I camelli

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I tributarii Meriggio
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I CAMELLI.

N
OSTRA spiaggia pisana,

amor di nostro sangue,
vita di sabbie e d’acque
silvana e litorana,
5o ferma creatura
nella qual si compiacque
un’arte che non langue
non trema e non s’offusca,
terra lieve e robusta

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10che lineata pare
dalla mano sicura
del figulo onde nacque
il purissimo vaso
che vale e non corusca
15né pesa, specie pura,
l’orgoglio della mensa
e della tomba etrusca,
il fiore delle forme
nel cielo senza occaso,
20or qual mai novo caso
fece che dall’immensa
Asia o dall’Africa usta
sen venisse il deforme
somiero a stampar l’orme
25su la tua levità
divina e, come fa
il giumento crinito
dal tranquillo occhio amico
dell’uomo, a someggiare
30con la sua gobba onusta
le spoglie dell’augusta
selva tra l’Arno e il Mare?

Passano per la macchia,
vanno verso la ripa,

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35tra i mucchi di legname,
tra i cumuli di stipa,
i camelli gibbuti,
carichi di fascine
di ramaglia e di strame,
40sì gravi e tristi e muti!
Sotto i lor piè distorti
scricchiolano le pine
aride, gli aghi morti.
Ròtea la mulacchia
45nel cielo ingombro d’afa;
e a quando a quando gracchia.
Cola e odora la ragia.
S’odon su le Lame
di Fuore le cavalle
50nitrire a quando a quando;
e più sottil nitrito
e più tremulo s’ode
rispondere e più fresco,
dei puledri novelli.
55Passano per la macchia
gravi e tristi i camelli.
Non il lor Barberesco
li guida ma il bifolco
toscano, con l’antica
60voce che i padri suoi

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usarono pel solco
ad incitare i buoi
tardi nella fatica.
Vanno i callosi cuoi.

65Giungono alla radura
per deporre i lor fasci.
Ecco, subitamente
ciascun par che s’accasci
per esalare il fiato,
70per quivi infracidire.
Si piegan su i ginocchi
con un grido sommesso.
Poi sbadigliano al sole.
Appar la gialla chiostra
75dei denti aspri, il palato
violaceo. S’ode
salire nelle gole
serpentine e lanose
un gorgóglio intermesso.
80Treman le labbra molli
e lacrimano i bruni occhi
esanimi, gli specchi
inerti dei deserti
e dei palmeti. Vecchi
85sembran della vecchiezza

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del Mondo questi grandi
esuli, oppressi e affranti
da tutta la stanchezza
che addolora la carne
90viva sopra la faccia
della Terra discorde.
S’alzano senza il peso.
Lunghe dal fianco spoglio
trascinano le corde
95giù per la traccia. E s’ode
quel lor triste gorgóglio.

Tali forse li vide
in lor piagge natali,
e n’ebbe orrore, il buono
100mercatante pisano
che fu predato e tratto
prigione dai corsali
in paese lontano.
Volle la mala sorte
105ch’egli incappasse in una
fusta di Barbereschi,
che armava ventidue
remi per banda, forte
e veloce a saetta.
110E per le mani ladre

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perse le robe sue,
la cocca a vele quadre
e la mercatanzia.
E fu messo in ritorte.
115E schiavo in Barberia
gran tempo si rimase.
E macinava il grano
a braccia, tratto tratto
udendo il grido vano
120del camello percosso,
triste sino alla morte.
Poi tornò, per riscatto,
a Pisa, alle sue case.
E fecesi un palagio
125novo a specchio dell’Arno.
Memore del malvagio
servire, ALLA GIORNATA
scrisse nell’architrave.

E l’Arno era soave.