Libro primo - Capitolo XXV
Voi vedete, o donne, a che porto la seconda fortuna ci conduce. Ma io, quantunque la morte mi fosse più cara, pure vivo, chente che la mia vita si sia. Molti sono stati, che non sono potuti vivere: così viene a gli uomini grave dopo la molta allegrezza il dolore. Ruppe ad Artemisia la fortuna con la morte del marito la felicità de’ suoi amori, per la qual cosa ella visse in pianto tutto il rimanente della sua vita, e alla fine piangendo si morì: il che avenuto non le sarebbe, se ella si fosse mezzanamente ne’ suoi piaceri rallegrata. Abandonata dal vago Enea la dolorosa Elisa se medesima miseramente abandonò uccidendosi, alla qual morte non traboccava, se ella meno seconda fortuna avuta avesse ne’ suoi amorosi disii. Né parve alla misera Niobe per altro sì grave l’orbezza de’ suoi figliuoli, se non perciò che ella a somma felicità l’avergli s’avea recato. Così aviene che, se le misere allegrezze de gli amanti sono di sé sole ben piene, o a morti acerbissime gli conducono o d’eterno dolore gli fanno heredi; se sono di molta noia fregiate, elle senza dubbio alcuno e, mentre durano, gli tormentano e, partendo, niente altro lasciano loro in mano che il pentimento; perciò che di tutte quelle cose che a far prendiamo, quando ci vanno con nostro danno fallite, la penitenza è fine. O amara dolcezza, o venenata medicina de gli amanti non sani, o allegrezza dolorosa, la qual di te nessun più dolce frutto lasci a’ tuoi possessori che il pentirsi; o vaghezza che, come fumo lieve, non prima sei veduta che sparisci, né altro di te rimane ne gli occhi nostri che il piagnere; o ali che bene in alto ci levate perché, strutta dal sole la vostra cera, noi con gli omeri nudi rimanendo, quasi novelli Icari, cadiamo nel mare. Cotali sono i piaceri, donne, i quali amando si sentono. Veggiamo ora quali sono le paure.