Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/185
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Anno di | Cristo CLXXXV. Indizione VIII. ELEUTERIO papa 15. COMMODO imperadore 6. |
MARCO CORNELIO NEGRINO CURIAZIO MATERNO e MARCO ATTILIO BRADUA.
Il Relando1451 non mette se non i cognomi di Materno e Bradua. Al Panvinio1452, seguitato dal padre Pagi1453, parve il primo Triario Materno, solamente perchè sotto Pertinace si trovava un senatore di tal nome: pruova troppo fievole. Gli ho io dato que’ nomi, mosso da un’iscrizione da me pubblicata nella mia raccolta1454. Il nome dell’altro console Bradua si raccoglie da un’iscrizione dello Smirne, che pur ivi si legge. Trovandosene un’altra posta MATERNO ET ATTICO COS., potrebbe essere che questo Attico fosse stato sostituito a Bradua. Sino all’anno presente arrivò la vita di santo Eleuterio romano pontefice, secondo la cronica di Damaso1455. Nel martirologio egli porta il titolo di Martire; ma non è certo ch’egli desse il capo per la confessione della religion di Cristo. Saggiamente osservò il cardinal Baronio1456, che ne’ primi secoli il nome di Martire fu conferito a coloro eziandio che sofferirono vessazioni o tormenti per la fede di Cristo, benchè non morissero ne’ tormenti. San Cipriano non ce ne lascia dubitare. Al che si dee avere riguardo anche per altri primi romani pontefici, tutti ornati di sì glorioso titolo, senza che resti più precisa memoria della lor morte nel martirio. Per questa cagione alcuni d’essi da santo Ireneo, celebre vescovo di Lione, che fiorì in questi tempi, sono considerati solamente come Confessori. A santo Eleuterio fu sostituito Vittore nella cattedra di san Pietro, i cui anni cominceremo a contare nell’anno seguente, seguendo la cronologia del padre Pagi e del Bianchini. A me sia lecito di riferire a quest’anno altri sconcerti della corte di Commodo e della nobiltà romana. Gran riputazione e potenza godeva in quella corte Antero, infame suo liberto1457. Era costui stato alzato al grado di mastro di camera da Commodo, a cui nello stesso tempo serviva per ministro nelle disonestà. L’odio universale contra di questo cattivo strumento cresceva ogni dì più, e andava poi a terminare contra dello stesso Commodo, il quale spasimava per lui. Sofferì un pezzo Tarrutino o sia Tarrutenio Paterno, prefetto del pretorio, costui; ma finalmente un dì rotta la pazienza, fattolo con galanteria uscir di palazzo col pretesto d’un sagrificio, nel tornare che egli faceva a casa, il fece assassinare ed uccidere da alquanti sgherri. Diede nelle smanie Commodo per questo, e ne fu più cruccioso di quel che fosse stato nel pericolo della vita ch’egli avea corso per l’assalto di Quinziano. Avuto sufficiente sentore che Paterno era stato autore del colpo, col consiglio di Tigidio, e fors’anche di Perenne, il quale prese questa congiuntura per tagliar le gambe al compagno, il creò senatore, levandolo in tal guisa dal pretorio, sotto specie di promuoverlo a grado più cospicuo. Ma non andò molto che fece accusare Paterno di una congiura, apponendogli d’aver promessa sua figliuola a Salvio Giuliano, nipote di Giuliano celebre giurisconsulto, per farne poscia un imperadore1458. Se avessero avuto questo disegno Paterno e Giuliano, nulla mancava loro per eseguirlo, comandando il primo alle guardie e l’altro a qualche migliaio di soldati. Perciò amendue perderono la vita, e con esso loro Vitruvio Secondo, segretario delle lettere dell’imperadore, perchè era confidentissimo di Paterno. Nella stessa disgrazia rimasero involti Velio o sia Vettio Rufo ed Egnazio Capitone, stati consoli amendue. Emilio Junto ed Atilio Severo, consoli sostituiti (se pure in quest’anno succedette la morte di Antero), furono mandati in esilio. Anche Quintilio Massimo e Quintilio Condiano, già stato console, due de’ più riguardevoli personaggi che si avesse il senato, amatissimi per la lor singolare saviezza da Marco Aurelio, e adoperati nei primi posti militari e civili, furono in tal occasione tolti dal mondo, e finì la lor casa. Narra Dione che fu condannato anche Sesto Quintilio figliuolo di Massimo. Precorsa a lui questa nuova, mentre era in Soria, fece finta di cader da cavallo, e d’essere morto, e da’ suoi famigliari invece fu portato alla sepoltura un montone. Andò egli dipoi, mutando sempre abito, vagabondo per vari paesi, nè più si seppe nuova di lui, e ciò fu la rovina di molti, perchè essendo ricercato dappertutto, le teste di non pochi innocenti furono portate a Roma, pretese quella di Sesto, e rimasero altri spogliati di beni col pretesto che gli avessero dato ricovero. Mancato poi di vita Commodo, comparve persona a Roma che sosteneva d’essere Sesto, e rispondeva a proposito a tutti gli esami. Pertinace scoprì la furberia, facendogli delle interrogazioni in greco, lingua ch’egli sapeva essere già ben intesa da Sesto; e qui s’imbrogliò l’impostore, perchè non capiva le interrogazioni. V’era presente Dione. Didio Giuliano, che fu poi imperadore, corse anch’egli pericolo della vita, per l’accusa datagli d’aver tenuta mano alla congiura con Salvio Giuliano. Commodo il fece assolvere, e condannar l’accusatore1459. Dopo la caduta di Paterno, restò prefetto del pretorio il solo Perenne1460, con divenir padrone totale della corte. Seppe egli persuadere a Commodo, giovane timidissimo, che non si fidasse d’alcuno, e se ne stesse in ritiro, attendendo ai piaceri mentre egli assumerebbe in sè le cure spinose del governo. Così fu fatto. Commodo rade volte da lì innanzi si lasciò vedere in pubblico, e chiuso come in un turchesco serraglio, s’immerse affatto nel baratro della lussuria con trecento concubine, scelte parte dalla nobiltà, parte dai postriboli, e con altra non minor turba anche più infame. I conviti e i bagni erano una continua scuola di intemperanza e di disonestà; faceva egli ancora de’ combattimenti in abito da gladiatore, co’ suoi camerieri, e talvolta ancora con ispada nuda, uccidendo alcun d’essi armati solamente di spade colla punta impiombata. E intanto Perenne aggirava tutti gli affari, uccidendo quei che voleva, altri assaissimi spogliando dei loro beni non solo in Roma, ma anche per le provincie, conculcando tutte leggi, ed ammassando senza ritegno alcuno tesori immensi. In questo misero stato si trovava allora l’augusta città per la balordaggine e sfrenatezza del suo regnante.