Aminta/Atto quarto/Scena seconda

Atto quarto
Scena seconda

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Atto quarto
Scena seconda
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SCENA SECONDA.


Nuncio. Choro. Silvia. Dafne


Nuncio
I
O hò si pieno il petto di pietate,

E si pieno d’horror, che non rimiro,
Nè odo alcuna cosa, ond’io mi volga,
La qual non mi spaventi, e non m’affanni.

Choro
Hor, ch’apporta costui,

Ch’è si turbato in vista, et in favella?

Nuncio
Porto l’aspra novella

De la morte d’Aminta. Silvia Ohime, che dice.

Nuncio
Il più nobil Pastor di queste selve,

Che fù così gentil, così leggiadro,
Così caro à le Ninfe, et à le Muse,
Ed è morto fanciullo, ahi, di che morte?

Choro
Contane, prego, il tutto, acciò che teco

Pianger possiam la sua sciagura, e nostra.

Silvia
Ohime, ch’io non ardisco

Appressarmi ad udire
Quel ch’è pur forza udire, empio mio core,
Mio duro alpestre core,
Di che, di che paventi?
Vattene incontra pure
A quei coltei pungenti,
Che costui porta ne la lingua, e quivi
Mostra la tua fierezza.
Pastore, io vengo à parte
Di quel dolor, che tu prometti altrui;

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Che à me ben si conviene
Più che forse non pensi, et io’l ricevo
Come dovuta cosa. hor tu di lui
Non mi sij dunque scarso.

Nuncio
Ninfa, io ti credo bene,

Ch’io sentij quel meschino in su la morte
Finir la vita sua,
Co’l chiamar’il tuo nome.

Dafne
Hora, comincia homai

Questa dolente historia.

Nuncio
Io era à mezo’l colle, ove havea tese

Certe mie reti, quanto assai vicino
Vidi passar Aminta in volto, e in atti
Troppo mutato da quel, ch’ei soleva,
Troppo turbato, e scuro. Io corsi, e corsi
Tanto, che’l giunsi, e lo fermai; et egli
Mi disse, Ergasto, io vò, che tu mi faccia
Un gran piacer. quest’è che, tu ne venga
Meco per testimonio d’un mio fatto;
Ma pria voglio da te, che tu mi leghi
Di stretto giuramento la tua fede,
Di startene in disparte, e non por mano
Per impedirmi in quel, che son per fare.
Io (chi pensato havria caso sì strano,
Nè sì pazzo furor?) com’egli volse,
Feci scongiuri horribili, chiamando
E Pane, e Palla, e Priapo, e Pomona,
Et Hecate Notturna. indi si mosse,
E mi condusse, ov’è scosceso il colle,
E ù per balzi, e per dirupi incolti

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Strada non già, che non v’è strada alcuna,
Ma cala un precipitio in una valle.
Qui ci fermammo. io, rimirando à basso,
Tutto sentij ricapricciarmi, e’ndietro
Tosto mi trassi: et egli un cotal poco
Parve ridesse, e serenossi il viso,
Onde quell’atto più rassicurommi.
Indi parlommi si: Fa, che tu conti
A le Ninfe, e à i Pastor, ciò che vedrai:
Poi disse, in giù guardando:
Se presti à mio volere
Cosi haver io potessi
La gola, e i denti de gli avidi lupi,
Com’hò questi dirupi,
Sol vorrei far la morte,
Che fece la mia vita:
Vorrei, che queste mie membra meschine
Sì fosser lacerate,
Ohime, come già foro
Quelle sue delicate.
Poi che non posso, e ’l Cielo
Dinega al mio desire
Gli animali voraci,
Che ben verriano à tempo, io prender voglio
Altra strada al morire:
Prenderò quella via,
Che se non la devuta,
Al men fia la più breve.
Silvia, io ti seguo, io vengo
A farti compagnia,

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Se non la sdegnerai:
E morirei contento,
S’io fossi certo almeno,
Che’l mio venirti dietro
Turbar non ti dovesse,
E che fosse finita
L’ira tua con la vita:
Silvia, io ti seguo: io vengo. Così detto,
Precipitossi d’alto
Co ’l capo in giuso, et io restai di ghiaccio.

Dafne
Misero Aminta. Silvia Ohime.
Choro
Perche non l’impedisti?

Forse, ti fù ritegno à ritenerlo
Il fatto giuramento?

Nuncio
Questo nò, che, sprezzando i giuramenti,

Vani forse in tal caso,
Quand’io m’accorsi del suo pazzo, et empio
Proponimento, con la man vi corsi,
E, come volse la sua dura sorte,
Lo presi in questa fascia di zendado
Che lo cingeva, la qual non potendo
L’impeto, e’l peso sostener del corpo,
Che s’era tutto abandonato, in mano
Spezzata mi rimase. Choro E che divenne
De l’infelice corpo? Nuncio Io no’l sò dire,
Ch’era sì pien d’horrore, e di pietate,
Che non mi diede il cor di rimirarvi,
Per non vederlo in pezzi. Choro O strano caso.

Silvia
Ohime, ben son di sasso,

Poi che questa novella non m’uccide.

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Ahi, se la falsa morte
Di chi tanto l’odiava
A lui tolse la vita,
Ben sarebbe ragione
Che la verace morte
Di chi tanto m’amava
Togliesse à me la vita:
E vò, che la mi tolga,
Se non potrò co’l duol, almen co’l ferro,
O pur con questa fascia,
Che non senza cagione
Non seguì le ruine
Del suo dolce signore,
Ma restò sol, per fare in me vendetta
De l’empio mio rigore,
E del suo amaro fine.
Cinto infelice, cinto,
Di Signor più infelice,
Non ti spiaccia restare
In sì odioso albergo,
Che tu vi resti sol per instrumento
Di vendetta, e di pena.
Dovea certo, io dovea
Esser compagna al mondo
De l’infelice Aminta.
Poscia ch’allhor non volsi,
Sarò per opra tua
Sua compagna à l’Inferno.

Choro
Consolati, meschina,

Che questo è di fortuna, e non tua colpa.

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Silvia
Pastor, di che piangete?

Se piangete il mio affanno,
Io non merto pietate,
Che non la seppi usare:
Se piangete il morire
Del misero innocente,
Questo è picciolo segno
A si alta cagione: e tu rasciuga,
Dafne, queste tue lagrime, per Dio.
Se cagion ne son io:
Ben ti voglio pregare,
Non per pietà di me, ma per pietate
Di chi degno ne fue,
Che m’aiuti à cercare
L’infelici sue membra, e à sepelirle.
Questo sol mi ritiene,
Ch’hor hora non m’uccida:
Pagar vò questo ufficio,
Poi ch’altro non m’avvanza
A l’amor, ch’ei portommi:
E, se bene quest’empia
Mano contaminare
Potesse la pieta de l’opra, pure
So, che gli sarà cara
L’opra di questa mano:
Che sò certo, ch’ei m’ama,
Come mostrò morendo.

Dafne
Son contenta aiutarti in questo ufficio:

Ma tu già non pensare
D’haver poscia à morire.

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Silvia
Sin qui vissi à me stessa;

A la mia feritate: hor, quel, ch’avanza,
Viver voglio ad Aminta:
E, se non posso à lui,
Vivrò al freddo suo
Cadavero infelice.
Tanto, e non più mi lice
Restar nel mondo, e poi finir à un punto
E l’essequie, e la vita.
Pastor: ma, quale strada
Ci conduce à la valle, ove il dirupo
Và à terminare? Nuncio Questa vi conduce;
E quinci poco spatio ella è lontana.

Dafne
Andiam, che verrò teco, e guiderotti,

Che ben rammento il luogo. Silvia A Dio, Pastori;
Piagge, à Dio; à Dio, selve; e fiumi, à Dio.

Nuncio
Costei parla di modo, che dimostra

D’esser disposta à l’ultima partita.