Archimede (Favaro)/VI
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Sotto il paterno e sapiente regime di Gerone aveva Siracusa raggiunto un grado altissimo di floridezza: quel saggio re, mentre curava da una parte le arti della pace, non trascurava però di munire la sua capitale in modo che potesse resistere agli attacchi, molti dei quali aveva già provato, per modo che la città, oltre ad essere una tra le più ragguardevoli del tempo, e rivaleggiasse con Alessandria per lo splendore degli edifizi pubblici e privati, era pure una fortezza formidabile. Ed è sommamente verosimile che attesa la stima sconfinata del re per Archimede, si sia valso dell’opera di lui nell’ideare e nell’eseguire queste opere di fortificazione le quali garantivano la città dal lato di terra come da quello del mare.
La Pentapoli, come la chiama Strabone, aveva un ambito di 180 stadii, vale a dire di più che trenta chilometri, e componevasi di cinque parti, cinta ciascuna da forti mura e di bastioni: la più antica, l’Ortigia, chiamata impropriamente dal popolo col nome di isola, a mezzogiorno, l’Acradina a levante, Tiche e Neapoli a ponente, e più alto nella parte estrema l’Epipoli coronata dal castello di Eurialo sulle colline di dove si godeva il magnifico spettacolo del promontorio Pachino, dei fertili campi di Ibla e delle cime nevose dell’Etna. Aveva all’intorno tre porti: il Trogilo sulla costa boreale dell’Acradina, il piccolo porto chiuso tra l’Acradina e l’Ortigia, e a mezzogiorno il gran porto nel quale la cosiddetta isola prestava sicuro asilo alle navi di maggior portata.
Tutte le parti della gran città erano cinte dalle alte mura contro le quali s’erano già infranti gli sforzi di Atene e di Cartagine: forte come cittadella era l’Ortigia, forte l’Acradina dalla parte del mare, forte l’Epipoli, ove le mura giungendo fino alle alture terminavano in un angolo formato dai fianchi convergenti del colle.
Queste valide opere di difesa, perfezionate dalle assidue cure del re Gerone, dovevano ben presto essere cimentate a dure prove, poichè mentre all’ombra della pace fioriva il regno Siracusano, scoppiò la seconda guerra punica, ed il vecchio e saggio sovrano dopo ben cinquantaquattro anni di regno veniva a mancare quando maggiormente sarebbe stato necessario che le redini del governo fossero nelle savie sue mani. Il figlio Gelone gli era premorto, sicchè a raccogliere la sua successione fu chiamato il figlio di questo, Ieronimo, giovinetto quindicenne che appena salito sul trono e liberatosi dal consiglio di tutela, di null’altro curante che del fasto, ruppe il freno ad ogni scostumatezza e crudeltà. Falsando la tradizione politica dell’avo, che s’era mantenuto costantemente fedele a Roma, cedette alle lusinghe d’Annibale che gli aveva fatto balenare innanzi gli occhi lo scettro di tutta la Sicilia, e quando una legazione romana tentò di rinnovare con lui l’antica alleanza, la congedò bruscamente, alludendo con ironia alla rotta di Canne.
Riusciti vani altri tentativi di Roma per riannodare le antiche amichevoli relazioni, la guerra fu dichiarata: senonchè muovendo egli stesso col grosso dell’esercito che aveva raggranellato, cadde a Leontini per mano d’una delle sue guardie del corpo che una congiura orditasi contro di lui aveva prezzolato.
Ucciso il tiranno e spenta nel sangue tutta la famiglia reale fino alle donne ed alle bambine, fu proclamata la repubblica. Non erano tuttavia per questo cessate le lotte dei partiti, che anzi s’erano fatte più vive partecipandovi i popolari, ma finalmente prevalse la fazione favorevole ad Annibale ed all’alleanza coi Cartaginesi che inviarono una flotta al Pachino.
Roma, perduta ogni speranza d’aver dalla sua i Siracusani, mandò con forte esercito il console Marcello che, presa e messa a ferro e fuoco la città di Leontini, mosse con tutte le forze delle quali disponeva all’assalto di Siracusa. Mandate le legioni sotto gli ordini di Appio Claudio ad attaccare per via di terra dalla parte dell’Esapilo, si diresse egli contro l’Acradina con ben sessanta quinquiremi cariche d’ogni sorta di armi e di saettame e con macchine di varie foggie che gettassero sulle mura ordigni e scale per far la via ai soldati: ricordano gli storici in particolar modo l’accoppiamento di otto navi che saldate insieme mediante robuste traverse portavano delle scale protette da balaustre e da tetti, e, dalla forma di arpa con la quale erano disposte le navi, le traverse e le scale, dette sambuche, con l’aiuto delle quali si credeva il capitano d’aver presto ragione della piazza, facendo guadagnare dagli assalitori le mura che i frombolieri e saettatori imbarcati sulle altre navi avrebbero provveduto a tener sgombre di difensori.
Ma alla difesa della sua Siracusa aveva pensato Archimede, il quale, mantenutosi sempre estraneo alle lotte dei partiti che l’avevano tratta a quegli estremi, nel momento del supremo pericolo venne in soccorso dei suoi concittadini con tutte le industrie del suo genio inesauribile.
I particolari di questa memorabile difesa sono narrati da Polibio, da Plutarco e da Tito Livio: da essi apprendiamo che per poter offendere il nemico che investiva la città per via di terra, senza pericolo per parte dei difensori, Archimede aveva fatto praticare nelle mura frequenti feritoie, delle quali pare che nessuno prima di lui avesse pensato ad usare, e di là e di sopra le mura con baliste e catapulte mascherate faceva rovinare così gran numero di pietre di saette e con così forte e spaventoso rombo che chi non rimaneva ucciso e gravemente ferito abbandonava l’assalto in preda alla massima paura. Contro le navi lontane faceva pure lanciare massi e giavellotti ben pesanti, e quando giungevano ad accostarsi, stendevansi tutto ad un tratto contro di esse fuor dalle mura lunghe travi, le quali parte ne facevano andare a fondo per la violenza con cui le percuotevano dall’alto, e parte afferravano con rostri ed uncini di ferro dalla prora, levavano in aria e fracassavano contro gli scogli. Contro la sambuca poi, mentre era ancora distante dalle mura, lanciavansi così gran sassi e perfino, come vien riferito, macine da mulini che completamente la schiacciavano insieme coi soldati che dovevano da essa muovere alla scalata ed all’assalto.
Altre invenzioni di macchine belliche dovute ad Archimede, quale l’architronito, cioè una specie di cannone a vapore, ed un apparecchio specialmente adatto ai combattimenti navali descrive Leonardo da Vinci, ma ignoriamo affatto le fonti alle quali egli attinse, mentre nè egli stesso nè altri dissero che tali strumenti di guerra siano stati usati nella difesa di Siracusa.
E qui, aprendo una parentesi, siamo condotti a tener parola di quell’altro apparecchio scientifico che, secondo ci vien riferito da troppo tardi narratori, Archimede avrebbe volto a danno dei romani, vogliamo dire degli specchi con i quali avrebbe bruciate le navi di Marcello. Nessuno degli storici summenzionati, cioè nè Polibio, nè Plutarco, nè Tito Livio ne tengono parola; e di quelli che lo affermano, Galeno ne scrive come di cosa udita narrare, Zonara, vissuto tanto più tardi lo riferisce appoggiandosi ad un passo irreperibile di Dione, e l’ancor più tardo Tzetze, in un luogo che al Torelli non parve ben chiaro, precisa che lo scopo era stato da Archimede raggiunto mediante uno specchio esagonale; ma non è certamente sull’autorità tanto discussa di questo scrittore che potrebbe conchiudersi alcunchè di positivo a tale proposito.
Gli specchi ustorii di Archimede, e quelli altrettanto celebri di Proclo e di Antemio attirarono siffattamente l’attenzione degli studiosi al tempo del Rinascimento, da indurli ad applicarsi con grande fervore agli studii di catottrica e ad immergersi in tutto ciò che intorno a questo argomento avevano tramandato i greci e gli arabi. Sul finire del secolo decimosesto questi studii vanno assumendo un carattere più positivo, e nel decimosettimo se ne occuparono Galileo ed i più cospicui fra i suoi discepoli e la stessa Accademia del Cimento, senza però pervenire a risultati i quali permettano di asserire con qualche verisimiglianza che Archimede abbia potuto costruirne di tale potenza da raggiungere quell’effetto che Cartesio negò in modo assoluto e che nemmeno la famosa esperienza del Buffon vale a rendere credibile. Verisimile è invece che, riferendosi da un lato avere Archimede scritto fra altro anche sugli specchi ustorii od almeno di catottrica, e dall’altro che, come narra Silio Italico, alcune navi dei romani assedianti Siracusa erano state incendiate, siansi abbinati i due fatti, concorrendo a formare una tradizione la quale non ha storico fondamento.
Ma ritorniamo alla nostra narrazione.
Giudicando Marcello che apparecchi di così grande potenza come erano adoperati dai Siracusani non avrebbero potuto danneggiare le navi altro che ad una certa distanza, dispose per un attacco notturno nella speranza che, cacciandosi sotto, potessero gli assalitori, col favor della notte, aver ragione dei nemici senza venir da questi offesi ed impediti, ma il tentativo non ebbe miglior fortuna, chè dal genio di Archimede uscivano sempre nuovi ingegni che da vicino o da lontano proteggevano le mura ed i loro difensori recando al nemico il massimo danno; e tanto, scrive Plutarco, ne erano spaventati i Romani, che «alla vista d’una sottil corda o di una piccola trave che sporgesse dal muro, volgean le spalle e fuggivano gridando essere ivi una qualche macchina mossa a lor danno da Archimede»1. Sicchè, dopo tentativi ripetuti durante ben otto mesi, confessando la propria impotenza di fronte al grande Siracusano, ch’egli chiamava «geometra Briareo», si ritrasse Marcello contentandosi di stringere d’assedio la città alla lontana con la speranza di prenderla per fame. Sovvenuti però com’erano dai Cartaginesi, non difettavano i Siracusani di vettovaglie e la resistenza si prolungava ed ormai durava da oltre due anni, essendo andata a vuoto una congiura di alcuni fuorusciti che si trovavano al campo di Marcello per dargli nelle mani la città.
Nella occasione tuttavia di trattative per riscattare certo spartano che gli assediati avevano inviato in cerca di aiuti, e ch’era stato preso dai Romani, poterono questi, accostandosi maggiormente alla città, osservare certa torre in vicinanza al porto di Trogilo che si prestava ad una facile scalata, e, approfittando di una notte nella quale i Siracusani si erano abbandonati al vino ed al sonno dopo celebrate le feste di Diana, Marcello fece salire i suoi sulla torre e da quella parte penetrò nell’Epipoli, facendo in pari tempo dar di fiato alle trombe da ogni parte per lasciar credere che ormai fosse tutta la città nelle sue mani.
Côlti i Siracusani dallo spavento, si diedero alla fuga, lasciando indifesa anche la rocca dell’Acradina ch’era la meglio munita e che avrebbe potuto ancora lungamente resistere; e così sul far del giorno Marcello fu padrone di Siracusa, che «macchiando il suo onor militare, abbandonò al saccheggio ed alla carneficina». Questo avveniva nel terzo anno dell’assedio, correndo l’anno di Roma 545 ed il 212 avanti l’êra cristiana.
Tra gli orrori della strage perì anche Archimede, ed il modo della morte viene diversamente narrato. Vuolsi da Plutarco che il console romano, ammirato della lunga ed ostinata difesa, opera più che d’altri del genio di Archimede, entrando trionfante in Siracusa, avesse ordinato ch’egli avesse salva la vita, ed anzi fosse a lui condotto, ma il legionario che l’invitava a seguirlo, non essendo stato da lui istantaneamente obbedito, perchè Archimede non voleva muoversi finchè non avesse compiuta certa dimostrazione alla quale, non curante dei Romani e dell’eccidio, stava attendendo, infuriato l’uccise. Narra Cicerone che allorquando Siracusa fu presa, fosse Archimede tanto intento a disegnare nella polvere, che neppur s’avvedesse che i nemici vi fosser dentro, onde, secondo Livio, da un soldato il quale non sapeva chi egli fosse, fu trapassato con la spada. E così Silio Italico:
«Meditantem in pulvere formas,
«Nec turbatum animi, tanta feriente ruina,
«Ignarus miles vulgi tum forte peremit».
A ciò Valerio Massimo aggiunge che, mentre Archimede delineava sul terreno una sua figura geometrica, venisse dal soldato con la spada alla mano interrogato chi fosse, ma che egli all’incontro lo pregasse a trattenersi, e a non voler guastar quelle linee che stava tracciando, e perciò il soldato acceso d’ira, lo uccidesse; anzi Giorgio Valla, sulla relazione di qualche antico scrittore, riferisce che Archimede rispondesse al soldato che lo minacciava: «il capo e non il disegno». Altri finalmente, sempre secondo Plutarco, vogliono che, informato della presa della città, Archimede si fosse avviato per portare a Marcello alcuni suoi ordigni e strumenti matematici, fors’anco per fargliene dono e placarlo, quando, incontrato da alcuni soldati, questi, per impadronirsi degli oggetti che credevano d’oro, lo trucidarono.
Concordano tutti gli scrittori nell’affermare che della morte di Archimede provasse Marcello grandissimo dolore, che facesse anzi cercare i di lui parenti sopravvissuti alla strage e assai li onorasse, e finalmente ordinasse che, data onorevole sepoltura alla salma del suo grande avversario, fossegli eretto un monumento, sul quale conforme al desiderio che si diceva avesse espresso egli medesimo, venisse rappresentata con una figura accompagnata da una inscrizione la scoperta geometrica della quale egli maggiormente si gloriava, cioè, per ripetere le parole stesse di Plutarco: «un cilindro contenente una sfera, scrivendovi la proporzione che passa tra il solido contenente e quel contenuto».
A lui, caduto con la sua città, fu risparmiato il supremo dolore di vedere lo scempio fatto della cara patria dai barbari e crudeli vincitori: tutto fu o predato o dato alle fiamme, e per riferire la frase caratteristica d’uno storico, gli stessi Dei coi loro simulacri furono tratti in schiavitù, quella meravigliosa sfera portata a Roma come bottino di guerra; e se si deve prestar fede ad uno scrittore arabo, ben quattordici carichi di manoscritti di Archimede sarebbero stati distrutti.
Come la coltura etrusca era perita dopo la conquista romana, così nel duro servaggio si spense in Sicilia ogni traccia dell’antica civiltà ellenica, e poco più d’un secolo dopo la morte di Archimede, i Siracusani, ahimè quanto degeneri da quei loro antenati che nella rotta degli Ateniesi volevano salva la vita ai fuggiaschi che sapessero recitare i versi di Euripide, ignoravano perfino dove ne fosse la tomba, e forse appena appena ricordavano il nome del sommo loro concittadino.
Cicerone racconta infatti nelle Tusculane che al tempo in cui era questore in Sicilia, la curiosità lo spinse a cercare la tomba di Archimede, e la scovò sotto gli sterpi ed i pruni da cui era quasi interamente nascosta, e malgrado l’ignoranza dei Siracusani i quali sostenevano contro di lui che la ricerca sarebbe stata vana, non esistendo presso loro tal monumento. Egli ricordava tuttavia a memoria alcuni senarii che gli era stato detto doversi trovare incisi sulla tomba, e ne’ quali era menzione di una figura sferica e d’un cilindro che vi erano rappresentati, e trovandosi un giorno fuor della porta di Siracusa verso Agrigento e volgendo con cura lo sguardo da ogni parte, vide tra un gran numero di tombe una colonna che sopravvanzava dai rovi che la circondavano e vi notò la figura appunto d’una sfera e d’un cilindro: rivoltosi allora ai maggiorenti della città che erano con lui, disse loro che credeva di vedere la tomba di Archimede, e fatto sgombrare il sito con le falci e aperto il passaggio, riconobbe subito la inscrizione, sebbene metà delle linee fosse stata dal tempo corrosa.
Ma nemmeno questa scoperta valse a raccomandare ai Siracusani la memoria della tomba di Archimede, il cui nome più sicuramente che da poche pietre è tramandato alla più tarda posterità dall’imperituro monumento ch’egli eresse a sè medesimo con le sue opere immortali.