Libro secondo - Capitolo VII
Assai era alle intendenti donne piaciuta questa canzone e sopra essa, lodandola, diverse cose parlavano. Ma Gismondo, a cui parea che l’ora fuggisse, sì come quegli che avea assai lungamente a parlare, interrompendole, in questa maniera i suoi ragionamenti riprese: - Amorose giovani, che le mie rime vi piacciano, se così è come voi dite, a me piace egli sopra modo. Ma voi allora le vostre lode mi darete, quando io ad Amore arò date le sue. Perciò che onesta cosa non è che voi prima me di così bella merce paghiate, che io il mio sì poco lavorio vi fornisca. Ora venendo a Perottino, quanto egli falsamente argomenti, che ne’ versi che d’Amor parlano niente altro si legga che dolore, voi vedete. Né pure queste tra le mie rime, che uno sono tra gli amanti, solamente si leggono lodanti e ringrazianti il loro signore, ma molte altre ancora, delle quali io, perciò che ad altre parti ho a venire, né bisogna che lungo tempo in questa sola mi dimori ragionando, secondo che elle mi verranno in bocca, alcuna ne racconterò, per le quali voi meglio il folle errore di Perottino comprenderete. E certo se egli avesse detto che più sono stati di quegli amanti che d’Amor si sono ne’ loro scritti doluti, che quelli non sono stati che lodati di lui si sono, e più ragionevole sarebbe stato il suo parlare, e io per poco gliele arei conceduto; né perciò sarebbe questo buono argomento stato a farci credere che amare senza amaro non si possa, perché non così molti d’Amor si lodassero, quanti veggiamo che si lamentano di lui. Perciò che, lasciamo stare che da natura più labili siamo ciascuno a ramaricarci delle sciagure che a lodarci delle venture, ma diciamo così, che quelli che felicemente amano, tanta dolcezza sentono de’ loro amori, che di quella sola l’animo loro e ogni lor senso compiutamente pascendo e di ciò interissima sodisfazione prendendo, non hanno di prosa, né di verso, né di carte vane e sciocche mestiero. Ma gl’infelici amanti, perciò che non hanno altro cibo di che si pascere né altra via da sfogar le loro fiamme, corrono a gl’inchiostri e quivi fanno quelli cotanti romori che si leggono, simili a questi di Perottino, che egli così caldamente ci ha raccontati. Onde non altramente aviene nella vita de gli amanti che si vegga nel corso de’ fiumi adivenire, i quali dove sono più impediti e da più folta siepe o da sassi maggiori attraversati, più altresì rompendo e più sonanti scendono e più schiumosi; dove non hanno che gl’incontri e da niuna parte il loro camino a sé vietato sentono, riposatamente le loro humide bellezze menando seco, pura e cheta se ne vanno la lor via. Così gli amanti, quanto più nel corso de’ loro disii hanno gl’intoppi e gl’impedimenti maggiori, tanto più in essi rotando col pensiero e lunga schiuma de’ loro sdegni traendo dietro, fanno altresì il suono de’ lor lamenti maggiore; felici e fortunati e in ogni lato godenti de’ loro amori, né da alcuna opposta difficultà nell’andare ad essi ritenuti, spaziosa e tranquilla vita correndo, non usano di farsi sentire. La qual cosa se così è, che è per certo, né potrà fare in maniera Perottino del vero co’ suoi nequitosi argomenti che egli pure vero non sia, potrassi dire che le molte ramaricazioni degli amanti infelici sien quelle che facciano che esser non ne possano ancora de’ felici? E chi dubita che egli non si possa? Che perché in alcuno famoso tempio dipinte si veggano molte navi, quale con l’albero fiacco e rotto e con le vele raviluppate, quale tra molti scogli sospinta o già sopravinta dall’onde arare per perduta, e quale in alcuna piaggia sdruscita, testimonianza donar ciascuna de’ loro tristi e fortunosi casi, non si può per questo dire che altrettante state non sien quelle che possono lieto e felice viaggio avere avuto, quantunque elle, sì come di ciò non bisognevoli, alcuna memoria delle loro prospere e seconde navigazioni lasciata non abbiano.