Asolani/Libro terzo/XIX

Libro terzo - Capitolo XIX

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- Dirai adunque a Perottino e Gismondo, figliuolo, che se essi non vogliono essere tra le fiere mandati a vegghiare, quando essi si risveglieranno, essi miglior sogno si procaccino di fare, che quello non è, che essi ora fanno. E tu, Lavinello, credi che non sarai perciò caro alla Reina, che io dico, poscia che tu poco di lei sognandoti, tra questi tuoi vaneggiamenti consumi più tosto senza pro, che tu in alcuna vera utilità di te usi e spenda, il dormire che t’è dato. E infine sappi che buono amore non è il tuo. Il quale, posto che non sia malvagio in ciò, che con le bestievoli voglie non si mescola, sì è egli non buono in questo, che egli ad immortale obbietto non ti tira, ma tienti nel mezzo dell’una e dell’altra qualità di disio, dove il dimorare tuttavia non è sano, con ciò sia cosa che nel pendente delle rive stando, più agevolmente nel fondo si sdrucciola, che alla vetta non si sale. E chi è colui che a’ piaceri d’alcun senso dando fede, per molto che egli si proponga di non inchinare alle ree cose, egli non sia almeno alle volte per inganno preso, considerando che pieno d’inganni è il senso, il quale una medesima cosa quando ci fa parer buona, quando malvagia, quando bella, quando sozza, quando piacevole, quando dispettosa? Senza che come può essere alcun disio buono, che ponga ne’ diletti delle sentimenta quasi nell’acqua il suo fondamento, quando si vede che essi avuti inviliscono, e tormentano non avuti, e tutti sono brevissimi e di fugitivo momento? Né fanno le belle e segnate parole, che da cotali amanti sopra ciò si dicono, che pure così non sia. I qua’ diletti tuttavolta, se il pensiero fa continui, quanto sarebbe men male che noi la mente non avessimo celeste e immortale, che non è, avendola, di terreno pensiero ingombrarla e quasi sepellirla? Ella data non ci fu, perché noi l’andassimo di mortal veleno pascendo, ma di quella salutevole ambrosia, il cui sapore mai non tormenta, mai non invilisce, sempre è piacevole, sempre caro. E questo altramente non si fa, che a quello dio i nostri animi rivolgendo, che ce gli ha dati. Il che farai tu, figliuolo, se me udirai; e penserai che esso tutto questo sacro tempio, che noi mondo chiamiamo, di sé empiendolo, ha fabricato con maraviglioso consiglio ritondo e in se stesso ritornante e di se medesimo bisognoso e ripieno; e cinselo di molti cieli di purissima sustanza sempre in giro moventisi e allo ’ncontro del maggiore tutti gli altri, ad uno de’ quali diede le molte stelle, che da ogni parte lucessero, e a quelli, di cui esso è contenitore, una n’assegnò per ciascuno, e tutte volle che il loro lume da quello splendore pigliassero, che è reggitore de’ loro corsi, facitore del dì e della notte, apportatore del tempo, generatore e moderatore di tutte le nascenti cose. E questi lumi fece che s’andassero per li loro cerchi ravolgendo con certo e ordinato giro, e il loro assegnato camino fornissero e fornito rincominciassero, quale in più brieve tempo e quale in meno. E sotto questi tutti diede al più puro elemento luogo e appresso empié d’aria tutto ciò che è infino a noi. E nel mezzo, sì come nella più infima parte, fermò la terra, quasi aiuola di questo tempio; e d’intorno allei sparse le acque, elemento assai men grave che essa non è, ma vie più grave dell’aria, di cui è poscia il fuoco più leggiero. Quivi diletto ti sarà estimare in che maniera per queste quattro parti le quattro guise della loro qualità si vadano mescolando, e come esse in un tempo e accordanti sieno e discordanti tra loro; mirare gli aspetti della mutabile luna; riguardare alle fatiche del sole; scorgere gli altri giri dell’erranti stelle e di quelle che non sono così erranti e, di tutti le cagioni, le operagioni considerando, portar l’animo per lo cielo e, quasi con la natura parlando, conoscere quanto brieve e poco è quello che noi qui amiamo, quando il più lungo spazio di questa nostra vita mortale due giorni appena non sono d’uno de’ veri anni di questi cieli e quando la minore delle conosciute stelle di quel tanto e così infinito numero è di tutta questa soda e ritonda circunferenza, che terra è detta, maggiore, per cui noi cotanto c’insuperbiamo, della quale ancora quello che noi abitiamo è, a rispetto dell’altro, stretta e menomissima particiuola. Senza che qua ogni cosa v’è debole e inferma: venti, piogge, ghiacci, nevi, freddi, caldi vi sono, e febbri e fianchi e stomachi e gli altri cotanti morbi, i quali nel votamento del buon vaso, male per noi dall’antica Pandora scoperchiato, ci assalirono; dove là ogni cosa v’è sana e stabile e di convenevole perfezion piena, ché né morte v’è né aggiugne, né vecchiezza vi perviene, né difetto alcuno v’ha luogo.