pareva il rintocco d’una campana.

— Ah, sì, che è questo? — gridò pronto l’Unicorno. — Non l’indovineresti mai! lo non ho potuto.

Il Leone guardò Alice annoiato:

— Sei un animale... un vegetale... un minerale? — disse sbadigliando ad ogni parola.

— È un mostro favoloso! — esclamò l’Unicorno, prima che Alice potesse rispondere.

— Allora servici la torta, Mostro; — disse il Leone sedendosi in terra e tenendosi il mento fra le zampe. — E sedetevi anche voi (al Re e all’Unicorno): e dividi la torta in parti uguali, sai.

Evidentemente il Re non appariva soddisfatto di dover sedere fra le due grandi creature; ma non c’era altro posto per lui.

— Che battaglia potremmo darci per la corona, ora! — disse l’Unicorno, guardando di sottecchi la corona che il povero Re era sul punto di vedersi cader di testa, tanto tremava in tutte le. membra.

— Vincerei facilmente, — disse il Leone.

— Non lo credo, — disse l’Unicorno.

— Sì, ed io ti batto intorno alla città, pollo che non sei altro! — rispose irosamente il Leone facendo l’atto di levarsi mentre parlava.

Allora il Re intervenne per far cessare il litigio: aveva i nervi molto scossi e la voce gli tremava:

Intorno alla città? — egli disse. — C’è molta strada. Andate per il ponte o per la piazza del mercato? Dal ponte si gode un magnifico panorama.

— Non so, — brontolò il Leone, nell’atto di riadagiarsi. — V’era tanta polvere che non si vedeva nulla. Quanto ci mette il Mostro a tagliare quella torta!

Alice s’era seduta sull’orlo d’un ruscelletto col gran piatto sulle ginocchia e tagliava attentamente col coltello.

— Che seccatura! — ella disse, rispondendo al Leone (s’era già abituata ad esser chiamata "Mostro"), — io taglio le fette, ed esse si riappiccicano.

— Tu non sai come si trattano le torte dello Specchio! — osservò l’Unicorno. — Prima devi distribuire le parti e poi tagliarle.

Questo pareva assurdo, ma Alice ubbidientemente si levò, portò in giro il piatto, e la torta si divise in tre pezzi, mentre la bambina andava dall’uno all altro.

— Ora tagliala, — disse il Leone, mentre ella tornava al suo posto col piatto vuoto.

— Dichiaro che non è giusto, — gridava l’Unicorno, mentre Alice, seduta col coltello in mano, non sapeva di dove cominciare. — Il Mostro ha dato al Leone una porzione due volte più grossa della mia.

— Non s’è tenuta la porzione sua, però, disse il Leone. — Ti piace la torta, Mostro?

Ma prima che Alice potesse rispondere, cominciarono i tamburi.

Ella non potè comprendere donde venisse il rumore: l’aria ne sembrava piena, e il fracasso la rintronava in modo da assordarla. Ella balzò in piedi e fece un salto a traverso il ruscelletto per la paura che l’aveva invasa, ed ebbe appena il tempo di vedere il Leone e l’Unicorno levarsi in piedi, con gli sguardi irati per quell’interruzione della loro colazione, prima di cadere in ginocchio e di mettersi le mani alle orecchie, invano tentando di smorzare quello spaventoso fracasso.

"Se questo stamburio non li caccia fuori della città, — ella pensava, — nulla vi riuscirà."