Asolani/Libro primo/XXVII

Libro primo - Capitolo XXVII

../XXVI ../XXVIII IncludiIntestazione 31 agosto 2009 75% Saggi

Libro primo - Capitolo XXVII
Libro primo - XXVI Libro primo - XXVIII

Ma passiamo nel dolore, acciò che più tosto si venga a fine di questi mali. Il qual dolore, quantunque abbia le sue radici nel disiderio, sì come hanno le altre due passioni altresì, pure tanto egli più e men crescie, quanto prima i rivi dell’allegrezza l’hanno potuto più o meno largamente inaffiare. Assai sono adunque di quegli amanti i quali, da una torta guatatura delle lor donne o da tre parole proverbiose quasi da tre ferite traffitti, non pensando più oltre quanto elle spesse volte il soglian fare senza sapere il perché, vaghe d’alcuno tormentuzzo de’ loro amanti, si dogliono, si ramaricano, si tormentano senza consolazione alcuna. Altri, perché a pro non può venire de’ suoi disii, pensa di più non vivere. Altri, perché venutovi compiutamente non gode, a questo apparente male v’aggiugne il continuo rancore e fallo veramente esistente e grave. E molti, per morte delle lor donne a capo delle feste loro pervenuti, s’attristano senza fine, e altro già che quelle fredde e pallide imagini, dovunque essi gli occhi e il pensier volgono, non viene loro innanzi. A’ quali tutti il tempo, sì come né ancho il verno le foglie a tutti gli alberi, la doglia non ne leva, anzi, sì come ad alquante piante sopra le vecchie frondi ne crescono ogni primavera di nuove, così ad alquanti di questi amanti duolo sopra duolo s’aumenta e, più che essi dopo le loro amate donne vivono, più vivono tormentati e miseramente di giorno in giorno fanno le loro piaghe più profonde, pure in sul ferro aggravandosi che gl’impiaga. Né mancherà poi chi, per crudeltà della sua donna dalla cima della sua felicità quasi nel profondo d’ogni miseria caduto, a doversi dilungare nel mondo per farla ben lieta si dispone. E questi nel suo essiglio di niuna altra cosa è vago se non di piagnere, niente altro disidera che bene stremamente essere infelice. Questo vuole, di questo si pasce, in questo si consola, a questo esso stesso s’invia. Né sole, né stella, né cielo vede mai che gli sia chiaro. Non erbe, non fonti, non fiori, non corso di mormoranti rivi, non vista di verdeggiante bosco, non aura, non fresco, non ombra veruna gli è soave. Ma solo, chiuso sempre ne’ suoi pensieri, con gli occhi pregni di lagrime, le meno segnate valli o le più riposte selve ricercando, s’ingegna di far brieve la sua vita, talora in qualche trista rima spignendo fuori alcun de’ suoi rinchiusi dolori, con qualche tronco secco d’albero o con alcuna soletaria fiera, come se esse lo ’ntendessero, parlando e agguagliando il suo stato. Ora daratti il cuore, Gismondo, di dimostrarci che cosa buona Amor sia? Che Amore sia buono, Gismondo, daratti l’animo dicci dimostrare?