Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/146

Anno 146

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[p. 499 modifica] [p. 501 modifica]mutare, se non in meglio, i costumi, perchè mai non gli andò il fumo alla testa. Vivuto da privato con gran moderazione, saviezza ed affabilità1, maggiormente continuò ad esser tale divenuto Augusto, con ritener lo stesso abborrimento al fasto e alla matta superbia, e con istudiare, tanto superiore come era, di farsi eguale agli altri nobili cittadini: il che, invece di sminuire, accresceva negli altri la stima e l’amore della maestà imperiale. Si faceva egli servire da’ suoi schiavi, come usavano anche i privati; andava alle case degli amici; famigliarmente passeggiava con loro, come se non fosse imperadore; e voleva che cadauno di essi godesse la sua libertà, senza formalizzarsi, se invitati non venivano alla cena, se, andando egli in viaggio, non l’accompagnavano. Costantissimo fu il suo rispetto verso il senato, e trattava coi senatori in quella stessa guisa e colla medesima bontà ch’egli, allorchè era senatore, desiderava d’essere trattato dagli imperatori. Ritenne sempre il costume di render conto di tutto quel che faceva al senato ed anche al popolo, allorchè avea da pubblicar degli editti. E qualor voleva il consolato, o qualche altra carica per sè o per gli figliuoli, la domandava al senato al pari degli altri particolari. Scrive lo stesso Marco Aurelio, suo figliuolo adottivo, d’aver fra l’altre avuta a lui l’obbligazione d’essere spogliato della vanità, appunto dappoichè fu adottato e alzato da lui; perchè Antonino gli andava insinuando, che si potea vivere anche in corte quasi come persona privata: cosa appunto praticata da lui, con altre virtù commemorate da Marco Aurelio.

Grave nell’aspetto, nel medesimo tempo era cortese, gioviale e dolce verso tutti, infin verso i cattivi, ai quali levava il poter più nuocere, ma senza punirli quasi mai col rigor delle leggi. Quanto egli fosse mansueto, tollerante delle ingiurie, e nemico del vendicarsi, già si è accennato di sopra. Serviranno nondimeno[p. 502] alcuni avvenimenti a maggiormente comprovarlo. In concetto di uno dei più famosi sofisti greci2 fu in questi tempi Polemone. La più bella casa che fosse nella città di Smirne era la sua. Si era abbattuto a passar di là Antonino, mentre esercitava la carica di proconsole dell’Asia, e vi andò ad alloggiare. Polemone, che si trovava fuor di città, venuto una notte, ed osservando in sua casa tanta foresteria entratavi senza licenza sua, ne fece tal rumore e tanti lamenti, che il buon Antonino di mezza notte stimò meglio di uscirne, e di cercarsi un altro albergo. Creato ch’egli fu poi imperadore, Polemone venne a Roma, ed ebbe tanto animo di andargli a fare riverenza. Antonino l’accolse colla solita sua cortesia senza che gli turbasse l’animo la memoria del passato, e solamente con galante maniera gli ricordò la sua scortesia, con ordinare che gli fosse data una stanza nel palazzo, e che persona nol facesse sloggiare. Accadde ancora che un commediante andò a lamentarsi ad Antonino, e a chiedere giustizia, perchè il suddetto Polemone l’avea cacciato dal teatro nel bel mezzodì: E me, rispose allora l’imperadore, egli ha cacciato fuor di casa in tempo di mezza notte, e non ne ho fatta querela. Bisogna ben credere che l’alterigia e l’albagia fossero il quinto elemento della maggior parte di que’ decantati sofisti greci di allora. Antonino, a cui premeva forte la buona educazion di Marco Aurelio suo figliuolo adottivo fece venir dalla Grecia Apollonio, non già il Tianeo, ma bensì un filosofo stoico3, ch’era in gran riputazion di sapere allora. Venne costui a Roma, menando seco molti dei suoi discepoli, che graziosamente, per attestato di Luciano4, furono chiamati da Demonatte filosofo cinico Argonauti nuovi, perchè tutti in viaggio menati dalla speranza di divenir tutti ricconi [p. 503 modifica]in Roma. Mandò a dirgli Antonino che venisse al palazzo, per consegnargli il figliuolo; e l’orgoglioso sofista altra risposta non diede, se non che toccava al discepolo di andar a trovare il maestro, e non già al maestro di andare al discepolo. In somma l’essere dotto e prudente non è lo stesso: e pur troppo il sapere suol mandare de’ fumi alla testa. Si mise a ridere Antonino, e disse: Mirate che bel capriccio! A costui non è incresciuto di venir sì da lontano a Roma, ed ora gl’incresce di venir solamente dalla sua casa al palazzo. Contuttociò permise che Marco Aurelio andasse a prendere le lezioni, dove Apollonio volle, e durò fatica a contentar costui nel salario. Un saggio ancora della sua mansuetudine diede il buon Antonino nel visitar che fece la casa di Valerio Omulo5. Al vedere le belle colonne di porfido, delle quali essa era ornata, se ne maravigliò, e dimandò onde le avesse avute. Omulo, in vece di gradire la stime che facea un imperadore degli ornamenti1120 di sua casa, sgarbatamente gli rispose: In casa d’altri si ha da essere mutolo e sordo. Tanto questa impertinenza, quanto altri motti pungenti del medesimo Omulo, persona satirica e maligna, sopportò sempre con pazienza il buon imperadore Antonino, senza far valere giammai i diritti della maestà imperiale, e senza farne mai vendetta.



Anno di Cristo CXLVII. Indizione XV.
Pio papa 6.
Antonino Pio imperadore 10.


Consoli


LARGO e MESSALINO.


Cresceva ogni dì più l’affetto di Antonino Pio verso di Marco Aurelio Cesare, non solamente perchè figliuolo suo adottivo e marito di Faustina sua figlia, ma perchè scopriva in lui ben radicata la saviezza con altre virtù che insegnava[p. 504] la filosofia di quei tempi, e per le quali meritò poi di essere appellato Marco Aurelio Antonino il Filosofo. Avendogli appunto6 Faustina partorita una figliuola, cioè Lucilla, maritata poi con Lucio Commodo, o sia Lucio Vero, da che divenne Augusto, volle Antonino Pio esaltar maggiormente l’amato suo genero e figliuolo, conferendogli in questo anno la Tribunizia Podestà, l’imperio proconsolare fuori di Roma, e il diritto di far cinque relazioni in qualsivoglia senato. Pretende il padre Pagi7, che Marco Aurelio fosse in quest’anno ancora dichiarato Imperadore e Collega dell’Imperio con suo padre Antonino. Il cardinal Noris pretese di no, e par ben più sicura la di lui opinione. Il gius della quinta relazione, conferito a Marco Aurelio, non conveniva ad un imperadore, la cui autorità non era ristretta, ma si stendeva a quello che gli piaceva. Scrive inoltre Capitolino, che quel maligno uomo di Valerio Omulo, di cui poco fa si è parlato, osservata un giorno Domizia Calvilla, madre di Marco Aurelio, la quale, dopo il presente anno, venerava in un giardino la statua di Apollo, disse sotto voce ad Antonino: Colei prega ora, che tu chiuda gli occhi, e suo figliuolo sia imperadore. Non ne fece alcun caso l’imperadore; tanto era conosciuta la probità di Marco Aurelio, tanta era la modestia nel principato imperatorio; le quali ultime parole non si sa se si abbiano da riferire a Marco Aurelio, oppure ad Antonino stesso, regnante con tal moderazione, che non credeva dovergli alcuno augurare la morte. Pareva ancora che Antonino Pio portasse affetto all’altro suo figliuolo adottivo, cioè a Lucio Commodo8; ma era ben differente il calibro di questo amore. Imperciocchè finchè visse, il lasciò sempre nello stato di persona privata, senza mai conferirgli il titolo di

  1. Eutrop., in Breviar.
  2. Philostrat., in Sophistis.
  3. Capitolinus, in Antonino Pio.
  4. Lucianus, in Demonacte.
  5. Capitolinus, in Antonino Pio.
  6. Capitolinus, in Marco Aurel.
  7. Pagius, in Crit. Baron.
  8. Capitolinus, in Lucio Vero.