Libro terzo - Capitolo XX
Ma vie maggior diletto ti sarà e più senza fine maraviglioso, se tu da questi cieli che si veggono a quelli che non si veggono passerai, e le vere cose che ivi sono contempierai, d’uno ad altro sormontando, e in questo modo a quella bellezza, che sopra essi e sopra ogni bellezza è, inalzerai, Lavinello, i tuoi disii. Perciò che certa cosa è tra coloro, che usati sono di mirare non meno con gli occhi dell’animo che del corpo, oltra questo sensibile e material mondo, di cui e io ora t’ho ragionato e ciascuno ne ragiona più spesso, perciò che si mira, essere un altro mondo ancora né materiale né sensibile, ma fuori d’ogni maniera di questo separato e puro, che intorno il sopragira e che è da lui cercato sempre e sempre ritrovato parimente, diviso da esso tutto, e tutto in ciascuna sua parte dimorante, divinissimo, intendentissimo, illuminatissimo e esso stesso di se stesso e migliore e maggiore tanto più, quanto egli più si fa alla sua cagione ultima prossimano; nel qual cielo bene ha eziandio tutto quello che ha in questo, ma tanto sono quelle cose di più eccellente stato, che non son queste, quanto tra queste sono le celesti a miglior condizione, che le terrene. Perciò che ha esso la sua terra, come si vede questo avere, che verdeggia, che manda fuori sue piante, che sostiene suoi animali; ha il mare, che per lei si mescola; ha l’aria, che li cigne; ha il fuoco; ha la luna; ha il sole; ha le stelle; ha gli altri cieli. Ma quivi né seccano le erbe, né invecchiano le piante, né muoiono gli animali, né si turba il mare, né s’oscura l’aere, né riarde il fuoco, né sono a continui rivolgimenti i suoi lumi necessitati o i suoi cieli. Non ha quel mondo d’alcun mutamento mestiero, perciò che né state, né verno, né hieri, né dimane, né vicinanza, né lontananza, né ampiezza, né strettezza lo circonscrive, ma del suo stato si contenta, sì come quello che è della somma e per se stessa bastevole felicità pieno; della quale gravido egli partorisce, e il suo parto è questo mondo medesimo che tu miri. Fuori del quale, se per aventura non ci pare che altro possa essere, a noi adivien quello che adiverrebbe ad uno, il quale, ne’ cupi fondi del mare nato e cresciuto, quivi sempre dimorato si fosse, perciò che egli non potrebbe da sé istimare che sopra l’acque v’avesse altre cose, né crederebbe che frondi più belle che alga, o campi più vaghi che di rena, o fiere più gaie che pesci, o abitazioni d’altra maniera che di cavernose pietre, o altre elementa che terra e acqua fossero e vedessersi in alcun luogo. Ma se esso a noi passasse e al nostro cielo, veduto de’ prati e delle selve e de’ colli la dipintissima verdura e la varietà de gli animali, quali per nodrirci e quali per agevolarci nati, veduto le città, le case, i templi che vi sono, le molte arti, la maniera del vivere, la purità dell’aria, la chiarezza del sole, che spargendo la sua luce per lo cielo fa il giorno, e gli splendori della notte, che nella sua oscura ombra e dipinta la rendono e meravigliosa, e le altre così diverse vaghezze del mondo e così infinite, esso s’avedrebbe quanto egli falsamente credea e non vorrebbe per niente alla sua primiera vita ritornare. Così noi miseri, d’intorno a questa bassa e fecciosa palla di terra mandati a vivere, bene miriamo l’aere e gli uccelli che ’l volano con quella maraviglia medesima, con la quale colui farebbe il mare e i pesci che lo natano parimente, e per le bellezze eziandio discorriamo di questi cieli che in parte vediamo; ma che oltre a questi altre cose sieno vie più da dovere a noi essere, che le nostre a quel marino uomo non sarebbono, e maravigliose e care, o in che modo ciò sia, nella nostra povera stimativa non cape. Ma se alcuno Idio vicci portasse, Lavinello, e mostrasseleci, quelle cose solamente vere cose ci parrebbono, e la vita, che ivi si vivesse, vera vita, e tutto ciò che qui è, ombra e imagine di loro essere e non altro; e giù in queste tenebre riguardando da quel sereno, gli altri uomini, che qui fossero, chiameremmo noi miseri e di loro ci prenderebbe pietà, non che noi più a così fatto vivere tornassimo di nostra volontà giamai.