Alla scoperta dei letterati/Domenico Oliva
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Milano, marzo del ’95.
Andai a casa sua di domenica. Mi rammento d’essermi seduto presso una finestra, avendo a dritta un grande scrittoio vicino al quale egli era, e a sinistra la vista del bastione Monforte, dove operai e botteganti passeggiavano a tre, a quattro con le loro mogli e i loro bimbi, vestiti a festa. Tra la casa e la passeggiata era un giardino ancora nudo, dalle aiole ampie e dai sedili eleganti; e i bambini dell’amico Oliva vestiti di lieti colori correvano lì sotto, gridando gioiosamente.
— Io filosoficamente sono un pessimista e penso che l’arte sia una delle poche consolazioni date all’uomo. Pure anch’essa subisce alti e bassi; ora io sono contento di dire che essa è in un vero progresso qui in Italia. Dopo i violenti e prolungati rivolgimenti politici noi abbiamo avuto un periodo di calma, di riposo, di indifferenza, che è stato anche un periodo di preparazione latente ma feconda; e adesso la nuova arte può fiorire e fiorisce ed è puramente italiana.
— Che intendi?
— Intendo che ha i caratteri di quella che in altri tempi fu buona arte italiana.
Essa ha sempre avuto, agli occhi di chi ne faccia un esame comparato, il carattere di eclettismo; noi non siamo originali, ma elaboriamo il materiale altrui, al quale diamo lo stile, la chiarezza, la nobile saldezza che incanta e traversa le età. Noi delle informi Chansons de geste sappiamo fare l’Orlando furioso da una novella di Maupassant L’Innocente di Gabriele d'Annunzio. Guarda quel che la latinità ha preso dalla Grecia, quel che l’arte del dugento e del trecento ha preso dai provenzali, dai bizantini e anche dai barbari rimasti in Italia; guarda il rinascimento. Ma noi siamo assimilatori potentissimi che alla materia grezza e fragile diamo solidità meravigliosa e forma di gran lunga superiore a quella dei primi inventori di quella materia.
— Naturalmente parli della nostra letteratura recentissima, di quella che appare a questi dì, quasi di quella che sta divenendo. Specifica questi elementi importati a crearla.
— Prima di tutto i nordici hanno dato ad essa l’introispezione, l’introversione, lo studio cosciente dell’anima propria, nella quale l’anima e i fatti altrui si riflettono; e questo studio ora è fatto da noi con altrettanta sincerità e altrettanta precisione che lassù. Io rammento quelle due o tre pagine in cui il d’Annunzio sviluppa con rigore di scienza l’anima di Giorgio Aurispa nel Trionfo.
— E gli psicologi francesi?
— Oh non da loro noi abbiamo preso questo amor di esattezza e questa pazienza di osservazione. Gli psicologi hanno portato nello studio della psiche i metodi superficiali dei naturalisti, e lo stesso Bourget per me è stato piccolo, gretto, femminile, mai profondo e solennemente vero.
— E dai francesi questa recentissima letteratura nostra che ha preso?
— Poco o nulla. È un mal vezzo dei nostri critici ripetere ciò che era vero dieci o venti anni fa sul letargo delle nostre arti, non ora. Dei giovani francesi pochi sono originali, come il Rosny o il France, ma poco assimilabili; gli altri sono inferiori ai nostri, certissimamente. Al più, qualcuno dei nostri poeti più moderni, Gabriele d'Annunzio, Cosimo Giorgieri-Contri, Remigio Zena, io stesso, è stato dalla letteteratura di Verlaine e dei suoi indotto verso il misticismo. Null’altro.
— Di quali forme massimamente si vestirà questo rinascimento?
— La massima forma sarà il Romanzo, e anche la poesia lirica. Il Teatro come è ora è un’arte inferiore, ma se ne può sognare uno maggiore. Ibsen ci ha mostrato un metodo deduttivo per la formazione dell’opera d’arte teatrale, contrario al metodo induttivo dei veristi fotografeggianti; questi prendevano la realtà per la realtà, lasciando che talvolta a suo piacere il lettore inducesse dai fatti chiaramente presentati da loro una qualunque idea generale.
Invece ora deve avvenire il contrario: prima l’idea, poi i fatti scelti a oggetto dell’opera estetica, coordinati intorno all’Idea.
— Ma così si può anche sognare di ripetere oggi la tragedia shakespeariana.
— Certo, e io ho scritto una tragedia Robespierre che ha questa intenzione. Non è stata rappresentata e molto dovrò lottare per farla rappresentare. Sùbito dopo mi metterò a un’altra simile opera drammatica, L'anno mille.
— Insomma, tu non neghi agl’italiani ogni disposizione pel teatro.
— Basta Goldoni e basta tutto il nostro teatro dialettale, il quale però va decadendo necessariamente per la morte dei dialetti e dei costumi regionali. — Una domanda che rivolta a te ha molta importanza: che dici delle miserrime condizioni della critica artistica e letteraria in Italia?
— Dico prima di tutto che, risorgendo la nostra letteratura, fatalmente risorgerà anche la critica che dovrà accompagnarla e guidarla. Ora essa è tanto in basso, prima di tutto perchè mancano opere degne di critica, poi perchè mancano critici che sappiano farsi leggere, in ultimo perchè non si sa dove stampare uno studio di critica. Guarda: su la cattedra regnano i pedanti, e parlare di là di letteratura e d’arte contemporanea sembrerebbe presunzione o pazzia; nei libri è difficile, chè gli editori, accettano più i versi che gli studi critici, e non hanno torto che, come ti dicevo più su, sono i critici nostri gretti, pesanti, goffi, o ignoranti o intorpiditi da troppa erudizione non digerita; nelle riviste si potrebbe fare della critica seria, ma non ve ne sono e la Nuova Antologia è antiquata e i suoi crìtici sono partigiani e di corta vista e spesso ignoti; nei giornali.... Oh, qui comincian le dolenti note: io al Corriere della sera (e sì che lo spirito di Eugenio Torelli-Viollier è squisitamente letterario) vedo in che conto sia tenuta la critica letteraria. La si considera un lusso, e si crede necessario l’impedirmi di trattare determinati argomenti, ritenuti inutili o dannosi: io non potei là sopra parlare del Trionfo della morte, non potei dedicare tutto un articolo all’Anima del Butti e non potei scrivere manco una riga dei Lussoriosi dello Zuccoli.
E il buon Oliva, che in certi moti semplici dell’animo, nella sua rigida imparzialità, nella sua modestia, nella sincerità dei suoi affetti mi rammenta spesso Giovanni Pascoli, si affannava a spiegarmi il dolore che egli prova a credersi giudicato male dal pubblico per colpe non sue.
— E t’assicuro che il pubblico legge, legge, legge gli articoli che s’occupano d’arte e di lettere. Io lo so e lo sento: io ho fatto anche il giornalista politico e posso fare il confronto. Ma faremo una rivista quindicinale, ricca e libera e giovine; già col Butti e con qualche altro amico se ne è parlato, e con l'anno prossimo....
Cominciammo a discutere questo progetto, egli mi mostrava gli schemi e i preventivi, mi narrava le sue speranze; e tra una parola e l’altra io mi volgevo a quella finestra e vedevo quelle ineleganti figure vestite a festa passare su e giù monotonamente sul bastione polveroso, sotto gli alberi senza foglie, divertendosi; e vedevo anche i bimbi dai grembiuli turchini correre tra le aiole del chiuso giardino sottoposto.
Oliva soggiungeva:
— Del resto, tutto questo bel risorgimento avverrà se non avremo altri rivolgimenti politici. Le vicende socialistiche soffocherebbero ogni rigoglio, e io le temo assai, specialmente perchè noi non ci badiamo molto. E parlo specialmente di noi Artisti che contro questa minacciosa e fangosa fiumana dovremmo a tutta possa elevar dighe e gridare l’allarme. Tutti i mezzi di propaganda contro il socialismo sono buoni, e, perdio, noi dovremmo saperli adoperare con maggiore abilità di loro. Il teatro, per esempio, che è una forma d’arte tutta inferiore, potrebbe essere adoperata a diffondere idee antidemocratiche e a diffondere l’Arte.
Entrò un bel bimbo ricciuto e corse a baciare il babbo. La stanza era quietissima nella luce fredda che nel tardo pomeriggio tra i grigi o giallastri alberi nudi entrava per le finestre ampie.