Asolani/Libro secondo/VI

Libro secondo - Capitolo VI

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Volea a Gismondo ciascuna delle donne rispondere e dire che egli dicesse, ma Lisa, che più vicina gli era, con più tostana risposta fece l’altre tacere così dicendo: - Deh sì, Gismondo, per Dio; e non che egli ci piaccia, ma noi te ne preghiamo: anzi avea io per me già pensato di sollecitartene, se tu non ti proferevi.
- Me non bisogna egli che voi preghiate o sollecitiate, - rispose incontanente Gismondo - perciò che delle mie rime, quali che elle si sieno, solo che a voi giovi d’ascoltarle, a me di sporlevi egli sommamente gioverà. E oltre acciò, se voi vi degnaste per aventura di lodarlemi, dove a Perottino parve che fosse grave, io a molta gloria mi recherei e rimarre’vene sopra il pregio ubrigato.
- Cotesto farem noi volentieri, - rispose madonna Berenice - sì veramente che farai ancora tu che noi così te possiamo lodare come potevam lui.
- Dura condizione m’avete imposta, Madonna, - disse alora Gismondo - e io senza condizione vi parlava, troppo più vagho richieditore delle vostre lode che buono stimatore delle mie forze divenuto. Ma certo, avengane che può, io ne pure farò pruova. E questo detto, piacevolmente incominciò:

Né le dolci aure estive,
Né ’l vago mormorar d’onda marina,
Né tra fiorite rive
Donna passar leggiadra e pellegrina,
Fûr giamai medicina,
Che sanasse pensero infermo e grave,
Ch’io non gli haggia per nulla
Di quel piacer, che dentro mi trastulla
L’anima, di cui tene Amor la chiave:
Sì è dolce e soave.

Pendeano dalla bocca di Gismondo le ascoltanti donne, credendo che più oltre avesse ad andare la sua canzona, e egli tacendosi diede lor segno d’averla fornita. Là onde in questa maniera madonna Berenice a lui rincominciò: - Lieta e vaghetta canzona dicesti, Gismondo, senza fallo alcuno; ma vuoi tu essere per così poca cosa lodato? - Madonna mia, no - rispose egli. - Ben vorrei che mi dicesse Perottino dove sono in questa quelli suoi cotanti dolori, che egli disse che in ogni canzone si leggeano. Ma prima che egli mi risponda, oda quest’altra ancora:

Non si vedrà giamai stanca né sazia
Questa mia penna, Amore,
Di renderti, signore,
Del tuo cotanto onore alcuna grazia.
A cui pensando, volentier si spazia
Per la memoria il core,
E vede ’l tuo valore,
Ond’ei prende vigore e te ringrazia.
 
Amor, da te conosco quel ch’io sono:
Tu primo mi levasti
Da terra e ’n cielo alzasti,
E al mio dir donasti un dolce suono;
E tu colei, di ch’io sempre ragiono,
A gli occhi miei mostrasti,
E dentro al cor mandasti
Pensier leggiadri e casti, altero dono.

Tu sei, la tua mercé, cagion ch’io viva
In dolce foco ardendo,
Dal qual ogni ben prendo,
Di speme il cor pascendo onesta e viva;
E se giamai verrà ch’i’ giunga a riva,
Là ’ve ’l mio volo stendo,
Quanto piacer n’attendo,
Più tosto no ’l comprendo, ch’io lo scriva.

Vita gioiosa e cara
Chi da te non l’impara, Amor, non ave.