Attraverso lo specchio/VI
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Traduzione dall'inglese di Silvio Spaventa Filippi (1914)
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Ma l’uovo diventava sempre più grosso e più grosso, e sempre più umano e più umano: e come ella s’avvicinò, vide che aveva gli occhi e il naso e la bocca, e come si avvicinò ancor più, vide chiaramente ch’era Unto Dunto in persona.
"Non può essere che lui, — ella si disse. Ne son più certa, che se lo avesse scritto in faccia."
Avrebbe potuto essere scritto un centinaio di volte, comodamente, su quella faccia enorme. Unto Dunto con le. gambe incrociate, come un turco, era seduto sull’orlo d’un muro alto, così stretto che Alice si meravigliò come egli potesse tenersi in equilibrio. Siccome gli occhi di lui guardavan fisso nella direzione opposta, e non s’accorgevano affatto della bambina, questa pensò, dopo tutto, che Unto Dunto fosse una persona imbalsamata.
— E come rassomiglia esattamente a un uovo, — disse ad alta voce, pronta con le mani ad acchiapparlo, perchè temeva ad ogni istante di vederlo cadere.
— È molto seccante, — disse Unto Dunto, dopo un lungo silenzio, guardando da un’altra parte, mentre parlava, — sentirsi dar dell’uovo. Molto, molto seccante!
— Ho detto che rassomigliavate ad un uovo, signore, — spiegò Alice gentilmente. — E alcune uova sono graziosissime, veramente, — ella aggiunse, sperando di fare accettare la sua frase come un complimento.
— Certi, — disse Unto Dunto, sempre guardando, come il solito, da un’altra parte, — non hanno più intelligenza di un fantolino.
Alice non sapeva che rispondere: si disse che quella non era una conversazione, perchè egli non le rivolgeva mai la parola; l’ultima osservazione infatti l’aveva rivolta evidentemente ad un albero. Così ella se ne stette muta, ripetendo dolcemente a sè stessa:
Unto Dunto sedea sul muro
Unto Dunto cascò sul duro;
Tutti i fanti che accorsero tosto
Non sepper alzarlo e rimetterlo a posto.
Quest’ultimo verso è troppo lungo per una poesia; — ella aggiunse, quasi ad alta voce, dimenticando che Unto Dunto la sentiva.
— Non chiacchierare così sola, — le disse Unto Dunto, guardandola per la prima volta, — ma dimmi come ti chiami e che fai.
— Mi chiamo Alice, ma...
— Hai un nome molto sciocco! — la interruppe con impazienza Unto Dunto. — Che cosa significa?
— Forse che un nome deve significare qualche cosa? — domandò Alice dubbiosa.
— Altro che! — disse Unto Dunto con una breve risata: Il mio nome significa la forma che ho io... fra parentesi una forma graziosa e bella. Con un nome come il tuo si può avere qualunque forma o quasi.
— Perchè ve ne state lì seduto solo solo? chiese Alice che non voleva cominciare una discussione.
— Perchè non v’è nessuno con me! — gridò Unto Dunto. — Credevi che non ti sapessi rispondere? Domanda un’altra cosa.
— Non pensate che in terra stareste più sicuro? — Alice continuò; non con l’idea di proporre un altro indovinello, ma semplicemente per simpatia verso la strana creatura. — Lassù dovete stare così scomodo.
— Che facili indovinelli mi dai a indovinare! — brontolo Unto Dunto. — Io no, non la penso così. Ebbene, se mai cadessi... non c’è pericolo...; ma se cadessi... — e qui egli gonfiò le labbra, e prese un aspetto così solenne e maestoso che Alice non potè, per quanto facesse, trattenersi dal ridere. — Se cadessi, — egli continuo, — "Il Re mi ha promesso..." puoi anche diventar pallida, se ti dispiace. Tu non credevi che dovessi dir questo? Il Re mi ha promesso... con la sua stessa bocca... di... di...
— Di mandarvi tutti i suoi fanti, — Alice interruppe, piuttosto imprudentemente.
— Ora io ti dico che sta malissimo, — gridò Unto Dunto, montando improvvisamente in collera. — Tu hai origliato alla porta... e dietro gli alberi... e sotto i camini... se no, non l’avresti saputo.
Ma no, — disse Alice molto umilmente, — c’è in un libro.
— Ah, sì, si scrivono simili cose nel libri? disse Unto Dunto con tono più calmo. — Forse è nella storia. Ora guardami. Io sono uno che ha parlato col Re: forse non vedrai mai un altro, che abbia parlato al Re, e per mostrarti che io non sono orgoglioso, ti permetto di stringermi la mano. (E ghignò quasi da un orecchio all’altro, mentre si sporgeva più che gli era possibile, da quel muro) e stese la mano ad Alice. Ella lo guardava con qualche ansia, mentre la prendeva.
"Se egli sorridesse un po’ più, le estremità della bocca gli si incontrerebbero sulla nuca, ella pensava: — e chi sa che potrebbe accadere alla sua testa. Temo che si spaccherebbe."
— Sì, mi manderebbe tutti i suoi fanti, continuò Unto Dunto. — In un minuto mi raccoglierebbero, altro che! Però questa conversazione va troppo rapidamente innanzi, ritorniamo alla penultima osservazione.
— Non credo di ricordarla, — disse Alice con molta cortesia.
— Se è così, cominceremo da capo, — disse Unto Dunto, — ed ora spetta a me scegliere un soggetto. ("Egli parla come se si trattasse di un giuoco," pensava Alice). Ecco una domanda per te. Quanti anni dicevi di avere?
Alice fece un breve calcolo e disse:
— Sette anni e sei mesi.
— Che c’entra? — esclamo Unto Dunto con accento di trionfo. — Tu non avevi mai detto niente di simile.
— Io credevo che voi intendeste: "Quanti anni hai," — spiego Alice.
— Se avessi inteso questo, l’avrei detto, disse Unto Dunto.
Alice, non volendo incominciare un’altra discussione, non disse nulla.
— Sette anni e sei mesi! — ripetè Unto Dunto pensoso. — Un’età molto scomoda. Se tu ti fossi consigliata con me, t’avrei detto: "fermati a sette"... ma ora è troppo tardi.
— Non mi consiglio con nessuno sull’età, disse Alice indignata.
Così orgogliosa sei? — chiese l’altro.
Alice si sentì ancora più indignata a questa domanda.
— Voglio dire che uno non può fare a meno dal crescere.
— Uno forse non può, — disse Unto Dunto, — ma due sì. Efficacemente aiutata, avresti potuto rimanere a sette.
— Che bella cintura che avete! — osservò improvvisamente Alice. (Ne avevano abbastanza sul conto dell’età, ella pensava, e se veramente dovevano scegliere i soggetti a turno, adesso toccava a lei) — cioè, — ella corresse, ripensandoci — una bella cravatta. Avrei dovuto dire... no, una cintura, voglio dire... scusatemi, — essa aggiunse impacciata, perchè Unto Dunto appariva perfettamente offeso, ed ella cominciò a deplorare di aver toccato quell’argomento. — Se soltanto sapessi, — diceva fra sè, — qual è il collo e qual è il petto.
Evidentemente Unto Dunto era irritatissimo, sebbene stesse zitto per uno o due minuti. Quando riparlò, fu con un sordo brontolio.
— È... una cosa molto seccante, — egli disse finalmente, — che una persona non distingua una cravatta da una cintura.
— È per la mia grande ignoranza, — disse Alice, in un tono così umile che Unto Dunto si calmò.
— È una cravatta, e bella, come tu dici. È un dono del Re Bianco e della Regina. Ecco tutto.
— Veramente? — disse Alice, lietissima di aver trovato finalmente un buon argomento.
— Me l’hanno data, — continuò Unto Dunto pensoso, mettendo una gamba a cavalcioni sull’altra e circondando con le mani il ginocchio, me l’hanno data per un dono ingenetliaco.
— Scusatemi... — disse Alice con aria impacciata.
— Tu non m’hai offeso, — disse Unto Dunto.
— Voglio dire, che cosa è un dono ingenetliaco?
— Un dono che ti si offre quando non è il tuo genetliaco, è chiaro.
Alice stette un po’ a pensare.
— Mi piacciono più i doni genetliaci, — finalmente disse.
— Tu non sai quel che ti dici, — gridò Unto Dunto. — Quanti sono i giorni in un anno?
— Trecentosessantacinque.
— E quanti genetliaci hai?
— Uno.
— E se togli uno da trecentosessantacinque, che rimane?
— È semplice: trecentosessantaquattro.
Unto Dunto parve dubbioso.
— Lo vorrei eseguito sulla carta, — egli disse.
Alice non potè fare a meno dal sorridere, mentre cavava il taccuino e faceva per lui la sottrazione:
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l
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Unto Dunto prese il libro e guardò attentamente.
— Mi pare esatta... — egli cominciò.
— Lo tenete sottosopra! — interruppe Alice.
— È vero, — disse Unto Dunto allegramente, mentre Alice gli voltava il taccuino, — pensavo appunto che mi sembrava un po’ strano. Dicevo dunque: "Mi sembra esatta..." chè ora non ho il tempo di esaminarla con calma... e questo mostra che vi sono trecentosessantaquattro giorni nei quali ti può essere offerto un dono ingenetliaco.
Certo, — disse Alice.
— E uno solo per i doni genetliaci. Eccoti gloria.
— Io non so che intendiate per "gloria", disse Alice.
Unto Dunto sorrise con aria di compatimento..
— Certo che non lo intendi... se non te lo dico. Eccoti un magnifico trionfale argomento.
— Ma "gloria" non significa un magnifico trionfale argomento, — obiettò Alice.
— Quando io uso una parola, — disse Unto Dunto in tono d’alterigia, — essa significa ciò che appunto voglio che significhi: nè più nè meno.
— Si tratta di sapere, — disse Alice, — se voi potete dare alle parole tanti diversi significati.
— Si tratta di sapere, — disse Unto Dunto, — chi ha da essere il padrone... Questo è tutto.
Alice era così impacciata che non disse nulla, e dopo un minuto Unto Dunto ricominciò:
— Alcune di esse sono intrattabili... specialmente i verbi sono orgogliosissimi... con gli aggettivi si può fare ciò che si vuole, ma non con i verbi... Però io so maneggiarle tutte quante. Impenetrabilità! Ecco che dico!
— Vorreste dirmi, per favore, — disse Alice, — che cosa significa questo?
— Ora parli come una bambina ragionevole, — disse Unto Dunto, con un’aria molto soddisfatta. — Intendevo con "impenetrabilità" d’averne avuto abbastanza di questo argomento e che sarebbe stato opportuno che mi avessi detto che pensavi di far dopo, perchè suppongo che tu non intenda fermarti qui vita natural durante.
— È un voler far significare troppe cose a una parola sola, — disse Alice in tono pensoso.
— Quando a una parola faccio far tanto lavoro, — disse Unto Dunto, — la pago di più.
— Oh! — disse Alice, troppo confusa per fare anche una sola osservazione.
— Ah, dovresti vederle venirmi intorno la sera del sabato, — disse Unto Dunto, gravemente scotendo la testa da un lato all’altro, — per aver la paga.
(Alice non s’avventurò a chiedergli come le pagasse, e così io non posso dirvelo.)
— Voi, signore, sembrate abilissimo nello spiegare le parole, — disse Alice. — Mi fareste la cortesia di dirmi il significato della poesia intitolata Giabervocco?
— Sentiamola, — disse Unto Dunto. — Io posso spiegare tutte le poesie che sono state scritte... e molte che non sono state scritte ancora.
Questo sonava molto attraente, e Alice ripetè la prima strofa:
S’era a cocce e i ligli tarri
girtrellavan nel pischetto,
tutti losci i cincinarri
suffuggiavan longe stetto.
— Basta per cominciare, — interruppe Unto Dunto: — qui vi sono molte parole difficili. "Cocce" significa le dieci della mattina, l’ora in cui si comincia a cuocere i cibi per la colazione.
— Bene, — disse Alice, — e "ligli"?
— Ligli significa agile e limaccioso. "Li" è lo stesso che "attivo". Due significati in una parola sola.
— Ora comprendo, — osservò Alice pensosa, — e che sono i "tarri?"
— "Tarri" sono degli esseri simili ai tassi... alle lucertole... e ai cavaturaccioli.
— Che creature strane che debbono essere!
— Sì, — disse Unto Dunto, — e fanno i nidi sotto le meridiane e vivono di formaggio.
— E che vuol dire "girtrellare"?
— Girtrellare vuol dire rotare come un giroscopio e far buchi come un trapano.
— E il pischetto?
— La zolla d’erba intorno alla meridiana. È detta pischetto perchè si espande un po’ innanzi e un po’ dietro la meridiana...
— E un po’ da ogni lato, — aggiunse Alice.
— Appunto. "Losci" poi vuol dire deboli e miserabili (ecco un’altra parola con due significati... come un portamonete con due tasche). E "cincinnarro" è un uccellino con le piume piantate come aculei intorno intorno al corpo; una specie di strofinaccio vivo.
— E suffuggiare? Mi dispiace di darvi tanto disturbo.
— Vuol dire qualche cosa tra muggire e fischiare, con una specie di starnuto in mezzo: però tu lo sentirai fare... nel bosco laggiù, forse; e quando l’avrai sentito, sarai contenta. "Longe stetto." Non ne sono certo, ma mi pare voglia dire lontano senza tetto. Stetto, senza tetto... per dire che avevan smarrita la strada. Chi è che t’ha ripetuto tutto questo brano difficilissimo?
— L’ho letto in un libro. Ma m’è stata recitata una poesia molto più facile di questa da... Tuidledì, mi pare.
— In quanto a poesia, — disse Unto Dunto, levando una delle sue grandi mani, — te ne posso recitare più e meglio degli altri, se si tratta di questo...
— Oh, ne son certa, — disse Alice in fretta, sperando di trattenerlo dal cominciare.
— Quella che reciterò, — egli continuò senza raccogliere la sua osservazione, — fu scritta per tuo esclusivo divertimento.
Alice comprese che, stando così la cosa, era suo dovere di ascoltarla, e allora si sedette e disse "grazie" con accento piuttosto melanconico.
"— Nell’inverno quando i campi ed i monti sono bianchi io ti canto questo canto perchè un gaudio non ti manchi...."
soltanto che non lo canto, — egli aggiunse, come spiegazione.
— Veggo, — disse Alice.
— Se tu puoi vedere se io canti o no, hai gli occhi più acuti degli altri, — osservò con severità Unto Dunto.
Alice tacque.
"Quando i boschi in primavera s’inghirlandano di fronde
cercherò di dirti il senso che nei versi si nasconde."
— Grazie, disse Alice.
"Nell’estate quando i giorni sono lunghi e caldi tanto
forse tu potrai comprendere, che significa il mio canto.
Nell’autunno quando i rami delle foglie son già privi
prendi carta penna e inchiostro, ed il canto mio trascrivi,"
— Lo scriverò, se lo ricorderò, — disse Alice.
— Non è necessario fare osservazioni simili, — disse Unto Dunto, — sono insensate e mi scombussolano.
" Ho mandato ai pesci un foglio
per dir loro: "È ciò che voglio".
Ed i pesci dalla costa
m’han mandato la risposta.
Solo due parole o tre:
"È impossibile, perchè...."
— Temo di non comprendere, — disse Alice.
— Ora diventa più facile, — rispose Unto Dunto
"Ho mandato ancora a dire:
— Sara meglio di ubbidire:
Ed i pesci con calore:
— Siete in collera, signore.
E di nuovo un foglio piglio,
ma si ridon del consiglio!
Ho così preso un tegame
nuovo, lucido, di rame.
Alla pompa l’ho ben pieno,
mentre il cor batteami in seno.
È venuto uno e m’ha detto:
— Ora i pesci sono a letto.
Io mi son messo a gridare:
— Tu li devi risvegliare.
Chiaro e tondo gli ho parlato,
nell’orecchio gli ho strillato.
Unto Dunto alzò straordinariamente la voce, recitando queste strofe, e Alice pensava con un brivido:
— Non mi sarei voluta trovare nella pelle del messaggero.
Ma superbo egli e feroce
dice: — Abbassa quella voce.
Ma feroce egli e superbo dice:
— Andrò, — con piglio acerbo.
Un turacciolo lì presso
tosto abbranco e vado io stesso.
Perchè chiuse son le porte,
urto, picchio e batto forte.
Perchè chiuso sempre sta
la maniglia afferro, ma...
Vi fu una lunga pausa.
— È tutto? — chiese timidamente Alice.
— È tutto, — disse Unto Dunto. — Addio.
"È un congedo piuttosto brusco", penso Alice; ma dopo un così chiaro invito ad andarsene, ella stimò che sarebbe stato piuttosto indiscreto rimanere. Così si alzò e tese la mano:
— Addio, c’incontreremo un’altra volta, disse, — più allegra che potè.
— Non ti riconoscerei più, se c’incontrassimo, — rispose Unto Dunto poco soddisfatto, dandole da stringere un dito: — tu sei proprio come tutti gli altri.
— Generalmente, si giudica dal viso, — Alice osservo pensosa.
— È questo che deploro, — disse Unto Dunto. — Il tuo viso somiglia a quello di tutti gli altri.. due occhi (notando il loro posto in aria col pollice) — Il naso in mezzo, la bocca sotto. Sempre allo stesso modo. Se invece tu avessi gli occhi da un solo lato del naso, per esempio,... o la bocca al di sopra... potrebbe giovare a distinguerti.
— Non sarebbe bello, — obiettò Alice.
Ma Unto Dunto chiuse gli occhi e disse:
— Prova un poco.
Alice aspettò un minuto per sentir se parlasse ancora, ma siccome egli non apriva più bocca e non l’osservava più affatto, disse: "Addio," ancora una volta, e non avendone risposta si allontanò tranquillamente, ma non potè fare a meno dal dire mentre se n’andava:
"Fra tutte le persone... (essa parlava ad alta voce, come un gran conforto nel dover dire una cosa così solenne) sì, fra tutte le persone meno soddisfacenti da me incontrate...
Non finì mai la sentenza, perchè in quell’istante un enorme scroscio scosse la foresta da capo a fondo.