Amleto/Nota
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NOTA
«L'Amleto è unico nella sua specie: è la tragedia del pensiero. Inspirata da meditazioni profonde, e non mai compiute, sul destino umano e sulla buia confusione degli avvenimenti terrestri, essa eccita le medesime meditazioni nell’animo dello spettatore. Un opera tanto difficile somiglia quelle equazioni irrazionali che non si possono mai sciogliere, e in cui resta sempre una frazione di una grandezza sconosciuta. Ad onta di quanto è stato detto e scritto sopra questo soggetto, nessun pensatore, che lo esamini, potrà concordare interamente con quelli che lo precedettero nella sua maniera di considerare il senso di ciascuna parte e la loro unione. Ciò che deve sopratutto recar meraviglia, è, come un’opera, ove son tanti disegni nascosti, e la cui base giace in tale profondità, sembri fatta, a prima giunta, per piacere alla moltitudine. E per verità tutto ciò che si vede in essa è sorprendente. La spaventevole apparizione dello spettro colpisce infin dal primo istante l’immaginazione; poscia il dramma rappresentato nel mezzo della tragedia medesima, ove si mira ripetuto, come in uno specchio fedele, il delitto, la cui punizione invano dimandata forma il soggetto della composizione; lo spavento del re a tale spettacolo; la simulata follìa d’Amleto, e la follìa reale d’Ofelia; la morte e la sepoltura di questa fanciulla; l’incontro d’Amleto e di Laerte nella tomba di essa; il loro duello; la grande catastrofe; finalmente l’ingresso del giovine eroe Fortebraccio il quale, con pompa militare, rende gli ultimi onori a tutta una famiglia di re (a cui bisogna aggiungere ancora le scene caratteristiche di Polonio, de’ cortigiani e de’ beccamorti; scene che hanno tutte il loro altissimo significato); tutti questi accidenti empiono il teatro del più vivo e più svariato movimento. La sola circostanza che potrebbe far riputare questo dramma meno teatrale degli altri, è che l’azione principale si arresta, o sembra arrestarsi nelle ultime scene. Questo effetto era inevitabile, e dipende dalla qualità dell’argomento. Il fine generale dell’opera è di mostrare come la riflessione che vuol ponderare tutte le relazioni e tutte le conseguenze possibili d’un disegno, fino agli ultimi limiti dell’umana provvidenza, reprime le forze attive dell’anima.
«Io non saprei, col mio modo di osservare i lavori del poeta, giudicare così favorevolmente, come fa Goëthe, il carattere di Amleto. È ben vero che questi è un principe, il cui spirito è mirabilmente coltivato, le cui maniere sono degne del suo grado, che è dotato d’uno squisito sentimento, e che unisce ad una nobile ambizione la facoltà d’ammirare in altrui le qualità che non possiede egli stesso; è vero che egli spiega uno straordinario ingegno nella sua pazzia, colle stesse verità che dice a coloro che hanno ordine di spiare i suoi passi, e collo spirito infinito che con essi dispiega, onde li persuade della sua demenza; ma pure mostra la debolezza della sua volontà ne’ suoi disegni così spesso concepiti, e non mai recati ad effetto. Amleto rende giustizia a se medesimo quando dice che non vi ha maggior dissimiglianza, di quella che esiste fra Ercole e lui; esso ha un’inclinazione naturale a seguir vie obblique, nè sempre è la necessità che lo sforza a far ciò; sovente è di mala fede con se stesso, e le difficoltà che crea continuamente, non sono che fallacie per nascondere la sua mancanza di risolutezza. Amleto nutre pensieri, come dice egli medesimo, che hanno in sè un quarto di saggezza e tre quarti di pusillanimità. Ma sopratutto viene accusato di durezza verso Ofelia, quando rifiuta l’amore ch’egli stesso ha cercato d’ispirarle; e d’insensibilità, alla notizia della morte di questa fanciulla: morte di cui egli medesimo è la cagione involontaria. Tanto profondamente però è immerso nel suo proprio affanno, che non gli resta ombra di pietà per gli altri, e la sua indifferenza mostra il disordine della sua anima. È vero nondimeno che si osserva in esso una cotal gioia maligna, quando la necessità o il caso, che soli possono eccitarlo a colpi arditi, lo hanno liberato de’ suoi nemici. È questo il sentimento ch’egli esprime in occasione dell’uccision di Polonio e della pena che fa ricadere sul capo de’ suoi perfidi amici. Amleto non prende sicurtà di nulla, dubita di se stesso e di tutto l’universo. Egli passa dalle espressioni della confidenza religiosa a quelle di uno scetticismo scrutatore; crede all’ombra di suo padre, la vede, ma, appena svanita, la reputa un’illusione. Egli giunge fino a dire che nulla è moralmente buono o cattivo, se non in quanto la fantasia lo giudica tale. Il poeta si perde insieme col suo eroe in un laberinto di pensieri che non hanno nè capo nè fine, e il cielo medesimo sdegna di rispondere, per mezzo del corso degli avvenimenti, alle dimande che gli vengono addirizzate col più vivo ardore; una voce che sembra discendere dall’alto, implora la vendetta di un mostruoso delitto, e non raggiunge alcun effetto. I colpevoli, è vero, sono alla fine puniti, ma solo per una specie di caso, e non, come sarebbe stato necessario, per dare un solenne esempio della giustizia celeste, mediante una concatenazione d’effetti inevitabili. La perplessità, la perfidia od una rabbia subitanea strascinano tutti i personaggi ad una rovina comune, e gli innocenti e i rei sono colpiti del medesimo fato. Il destino umano si presenta in questa tragedia come una sfinge immensa che propone a’ mortali un terribile enimma, e immerge nell’abisso della dubbiezza tutti coloro che non sanno scioglierlo».
(Schlegel, Corso di lett. dramm.)