Alarico Carli/A sette anni
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A sette anni.
Si era giunti al 1831 ed il nostro Alarico contava soli 7 anni di età, allorchè da Firenze venne condotto dai suoi in Casentino.
I tempi volgevano tumultuosi e forieri di grandi avvenimenti e l’aria, diremmo oggi, era satura d’elettricità.
La rivoluzione, scoppiata in Francia nel Luglio del 1830, rovesciato dal soglio Carlo X ed inalzatovi Luigi Filippo, (che aveva sostituito all’antico diritto feudale, come base del governo monarchico, il diritto popolare) aveva preparato anche la rivoluzione in Italia.
La morte, quasi simultanea, di Francesco I, di Pio VIII e di Carlo Felice, dava adito agli Italiani a sperare nei loro successori e in giorni più lieti.
Frattanto gemevano nelle segrete di Stato, Federigo Confalonieri, Antonio Solera, Foresti, Villa, Oroboni, Pellico, Piero Maroncelli e tanti e tanti altri generosi compatriotti; battevano la via dell’esilio, con altri meno illustri ma non meno grandi, Santorre di Santarosa e Giacinto di Collegno; Alessandro Manzoni, Giovanni Berchet, Gabriele Rossetti, rapivano colle loro poesie patriottiche gli animi dell’italica gioventù.
Giuseppe Mazzini dava vita ad una società segreta potentissima, la Giovane Italia, (che altro non era che una trasformazione della Carboneria e della Frammassoneria) la quale metteva in serie apprensioni i governi.
Erano quelli, appunto, i giorni nei quali i tirannelli e gli Austriaci, preponderanti in Italia, tentavano di soffocare ogni scintilla, ogni alito di patriottismo: erano quelli i giorni nei quali il fremito d’amor patrio e di libertà aveva invasi gli animi di tutti gli italiani, da un capo all’altro della penisola.
Infatti, nel 4 Febbraio, al grido fatidico di Patria e libertà, Bologna, le Romagne, le Marche, l’Umbria, Modena, Parma insorgono e inalzano la bandiera della rivoluzione italiana contro l’Austria e contro la Chiesa.
Fuggono i Regnantucoli, spaventati, dalle loro reggie e nuovi orizzonti si aprono alle speranze degli italiani: ma gli eserciti stranieri calano, rafforzandosi, nel nostro paese, e riescono a comprimere la rivoluzione ed a soffocarla nel sangue.
I martiri si succedono ai martiri. Il frale di Ciro Menotti pende caldo ancora, da una forca eretta su una piazza di Modena, allorchè il nostro Alarico lascia Firenze.
«Nel 1831, Egli scrive, fui in Casentino dove cominciai a sentire parlare di Frammassoni e Carbonari inseguiti e sopraffatti dagli sgherri del Governo e presi passione per costoro e, nelle finte lotte che facevamo uscendo dalla scuola (ove pure si facevano, per eccitamento allo studio, i partiti) figuravamo di essere da una parte Massoni, dall’altra soldati e molte volte ci davamo tali bôtte da tornare a casa contusi e feriti.
«Da questo e dalla storia romana e greca, cominciai presto ad amare la patria, tanto che pochi anni dopo a S. Sepolcro, questo amore divenne idolatria pei discorsi che sentivo fare dai giovani più grandicelli di me.»