Libro terzo - Capitolo XXI
Ma che ti posso io, Lavinello, qui dire? Tu sei giovane e, non so come, quasi per lo continuo pare che nella giovanezza non appiglino questi pensieri o, se appigliano, sì come pianta in aduggiato terreno essi poco allignano le più volte. Ma se pure nel tuo giovane animo utilmente andassero innanzi, dove tu al fosco lume di due occhi, pieni già di morte, qua giù t’invaghi, che si può istimare che tu a gli splendori di quelle eterne bellezze facessi, così vere, così pure, così gentili? E se la voce d’una lingua, la quale poco avanti non sapea fare altro che piagnere e di qui a poco starà muta sempre, ti suole essere dilettevole e cara, quanto si dee credere che ti sarebbe caro il ragionare e l’armonia che fanno i cori delle divine cose tra loro? E quando, a gli atti d’una semplice donnicciuola, che qui empie il numero dell’altre, ripensando, prendi e ricevi sodisfaccimento, quale sodisfaccimento pensi tu che riceverebbe il tuo animo, se egli da queste caliggini col pensiero levandosi e puro e innocente a quelli candori passando, le grandi opere del Signore, che là su regge, mirasse e rimirasse intentamente e ad esso con casto affetto offeresse i suoi disii? O figliuolo, questo piacere è tanto, quanto comprendere non si può da chi no ’l pruova, e provar non si può, mentre di quest’altri si fa caso. Perciò che con occhi di talpa, sì come i nostri animi sono di queste voglie fasciati, non si può sofferire il sole. Quantunque ancora con purissimo animo compiutamente non vi s’aggiugne. Ma, sì come quando alcuno strano passando dinanzi al palagio d’un re, come che egli no ’l veda, né altramente sappia che egli re sia, pensa fra se stesso quello dovere essere grande uomo che quivi sta, veggendo pieno di sergenti ciò che v’è, e tanto maggiore ancora lo stima, quanto egli vede essere quegli medesimi sergenti più orrevoli e più ornati, così tutto che noi quel gran Signore con veruno occhio non vediamo, pure possiam dire che egli gran Signore dee essere, poscia che ad esso gli elementi tutti e tutti i cieli servono e sono della sua maestà fanti. Per che gran senno faranno i tuoi compagni, se essi questo Prence corteggieranno per lo innanzi, sì come essi fatto hanno le loro donne per lo adietro, e ricordandosi che essi sono in un tempio, ad adorare oggimai si disporranno, ché vaneggiato hanno eglino assai, e, il falso e terrestre e mortale amore spogliandosi, si vestiranno il vero e celeste e immortale: e tu, se ciò farai, altresì. Perciò che ogni bene sta con questo disio e da lui ogni male è lontano. Quivi non sono emulazioni, quivi non sono sospetti, quivi non sono gielosie, con ciò sia cosa che quello che s’ama, per molti che lo amino, non si toglie che altri molti non lo possano amare e insieme goderne, non altramente che se un solo amandolo ne godesse. Perciò che quella infinita deità tutti ci può di sé contentare, e essa tuttavia quella medesima riman sempre. Quivi a niuno si cerca inganno, a niuno si fa ingiuria, a niuno si rompe fede. Nulla fuori del convenevole né si procaccia, né si conciede, né si disidera. E al corpo quello che è bastevole si dà, quasi un’offa a Cerbero, perché non latri, e all’animo quello che più è lui richiesto si mette innanzi. Né ad alcuno s’interdice il cercar di quello che egli ama, né ad alcun si toglie il potere a quel diletto aggiugnere, a cui egli amando s’invia. Né per acqua, né per terra vi si va; né muro, né tetto si sale. Né d’armati fa bisogno, né di scorta, né di messaggiero. Idio è tutto quello, che ciascun vede, che il disidera. Non ire, non scorni, non pentimenti, non mutazioni, non false allegrezze, non vane speranze, non dolori, non paure v’hanno luogo. Né la fortuna v’ha potere, né il caso. Tutto di sicurezza, tutto di contentezza, tutto di tranquillità, tutto di felicità v’è pieno.