Agricoltura del Pianeta/III
Questo testo è completo. |
◄ | II | IV | ► |
UN GIORNO TRA GLI AGRUMETI SPAGNOLI
Incontro, ad Algemesi, con il capo carismatico di una delle maggiori cooperative agrumarie della più antica area frutticola iberica
Cielo e arance
Di una breve vacanza spagnola passata, tra S. Stefano e l'inizio dell'anno, tra le tele del Prado e le arance di Valencia, l'incontro con Alfredo Roig Roig, presidente della Cooperativa del Corazon Sagrado de Jesus di Algemesi, costituisce senza dubbio il ricordo più singolare: se quell'incontro mi fosse mancato non potrei dire di avere riportato dalla Spagna la ricchezza di impressioni che, nel pomeriggio trascorso con il vecchio agricoltore valenziano, ha ricevuto più di un contributo essenziale. Ad Algemesi arrivo, con mia moglie, di domenica, su una 126 presa a nolo da un garage che ha aperto solo per amicizia con il portiere dell’albergo, cui mi sono rivolto per trovare, in qualsiasi modo, una macchina. Lasciata la città sotto l'incombere di un cielo carico di pioggia, nella mezz'ora di viaggio verso il borgo agrumicolo abbiamo visto il cielo aprirsi, il sole filtrare tra le nubi, prima a intervalli fuggitivi, poi assumendo il dominio di un cielo pervaso dalla luce folgorante dei cieli spagnoli. Sotto quel cielo gli agrumeti attraversati dalla superstrada hanno assunto la veste smagliante che dovette essere quella dell’Eden: non credo che il Giardino dei nostri felici progenitori potesse avere colori più splendenti della distesa di aranci e mandarini che circonda Algemesi, i toni differenti del verde delle varietà diverse, i frutti dorati gravanti gli alberelli piegati a terra nello sforzo di reggere tanta ricchezza. Lasciata la superstrada al casello di Algemesi, e percorso qualche chilometro su una strada provinciale, abbiamo imboccato una stradina interpoderale stretta e tortuosa ma asfaltata, la "Via del Labrador” perdendoci nella scacchiera infinita delle microproprietà delimitate solo dalle canalette di cemento dell'irrigazione, ciascuna con la targa col nome del proprietario al passo sulla strada, nessuna casa per chilometri, le cataste delle casse piene di frutti pronte per l’autocarro della cooperativa ai margini della via, senza cancelli né serrature in un paese nelle cui campagne vige il rispetto inviolabile dei prodotti della terra. Quando il cielo si è riannuvolato, e lo scenario è stato riassorbito nel grigiore opaco della mattina di gennaio, ci siamo diretti al borgo, una congerie disordinata di case basse, dalla forma più di scatole che di case; abbiamo mangiato un panino in un bar, nei bar spagnoli all'ora di pranzo si cammina sui tovaglioli di carta che, non esistendo cestini per la cartaccia, gli avventori gettano con disinvoltura, e abbiamo chiesto della Cooperativa. Della Cooperativa avevo avuto l'indirizzo a Roma, all'Ambasciata spagnola, dove mi era stato detto di andarci in giorno lavorativo. Ma il giorno successivo dovevamo tornare a Madrid, e avevo deciso di provare. E’ beneaugurale verificare che in paese la Cooperativa la conoscevano tutti, ci scontriamo subito, però, con il problema di scegliere a quale parte della cooperativa dirigerci: ci viene detto, infatti che la Cooperativa ha un bar, un cinema e diversi stabilimenti, non riesco a capire quanti. Dato che oggetto dei miei interessi sono gli agrumi, chiedo dello stabilimento della frutta, e per lo stabilimento della frutta mi viene insegnata la strada.
La Cooperativa In una grande area recintata sorge una serie di capannoni: fuori trattori e cumuli di imballaggi, ma il primo ed il secondo cancello che incontriamo seguendo il muro di cinta sono chiusi. Al terzo cancello trovo un varco, entro in un piazzale, giungo ad un magazzino all'interno del quale, dietro un cumulo di canestri di vimini pieni di carciofi, trovo un ometto, il basco storto sul cranio lucido, la sigaretta incollata all'angolo della bocca, quasi un emblema del contadino spagnolo: il guardiano. Cortesissimo, in Spagna lo straniero è oggetto di una premura che pare carattere profondo della gente, mi spiega che a quell'ora è probabile che possa trovare al bar tanto il presidente, don Alfredo Roig Roig, quanto Salvador Roig Ginev, che non capisco quale carica ricopra nell'organigramma della Cooperativa, ma che della Cooperativa rappresenta, indubbiamente, la seconda autorità. Tornati in paese, dopo qualche incertezza nel piazzale della piccola stazione ferroviaria, raggiungiamo il “bar”, uno stanzone, quaranta metri per quindici, in cui un centinaio di uomini, vecchi e giovani, giocano a carte su tavoli piccolissimi. Al banco, il cameriere ci dice di seguirlo, ci accompagna per uno scalone imponente, ci fa attendere sulle soglie di una biblioteca sala di lettura, dalla quale esce, venendoci incontro, il presidente Roig Roig. Di statura piuttosto piccola, asciutto, un abito della foggia di quelli che nelle foto d'anteguerra gli agricoltori portano nei giorni di festa, il basco nero sui capelli bianchi, il naso affilato, un lampo negli occhi incastonati nelle fitte rughe sottili, Alfredo Roig Roig appare un vecchio signore di campagna, ancora energico e vivace, le radici infitte in un'epoca lontana. Nel pomeriggio che trascorreremo trascorso insieme si rivelerà l'animatore morale ed il condottiero economico di una delle più grandi organizzazioni cooperative della Spagna, forse dell'Europa: 4.300 soci, attività bancarie, agricole commerciali, sociali, un movimento di cassa di 10.000 milioni di pesetas (140 miliardi di lire). Prima ancora che possa spiegargli, con la grammatica spagnola studiata, per scherzo, dieci anni prima, e il lessico improvvisato in cinque giorni di turismo a Madrid, chi sono, con un cortese inchino a mia moglie el sen^or Presidente mi apostrofa dicendo che mi aspettava per il giorno dopo, che di domenica non posso vedere niente, che sono venuto nel peggior momento possibile. Intanto ci guida verso una stanzetta a lato della biblioteca, e ordina perentoriamente al cameriere, che lo segue compunto, di portare tre caffè. Durante l'attesa gli chiedo se parli qualche lingua diversa dallo spagnolo, ma per il Presidente lo spagnolo è sufficiente, con lo spagnolo capirò tutto, sottolinea, anzi, che in certe regioni italiane si parla una lingua molto vicina al Valenziano, che quindi un italiano dovrebbe capire il Valenziano meglio del Castigliano, “come una lingua di casa”. Sorbito il caffè, il Presidente si alza invitandoci, con un segno di comando, a seguirlo: risalita la scala, ci conduce a un'immensa sala deserta, corrispondente, al piano superiore, a quella del bar: la sala delle assemblee della Cooperativa. Al muro, un grande ritratto del papa. La Cooperativa è stata fondata da un sacerdote, mi spiega, e ha un’ispirazione religiosa, pure se quell'ispirazione è meno rigida, oggi, sottolinea, di una volta Il papa sul muro non è, rilevavo, quello attuale, è Giovanni XXIII: lo faccio notare al mio ospite: “Abbiamo lasciato Giovanni XXIII, e non sappiamo quando decideremo di cambiare: è un italiano che ci va molto bene” sottolinea don Alfredo col tono di chi si congratuli per la nazionalità italiana. Dopo una rapida corsa negli uffici della banca, annessa anch’essa al bar, di ogni porta il Presidente cerca la chiave in un enorme mazzo pendente dal panciotto, e una visita alla sala del Consiglio, con i quadri dei vecchi presidenti dietro i seggi dei consiglieri, raggiungiamo lo studio presidenziale. Sedendomi osservo la stanza, e noto, in una fotografia al muro, in un angolo tra due mobili, don Alfredo nell’atto di ricevere una onorificenza dal Caudillo di Spagna, il generalissimo Francisco Franco. Anche di quel quadro gli chiedo la storia «Siamo stati premiati per l'esportazione degli agrumi –risponde, didascalico, il Presidente guardandomi fisso come a prevenire altre domande-, siamo una cooperativa indipendente, abbiamo fatto l'interesse dei nostri soci sotto i regimi che si sono succeduti in Spagna, e continueremo anche in futuro a fare l'interesse dei nostri soci. A Madrid -scandisce le parole per essere sicuro della mia comprensione- non ci andiamo spesso, e quelli di Madrid a noi pensano ancora meno spesso.»
Le domande dopo
Estraggo il taccuino mostrando di voler rivolgere una domande: «Sin veer no puede preguntar nada. Debia venir manana. Doveva venire domani, senza vedere è inutile fare domande, sono inutili!” Poi, sempre col gesto autorevole, ci invita a lasciare l’ufficio, ci riconduce allo scalone, sempre armeggiando con il mazzo di chiavi per chiudere le porte che lasciamo alle spalle, chiede dove abbiamo lasciato la macchina, la raggiungiamo, qualche imperioso «atencion» ai semafori, e ci troviamo allo stabilimento dove abbiamo ricevuto la prima indicazione. Ossequi al Presidente da parte dell'ometto che ci ha indirizzati alla ricerca di don Alfredo, un sorriso gentile e soddisfatto verso di me, e iniziavamo il più inarrestabile carosello attraverso silos, essiccatoi, officine, catene di lavorazione di frutta, magazzini di imballaggi, uffici e studi tecnici che il mestiere di reporter agricolo mi abbia mai portato ad effettuare. Inseguendo il Presidente che, col viatico dell'onnipotente mazzo di chiavi, apre un varco tra porte e cancelli, cercando di seguire un filo di conversazione e annotare sul taccuino, appoggiandomi a un cumulo di casse o al cofano di un trattore, qualche appunto, quel poco che il moto perpetuo di don Alfredo mi consente di fissare con la penna. Vorrei quantificare l'entità del movimento di derrate che si sviluppa tra quei silos, quei magazzini, quelle catene di selezione, ma nelle spiegazioni del Presidente le arance portate dai soci sui carretti si trasformavano in cassette, vagoni, in convogli ferroviari ad un ritmo tale che fissare un numero nella girandola delle cifre risulta impresa superiore alle capacità di chi non ha mai sofferto di lentezza ad appuntare numeri e dati. Quando il Presidente percepisce le mie difficoltà si arrestava un momento, ma non per aiutarmi: «Avrebbe dovuto venire domani: domani sarà tutto in movimento, da domattina alle sei qui lavoreranno 300 donne. In piena stagione spediamo anche 80 vagoni al giorno, ma senza vedere non si può capire.» E di nuovo fugge, e noi a inseguirlo, e cercando di perdere quanto meno sia possibile del fantastico mondo della cooperativa del Sagrado Corazon. A vedere lo stabilimento, sottolinea, con orgoglio, davanti alle apparecchiature più moderne, sono venuti da tutti i paesi, Italiani, Francesi, Arabi, Rumeni, e persino, sottolineava, i Comunisti cinesi. Nella passione alimentata dalla vista degli impianti, la lingua del mio ospite si sta, intanto, allontanando sempre più dal Castigliano convertendosi sempre più inequivocabilmente in Valenziano, che a me, sfortunatamente privo di dimestichezza con la favella delle regioni del Mezzogiorno che possono capire il Valenziano “come lingua di casa” impone difficoltà di comprensione sempre più gravi: in difficoltà con il Castigliano, in Valenziano el sen^or Presidente rischio di non capirlo più. E siccome mia moglie, meno interessata al significato di quanto don Alfredo sta spiegando, per cortesia annuisce sorridendo, il Presidente si rivolgeva sempre più a lei e sempre meno a me, che tento sempre più debolmente di riportarlo al Castigliano; a un Castigliano tanto elementare da risultare comprensibile a chi ha studiato la grammatica spagnola in dieci giorni.
Visitiamo, attraversandole con scalette e sottopassaggi, tutte le catene di selezione «Ma è solo quando sono in funzione che si può capire come lavorano, peccato che non sia venuto in un giorno di lavoro». Dopo il grande percorso ad ostacoli tra porte e cancelli che si sono aperti al mazzo di chiavi simbolo dell’onnipotenza presidenziale, considerando terminata la visita, ci concede una pausa. La pausa di un attimo: fissandomi con tutta la penetrazione degli occhi di vecchio capo per controllare l'effetto che il complesso ha suscitato nel visitatore: «Tutto questo lo abbiamo fatto esclusivamente con le nostre forze -proclama scandendo le parole- siamo una società di piccoli proprietari lavoratori, una società indipendente che mira a un obiettivo solo: fare l'interesse economico dei soci». Ancora lo stesso gesto di comando, risaliamo in macchina, riattraversammo il paese, immerso ormai nell'oscurità della sera divenuta piovosa, e ci ritroviamo nello studio, con i vecchi mobili e la fotografia del Presidente col Caudillo. «Nunca puede preguntar» «Ora può fare domande» Propongo la prima, ma le risposte, adesso che è convinto che lo riesca a seguire, fluiscono dalla sua bocca in tale pirotecnia valenziana che dopo qualche tentativo, peraltro timido e malcerto, di resistenza, abbandono il confronto rinunciando a ogni resistenza. Il Presidente del resto non parla più a me, si rivolge a mia moglie, che, irretita dal fascino del vecchio patriarca, sorride compiaciuta a discorsi di cui non capisce neppure una parola.
Piccoli lavoratori indipendenti
E capire significherebbe impadronirsi dell’universo della Cooperativa, della sua storia, dei suoi scontri, delle sue conquiste, capire i rapporti sociali nelle campagne di Valencia, l'urto dell'industria in espansione nell'antico tessuto rurale della costa mediterranea. Alle sette tento di far capire al Presidente che abbiamo visto e conversato abbastanza, che non voglio che mi dedichi la sera. Farglielo accettare non è facile; ora ha tante cose da dirmi. Alla fine mi alzo, si alza anche lui: ci vuole con sé al bar dove brindiamo con un Martini, poi ci conduce, con cortesia presidenziale, alla porta principale, che apre ancora con il mazzo delle chiavi del potere. Un inchino a mia moglie, una stretta di mano carica di autorità: «E ricordi per sempre che ha visto quello che ha realizzato, con le proprie forze, una società di 4300 piccoli proprietari lavoratori, una società indipendente, che mira unicamente all'interesse dei soci. Lo ricordi tornando a Madrid, dove per noi non hanno mai fatto niente. Quello che abbiamo costruito è tutto opera di piccoli proprietari lavoratori.»
TERRA E VITA n. 11, 18 marzo 1978