Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/19

Anno 19

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Anno di Cristo xix. Indizione vii.
Tiberio imperadore 6.


Consoli


Marco Giunio Silano e Lucio Norbano Balbo


Fece in quest’anno Germanico Cesare un viaggio in Egitto1, per curiosità di veder quelle rinomate antichità, e si portò sino ai confini della Nubia, informandosi di tutto. Per cattivarsi que’ popoli abbassò il prezzo de’ grani, e in pubblico nella città d’Alessandria andò vestito alla greca, perchè quivi predominava quella nazione e la loro lingua2. Tiberio, risaputolo, disapprovò la mutazion dell’abito, e più l’essere entrato in Alessandria, afflitta allora dalla carestia, senza sua licenza. Tornossene dipoi in Soria,[p. 58] dove trovò che tutto quanto egli avea ordinato per l’armata e per le città, era stato disfatto da Pisone. Pertanto divampando forte la loro discordia, prese Pisone la risoluzione d’andarsene lungi dalla Soria; ma sopravvenuta una malattia a Germanico già pervenuto ad Antiochia, si fermò, finchè parve che il di lui male prendesse ottima piega; ed allora si ritirò a Seleucia. Ma l’infermità di Germanico andò poscia crescendo. Sparsesi voce, che per malie d’esso Pisone e di Plancina sua moglie l’infelice principe venisse condotto a poco a poco alla morte; e a tal voce si prestò fede, per essersi trovati vari creduti maleficii. In somma se ne morì Germanico nell’età di trentaquattr’anni, lasciando in una grande incertezza, se la morte sua fosse naturale, oppure a lui procurata da Pisone e da Plancina sua moglie; o per segreti ordini di Tiberio. Universalmente fu creduto quest’ultimo. Non si può esprimere il dolore, non solo del popolo romano e delle provincie tutte del romano impero, ma degli stessi re dell’Asia per la perdita di questo generoso principe. Era egli ornato delle più belle doti di corpo e d’animo, valoroso coi nemici3, clementissimo coi sudditi. Posto in tanta dignità, e con tanta autorità, pure mai non insuperbì, trattando tutti con onorevolezza, e vivendo più da privato che da principe. Già vedemmo, ch’egli ricusò l’imperio, per non mancar di fede e di onor a Tiberio. Non mai fu veduto abusarsi della sua podestà, non mai si lasciò torcere dalla fortuna ad azioni sconvenevoli a personaggio virtuoso. Quel ch’è più, con tutti i torti a lui fatti da Tiberio, suo zio paterno, e padre per adozione, e con tutto il suo ben conosciuto mal talento, non mai si lasciò uscir parola di bocca, per riprovar le azioni di lui. Perciò era amatissimo da tutti, fuorchè dallo stesso Tiberio, anzi maggiormente amato, appunto perchè il conoscevano odiato da esso suo zio. Mirabil cosa fu l’osservare, come lo stesso Druso, [p. 59|60 modifica]figliuolo natural di Tiberio, ancorchè Germanico potesse ostargli alla succession dell’imperio, pure l’amasse sempre con sincero amore e come vero fratello. Gran perdita fece Roma in Germanico, ma specialmente perchè Tiberio sciolto dal timore di lui, cominciò ad imperversare, con giugnere in fine a costumi crudeli e tirannici. Restarono di Germanico tre figliuoli maschi, cioè Nerone, Druso, e Cajo Caligola, e tre figlie, cioè Agrippina, che poi fu madre di Nerone augusto, Drusilla e Livilla. Agrippina lor madre, figliuola di Agrippa, e di Giulia nata da Augusto, donna, che ben diversa dalla madre, s’era già fatta conoscere per ispecchio di castità, ed avea dati segni di un viril coraggio, molto più ora abbisognò della sua costanza, rimasta senza il generoso consorte, con dei figliuoli piccioli, e odiata da Livia e forse poco men da Tiberio. Fu consigliata da molti di non tornarsene a Roma: differente ben era il desiderio suo, perchè ardeva di voglia di cercar vendetta di Pisone e di Plancina, tenuti per autori delle sue disavventure. Però sul fine dell’anno colle ceneri del marito e co’ figliuoli spiegò le vele alla volta di Roma.

In luogo di Pisone era stato costituito progovernatore della Siria Gneo Sentio Saturnino; ma Pisone, udita la morte di Germanico, dopo averne fatta gran festa, si mise in viaggio con molti legni, e buona copia di milizie, risoluto di ricuperare il suo governo, e di adoperare, occorrendo, anche la forza. Si impadronì d’un castello; ma avendolo Saturnino quivi assediato con forze maggiori, gli convenne cedere, ed intanto fu chiamato a Roma. L’andata di Druso Cesare in Germania, secondo le apparenze, fu per pacificare i torbidi insorti fra Arminio e Maroboduo. Altri documenti avendo ricevuto dall’astuto suo padre, fece tutto il contrario, aggiungendo destramente olio a quell’incendio, acciocchè i nemici si consumassero da sè stessi. Abbandonato poi Maroboduo da’ suoi, ricorse a Tiberio, che gli assegnò[p. 60]per abitazione Ravenna, dove aspettando sempre qualche rivoluzione nella Svevia, senza mai vederla, dopo diciotto anni, assai vecchio, compiè la carriera de’ suoi giorni. Fin qui Arminio in Germania avea bravamente difesa la libertà della sua patria contro ai Romani; ma avendola poi voluta egli stesso opprimere, fu in quest’anno ucciso dai suoi, in età di soli trentasette anni di vita. Per un decreto d’Augusto era già stato proibito in Roma l’esercizio della religione egiziana con tutte le sue cerimonie; ma seppe essa mantenersi quivi ad onta della legge sino al presente anno. Un’iniquità commessa da que’ falsi sacerdoti, collo ingannare Paolina, savia e nobilissima dama romana, e darla per danari in preda a Decio Mondo, giovane perduto dietro a lei, con farle credere che di lei fosse innamorato il falso dio Anubi, siccome diffusamente narra Giuseppe storico4, diede ansa al senato di esiliar dall’Italia il culto d’Iside, di Osiride e degli altri dii d’Egitto5. Comandò inoltre Tiberio, che si atterrasse il tempio d’Iside, e si gittasse nel Tevere la sua statua. La medesima disavventura toccò ai Giudei6, che in gran numero abitavano allora in Roma, a cagion di una baratteria usata da alcuni impostori di quella nazione a Fulvia, nobile dama romana, che avea abbracciata la lor religione; avendo essi convertito in uso proprio l’oro e le vesti ricche, dalla medesima inviate a Gerusalemme, affinchè servissero in onore del tempio. Scelsero i consoli quattromila giovani di essi Giudei di razza libertina, e per forza arrolati li mandarono in Sardegna a far guerra ai ladri ed assassini di quell’isola, senza mettersi in pensiero, se quivi avessero da perire per l’aria che in quei tempi veniva creduta maligna e mortifera. Il rimanente de’ Giudei fu cacciato di Roma, e disperso in varie provincie. Vonone, già [p. 61|62 modifica]re de’ Parti, volendo in questi tempi fuggir dalla Cilicia, preso da Vibio Frontone, si trovò poi da un soldato privato di vita. Per mettere freno all’impudicizia delle matrone romane7, che ogni dì più andava crescendo in Roma, città piena di lusso e di gente, a cui poca paura faceano i falsi dii del Paganesimo, fu con pubblico editto imposta la pena dell’esilio alle figliuole, nipoti e vedove de’ cavalieri Romani che cadessero in questo delitto.

Note

  1. Tacitus, Ann. lib. 1, c. 59.
  2. Sueton. in Tiber., c. 52.
  3. Dio., in Excerptis, et lib. 57.
  4. Joseph. Antiq., lib. 18, cap. 4.
  5. Tacit. lib. 2, cap. 85.
  6. Sueton. in Tiber., cap. 36.
  7. Sueton. in Tiber., cap. 35.