Affronti e Confronti/XVIII
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XVIII
«Buonasera, signore e signori. Da una settimana stiamo trasmettendo alcune puntate speciali di Affronti e confronti. In genere, abbiamo l’abitudine di intervistare ogni sera, dal lunedì al venerdì, una persona diversa. Questa volta, però, da una settimana stiamo intervistando la stessa persona. Si tratta di Enea Galetti, un simpaticissimo non vedente di quarant’anni. Lo abbiamo messo a confronto con numerosi argomenti ed il risultato è stato ottimo. Ha espresso opinioni politiche, ci ha introdotto nel mondo dei non vedenti e, per quattro sere, ci ha intrattenuto su altri avvenimenti, ricordandoci tra l’altro le canzoni in classifica. Vedo, signor Galetti, che a lei le canzoni piacciono!».
«Sì, dottor Biagi. Quelle erano le canzoni della mia epoca, le colonne sonore della mia vita».
«A questo proposito, le chiedo se ha mai pensato di partecipare ad un quiz o ad uno di quei programmi dedicati appunto alla musica». «Sì, ci ho pensato, ma solo qualche volta. Guardando i vari quiz da casa, mi sono reso conto di sapere molte cose, ma, innanzitutto, occorre una preparazione eccezionale per parteciparvi, sia in modo generico, sia sulla propria materia, nel mio caso specifico, potrebbe essere quella della musica e delle canzoni; io non sono preparato al punto da indovinare il titolo di canzoni ascoltando magari anche solo una nota, come sanno fare alcuni. E poi c’è sempre il solito discorso: da casa le risposte si sanno, mentre in tv anche le persone più preparate – non solo per ciò che riguarda le canzoni – si emozionano e si bloccano».
«Immagino che dopo questa intervista si sia un po’ stancato, ma, nonostante tutto, ha reagito molto bene. A proposito, come ha trascorso la settimana ed il weekend?».
«Benissimo, dottor Biagi. Per quanto riguarda la sua intervista, lo ammetto, ho fatto un po’ fatica a parlare davanti a migliaia di ascoltatori, ma è stata per me una grande gioia. Poi, come giustamente ha detto lei, mi sono rilassato durante il fine settimana. E questo grazie a Leandro e ai miei nuovi amici». «Mi scusi, signor Galetti. Chi è Leandro?». «Leandro Portici è il mio accompagnatore. Ha 26 anni e da qualche mese presta il suo servizio di volontariato civile presso l’Unione Italiana Ciechi di Roma».
«Ah, sì. Ora ricordo. Domani intervisteremo anche lui, nella nostra ultima puntata, che, vi ricordo, andrà in onda alle quindici e durerà circa un’ora e mezza».
«Mi scusi, dottor Biagi, ma perché proprio a quell’ora?».
«Lo saprà domani sera. Ma ora vorrei chiederle come ha trascorso il suo tempo durante questo soggiorno».
«Girando per Roma e dintorni».
«Signor Galetti, è appunto da tempo che volevo porle questa domanda. Che cosa può percepire un non vedente di un itinerario turistico, magari con guida? Mi spiego meglio. Un non vedente che con gli occhi non è in grado di vedere una foto, un’opera d’arte, un quadro o una scultura, come si comporta? Mi scusi, ma con questa domanda non voglio offenderla e, anzi, le confesso che mi sento un po’ imbarazzato nell’avergliela posta».
«Lei non mi offende affatto, soprattutto perché questo discorso ci consentirà di fare una lucida analisi su quanto ho detto nella prima puntata. Se ben ricorda, dottor Biagi, abbiamo affrontato il discorso di come un non vedente si pone di fronte al proprio stato di cecità. Prima di risponderle, le faccio l’esempio di un mio amico che ha perso la vista in tarda età. Se lui si sente descrivere qualcosa che ora non è più in grado di vedere, si offende di brutto e, anzi, reagisce quasi violentemente, perché la descrizione di un’immagine, o di un fenomeno atmosferico o stellare, quale il sole, la luna, l’arcobaleno, o i colori di persone o cose, lo infastidiscono e a nulla gli giova una descrizione fatta per bocca di altri.
Tornando a me. Io, al contrario, non ho mai visto niente ed il fatto che qualcuno mi descriva qualcosa, mi dona un immenso piacere, perché mi fa immaginare ciò che non vedo. A questo proposito, anche se la mia immaginazione non dovesse arrivarci, ho sempre dentro di me la consapelolezza che quella persona si è data da fare per descrivermi ciò che ha appena visto. A volte capita che non mi rimane in mente nulla di tutto ciò che mi ha descritto. A questo punto, dottor Biagi, lei potrà pensare che quella persona si possa sentire inutile. Invece no, perché, in ogni caso, se anche non mi rimanesse impresso nulla, c’è pur sempre stata la volontà del mio interlocutore di prestarmi per così dire la sua vista, volontà che per me è sacra».
«Quindi, se io le chiedessi come mi immagina, le chiederei troppo?». «Beh, dottor Biagi, la domanda mi susciterebbe un po’ d’imbarazzo, perché non avendo una percezione visiva, come pure la nozione sui colori, non sono assolutamente in grado di descrivere una persona. Certo, se lei mi desse il braccio, tutt’al più potrei descriverle la statura, o dire se una persona è grassa o magra, ma non oltre».
«Quindi lei non è in grado di immaginare un colore o una sua sfumatura». «No, dottor Biagi. Un giorno, era il 5 dicembre del 1980, qualcuno – di cui non faccio il nome, ma le assicuro che si è trattato di una persona a me molto cara, purtroppo scomparsa – mi ci fece pensare ai colori, ma anche lì, l’idea che mi son fatto è stata molto approssimativa. Ho dovuto, cioè, tentare di mettere in relazione i colori a suoni e sensazioni.
Ad esempio, il rosso lo paragono ad un rumore penetrante e potente, come il rumore di un trapano mentre buca una qualsiasi superficie, o ancora, al rossore che appare sulla pelle quando questa è irritata; il verde lo immagino molto rilassante, fresco, come la menta, o il rumore del vento o del mare quando è calmo, ad una piacevole profumazione; del giallo non ho alcuna nozione; il bianco come qualcosa di non vivace; il nero a musiche particolarmente tristi e spaventevoli. Quindi, io il verde lo paragono a qualcosa di piacevole rispetto agli altri colori. Per il verde penso anche a gradevoli melodie, come ad esempio, la sonata Al chiaro di luna di Beethoven. Per il resto non ho altre nozioni. Immaginare una persona, anche se la voce la sento tante volte, mi risulta impossibile».
«E per ciò che riguarda i sogni, che cosa immagina di vedere?».
«Nulla, dottor Biagi. Sono pochissime le persone che mi hanno posto questo quesito, ma la cosa può essere molto interessante, perché rivela ancora una volta la differenza tra coloro che non vedenti ci sono diventati, e coloro che come me lo sono sin dalla nascita. I primi anche se ormai non ci vedono più, nel sogno riescono comunque a vedere; quando poi si risvegliano, devono, purtroppo, fare i conti con la loro triste realtà. Ancora una volta, dottor Biagi, penso a quel mio amico di cui le ho appena parlato, perché riguarda proprio uno di questi casi, ma non mi soffermerò più a lungo, perché voglio rispettarne la privacy, qualora lui o la sua famiglia mi stessero ascoltando in questo momento».
«Signor Galetti, lei a quanto vedo ha una buona cultura. Nelle precedenti puntate abbiamo parlato anche dei suoi impegni e svaghi. Oserei quasi dire che lei non soffra particolarmente la solitudine».
«La solitudine la provo anch’io, naturalmente. Inoltre, le dico che vivere nelle mie condizioni di non vedente non è particolarmente facile. Io ho passato momenti della mia vita davvero pesanti, ma, grazie ai durissimi sacrifici di mia madre e grazie a Dio sono quello che sono e, come tutti, mi sono impegnato formandomi una cultura.
Partiamo dall’inizio. Al momento della mia nascita erano trascorsi diciannove anni dalla fine della guerra. Se gli anni Cinquanta furono per la ricostruzione, i successivi anni Sessanta furono gli anni in cui il progresso cominciava a materializzarsi. Io nacqui nel 1964. La televisione era stata inventata dieci anni prima. Gli italiani già cominciavano a possedere un apparecchio televisivo. Esistevano inoltre radio molto grosse che presto si sarebbero trasformate in radio di media dimensione e radioline. Nelle case degli italiani arrivavano gas, metano ed elettricità, il televisore, il frigorifero, la lavatrice, e lo scaldabagno. Insomma, i primi indispensabili elettrodomestici.
Per ottenere l’allacciamento della linea telefonica, a volte ci volevano anni. Per pagare si usavano le cambiali.
Qualcuno possedeva l’automobile, il giradischi e lo stereo, ma erano beni molto costosi ed erano in pochi ad averli. Il magnetofono stava per cedere il posto ai più comodi registratori a cassetta, mentre nei bar la musica veniva ascoltata attraverso i jukebox. Sempre nei bar non esistevano i videogiochi di oggi. Vi erano solo il biliardo, il calcetto ed il flipper. Negli uffici non esistevano di certo i computer, ed anche il cervello elettronico – un macchinario di mastodontiche dimensioni – era una rarità assoluta, quasi sconosciuta. Al suo posto vi erano le macchine per scrivere. Ma perché le sto parlando di questo? Perché dal momento della mia nascita sono rimasto a R. per pochissimo tempo.
Poco dopo andai ad abitare in una cascina dove vissi circa tre anni, poi in un’altra. Infine, di nuovo in paese.
L’ultima cascina nella quale ho vissuto me la ricordo davvero bene. Vivere in cascina, anche se a soli tre chilometri dal paese, voleva dire essere isolati. Inoltre io avevo gravi difficoltà motorie. A dire il vero adesso ne ho ancora qualcuna, ma non in modo così grave come allora, quando, specialmente nei primi anni, riuscivo a stare in piedi a stento. Inoltre i miei genitori rinunciavano al telefono o all’acqua calda in casa, perché il giorno in cui saremmo nuovamente ritornati in paese era vicino. Rimanda oggi, rimanda domani, ho vissuto in quella cascina quindici anni e mezzo. Ho dovuto anche penare non poco per venire ad abitare in paese. Non sto a descriverle cosa accadde, perché in televisione non voglio essere oggetto di polemiche.
Torniamo quindi a quell’epoca.
Nel 1970 entrai all’Istituto dei Ciechi di Milano, dopo mille difficoltà.
Qui, vi frequentai l’asilo e le scuole dell’obbligo, per un totale di nove anni, durante i quali rimasi a Milano per tutta la settimana, venendo a casa solo nei weekend. Mia madre mi fu particolarmente vicina. Lo fu anche mio padre, ma fu soprattutto lei a prendere in mano la situazione. Ogni volta lasciavo casa per ritornare in collegio tra pianti e singhiozzi. Uscivo dal collegio che ero gioioso e vi ritornavo che ero triste. A volte mia madre mi avvertiva che quel sabato non sarebbe venuta a prendermi e, in quel caso, capitava che venisse la domenica mattina presto per passare con me la giornata intera, ma, per quanto ne fossi contento, non era mai la stessa cosa.
A queste difficoltà se ne aggiunsero altre. Mangiavo pochissimo. Gli assistenti fecero di tutto, anche a costo di imboccarmi, ma quando non ce la facevano più, e questo capitava molto spesso, finivano col mandarmi in infermeria.
Per molto tempo fui convinto di avere veramente la febbre, ma quando capii che non era vero, chiesi ai miei genitori di fare in modo di tornare a casa tutte le sere, ma ciò non fu possibile. Fu così che iniziai a fare le mie birichinate, al solo scopo di indispettire gli assistenti, ma, soprattutto, di vendicarmi.
Ciò avvenne ad esempio nel 1971, quando entrai in prima elementare. Oltre a questo, ebbi serie difficoltà nell’apprendimento del Braille. Nonostante ciò, Dio solo sa come io riuscissi ad insegnarlo a mia madre. Poi, in terza elementare, iniziai a studiare il pianoforte, sempre tra mille problemi, dovuti, questa volta, alla tensione negli arti. Intanto le mie birichinate continuavano, sia in classe, sia in reparto. Il 15 agosto 1975, un venerdì, ricevetti la mia prima comunione a M. – il paese di origine di mia madre – e nello stesso giorno fui cresimato in un altro paese non molto lontano. Stando agli assistenti, avrei potuto ricevere la mia prima comunione un anno prima, ma mia madre si era opposta. Dunque, il 15 agosto del 1975 ebbi anche l’occasione di leggere alcuni passi di un brano in chiesa.
Questo episodio ebbe delle conseguenze, fortunatamente gioiose. Alcune settimane dopo ritornai in quella cascina vicino a R., e di lì a poco feci la mia seconda comunione. Anche in quell’occasione ebbi modo di leggere in chiesa. Di lì a tre mesi – si stava infatti avvicinando il Natale –, il nuovo parroco volle inaugurare il suo primo anno in parrocchia facendomi nuovamente leggere. Qualche settimana dopo, a partire dal nuovo anno, alcune persone vennero a prendermi per portarmi in oratorio. Due mesi dopo tutto fu sospeso.
Passarono altri mesi e ricominciarono a venirmi a prendere.
Nello stesso anno – era il 1976 – entrai in prima media, dove, fra le varie materie, imparai la dattilografia e, soprattutto, l’inglese. Poi, nel 1978, le cose si complicarono, perché mio padre morì. Fu mia madre a prendere in mano la situazione.
Dovetti sostenere l’ultimo anno di collegio. Qualche mese più tardi affrontai un periodo di depressione, tanto che decisi di farmi bocciare, ma, fortunatamente, non fu così, perché mi ripresi non senza fatica. Prima di uscire definitivamente dal collegio, poco prima degli esami, gli assistenti mi proposero di trattenermi, insieme ad alcuni miei compagni, in occasione degli esami di terza media. Per la verità quelli erano giorni di recupero, quindi facoltativi, perché, nel frattempo, la scuola era finita. Ma io non volli saperne ed ottenni in quindici giorni ciò che non ero riuscito ad ottenere fino ad allora: ritornare a casa tutte le sere. Superai brillantemente gli esami e finalmente, quel brutto capitolo si chiuse.
Nella vita di collegio, però, vi furono due aspetti positivi. Il primo fu lo spirito di aggregazione, che ci permetteva di stare insieme e di trascorrere la nostra giornata a scuola e nel tempo libero. Il secondo fu che il collegio mi stimolò un senso sempre più crescente di sapere le cose, tanto che mio padre diceva che per me ci voleva il cervello elettronico. Poi, quando riconobbe di aver esagerato con quella frase, si limitò a dire che quanto meno ci voleva un’enciclopedia o, se ciò non fosse stato possibile, un vocabolario d’italiano.
Nell’estate del 1979 ebbi una prima esperienza di pellegrinaggio: andare a Lourdes in treno, con mia madre, assieme ad un gruppo di persone.
Poi, a settembre, iniziai a frequentare una nuova scuola a Pavia. A detta dell’assistente sociale dell’Istituto dei Ciechi di Milano, mi sarei trovato molto bene, perché i miei nuovi professori, non solo erano contenti di avere nella loro scuola un non vedente, ma, anzi, ne avevano già avuti altri. Quest’ultima cosa sui non vedenti in classe non era affatto vera.
La preside si immaginava mille difficoltà, che però ben presto furono superate.
Fu così che approfondii la mia conoscenza dell’inglese e, come nuova lingua, iniziai a studiare il francese. Per ciò che riguardava la trascrizione dei compiti in classe – i professori, infatti, non conoscevano il Braille – mi servii della macchina per scrivere. All’inizio di quell’anno scolastico fui seguito dalla mia prima lettrice – oggi diremmo insegnante di sostegno – di nome Rachele Vecchio, il cui compito, oltre che seguirmi nello studio una volta tornato a casa da scuola, fu quello di trascrivere i libri in Braille in modo da poter seguire le lezioni in classe. L’anno seguente, era il 1980, fu la volta di Cristina Mazza, una studentessa iscritta alla facoltà di Lettere e Filosofia, che si laureò nel 1986, quasi in coincidenza col periodo in cui terminai di frequentare le scuole superiori.
Cristina mi seguì per sei anni ma, oltre a seguirmi negli studi come aveva già fatto Rachele, fece qualcosa di più. Avendo capito che la mia preparazione si limitava solo allo studio delle lingue, dopo avermi fatto un corso accelerato di letteratura italiana, mi avviò alla lettura di numerosi libri, in particolare quelli classici. Devo ringraziare Cristina se oggi la lettura mi appassiona ancora tanto. Nel 1982 terminai gli studi in quella scuola di Pavia. Conseguii il diploma di corrispondente commerciale in lingue estere; nel 1980, inoltre, presso la stessa scuola, conseguii anche un attestato di dattilografia. Sempre nel 1982 proseguii i miei studi in una scuola per interpreti a Milano.
Il 1983 fu l’anno più negativo della mia vita. Non sto a descriverle tutti i guai che passai in quell’anno. Mi limiterò solo a dire – ma molto di sfuggita – che ottenni la famosa casa a R., ma a quale prezzo morale! In ogni caso, nel 1984 venni ad abitarci e, nonostante i precedenti momenti di solitudine, mi ci abituai ben presto.
Ora avevo tutte le comodità delle quali, in precedenza, fui privato per anni.
Intanto proseguii i miei studi.
Nel 1985 il preside della scuola per interpreti mi consigliò di prendere l’attestato di interprete e traduttore, frequentare una scuola di lingue in un unico anno, durante il quale avrei potuto conseguire il diploma di maturità e, quindi, ritornare presso la scuola interpreti dove, a seguito di un esame, avrei trasformato quell’attestato in un vero e proprio diploma. A detta del preside, a cosa avvenuta, avrei potuto proseguire gli studi frequentando un corso per programmatori elettronici all’Istituto dei Ciechi di Bologna, tanto che mia madre si dichiarò disposta a seguirmi. Ma io, memore di una lunga e triste esperienza in collegio – della quale ho già raccontato – non volli saperne.
Ecco ciò che accadde. Nel 1985 al temine della scuola per interpreti mi iscrissi presso una scuola per operatore turistico dove, nel 1986, conseguii brillantemente la maturità. Di tutte le prove sostenute, dottor Biagi, ricordo di avere fatto un tema della lunghezza di otto facciate a protocollo. Poi, seguendo il consiglio del preside della scuola interpreti, ritornai, feci un duro esame e mi rilasciarono il famoso diploma per interpreti e traduttori.
Successivamente mi iscrissi al corso per centralinisti, un corso che ebbe fine nell’estate del 1987.
A questo punto si inseriscono due avvenimenti particolarmente importanti, con la complicità di mia madre. Il primo fu il mio ingresso nel coro parrocchiale della Schola Cantorum, dove entrai come basso. Il secondo riguarda la ripresa dello studio del pianoforte. Lei deve sapere, dottor Biagi, che iniziai a studiarlo a partire dal 1973, anche se in modo discontinuo, a causa delle mie difficoltà manuali. Poi, a partire dall’estate del 1978 gli studi furono bruscamente interrotti, perché mancava l’insegnante che avrebbe dovuto seguirmi.
Nel febbraio del 1988 iniziai a lavorare come centralinista presso l’Università degli Studi di Milano. Tre giorni dopo fui rimandato a casa, per il disbrigo di alcune pratiche necessarie per un’assunzione regolare. Mi venne assicurato che tutto si sarebbe risolto nel giro di un mese, ed invece trascorse poco più di un anno, durante il quale alcuni miei amici non vedenti mi prospettarono la possibilità di frequentare un corso di computer retribuito presso l’Istituto dei Ciechi di Milano. A questo proposito devo aprire una parentesi. Ho giù raccontato che secondo le idee del preside avrei potuto frequentare un corso per programmatori elettronici a Bologna, ma, come ho già detto non volli andarci. Mi scambiarono per matto, sia perché avevo rinunciato alla lontananza da casa per una scelta così importante, sia perché andavo dicendo in giro che le tecnologie concesseci a quell’epoca erano troppo obsolete. Io, infatti, sostenevo – e fu qui che mi diedero del matto – che sarebbero arrivati tempi migliori, in grado di soddisfare al meglio le nostre necessità, quelle dei non vedenti come me, intendo. Non esclusi che la tecnologia per noi avrebbe fatto continui progressi, come pure non esclusi che quegli stessi corsi si sarebbero svolti presto anche nella sede di Milano. Nell’ottobre del 1985 entrai in una scuola per operatore turistico dove, come già detto, conseguii la maturità l’anno successivo e fra le altre cose feci un corso di computer – badi bene, dottor Biagi – senza che né la professoressa né io fossimo a conoscenza degli sviluppi tecnologici a noi dedicati. Nell’aula vi erano sette computer per tredici persone e l’insegnante, sicura delle mie capacità mnemoniche nel ricordare la sequenza dei numerosissimi comandi – all’epoca, infatti, il mouse non veniva utilizzato perché si usava la tastiera, non essendoci alternative –, ordinò ai miei vicini di banco di darmi la precedenza nell’utilizzo del computer. È così che nel 1988 feci quel corso retribuito, dove, fra le altre cose, imparai a sfruttare al meglio i sussidi tecnologici che mi vennero offerti a quell’epoca.
Poi, nel 1989, fui costretto ad interromperlo, perché, finalmente, venni chiamato dall’Università degli Studi di Milano. Non ci fu tempo da perdere. Iniziai subito a lavorare.
Nello stesso anno vi furono anche altri avvenimenti non meno importanti. In quello stesso periodo tra i ragazzi dell’oratorio fu sollevata la questione di chi potesse dare la propria disponibilità nel venirmi a prendere la domenica. Da quando iniziai ad abitare in paese, infatti, vi fu una sola persona. Da allora trascorsero cinque anni e, finalmente, arrivò il giorno in cui venne costituito un gruppo di persone che, a turno, venissero a prendermi. Quello sì, che fu un grande avvenimento, sia perché la cosa va avanti ancora oggi – anche se in modo ridotto –, sia perché fu il grande passo che mi diede la possibilità, grazie a queste persone, di un vero inserimento nella vita sociale del paese in cui vivo, e nel quale sono orgoglioso di abitare.
Desidero, a questo proposito, fare il nome di questa persona. Si tratta di fra Damiano Ferrario, un mio carissimo amico, la cui amicizia, già all’epoca di antica data, continua ancora oggi, nonostante la distanza che ci separa. Fu lui ad occuparsi di me. Oltre a venirmi a prendere la domenica e a far nascere l’iniziativa della quale ho appena parlato, mi ha dedicato gran parte del suo tempo libero, venendomi a trovare anche in altri giorni, salvo impegni. Memorabili sono i pomeriggi del giorno di Natale, durante i quali trascorrevamo insieme alcune ore a giocare con uno speciale biliardino da tavola, realizzato in maniera artigianale per i non vedenti, ma con il quale possono giocare anche le persone normodotate. Altre volte, invece, preferivamo il gioco dell’oca.
Di fra Damiano ci sarebbero ancora tante cose da dire, anche dopo che alcuni anni più tardi andò in seminario per diventare frate. Nel 1991 incontrai Sergio, con il quale ci fu subito amicizia. Anche lui si è occupato e si occupa tuttora di me, ogni qualvolta se ne presenti l’occasione.
Voglio scusarmi con lei, dottor Biagi, e con i telespettatori, ma queste cose le ho dovute raccontare, fermo restando il fatto che ho anche altri amici, dei quali si potrebbero raccontare davvero tante cose. Un altro avvenimento non trascurabile fu l’iniziativa dei Concerti d’Autunno che ogni anno si ripete. Si tratta di una serie di concerti di musica da camera – esattamente tre, ovvero per tre sabati di fila una volta all’anno nel mese di novembre – che mi hanno permesso di scoprire il mondo della musica classica. Stranamente io che suonavo il pianoforte da due anni anche se andavo a sentire quei concerti non mi sentivo più di tanto attirato. Ci vollero ancora altri anni di ascolto e di studio perché coltivassi – o iniziassi a coltivare – una vera passione per la musica classica.
Nel 1990 entrai a far parte del giornale dell’Università in qualità di inventore di rebus; alcuni mesi dopo feci la stessa cosa per il giornale della mia parrocchia, ma questa volta, la collaborazione durò più a lungo con varie rubriche, tra cui quella delle ricette di cucina, delle quali – non mi vergogno a dirlo – non ne ho provata neppure una». «Mi scusi se la interrompo, signor Galetti, ma questo non è affatto vero. Ci spieghi cosa accadde con la torta».
«E lei, come lo sa, dottor Biagi?».
«Noi giornalisti sappiamo tutto e le assicuro che ho appreso la notizia da fonti bene informate, ma vorrei che fosse lei a raccontarci quell’episodio divertente!».
«Beh, dottor Biagi. Divertente mica tanto! Accadde che alcuni mesi dopo aver iniziato la mia rubrica gastronomica, una signora mi diede la ricetta per preparare una torta. Ora, la moglie del sagrestano pensò bene di preparare la torta al marito, così come io avevo scritto. Io, infatti, avevo provveduto a trascrivere la ricetta esattamente come mi fu data. E qui cominciarono i guai, perché il sagrestano mangiò una torta durissima, facendo le facce più strane.
Lei lo disse al parroco, ed il parroco alle suore, con grandi risate di tutti, finché una sera le suore invitarono il parroco, il sagrestano con la moglie, nonché mia madre e me, a mangiare la torta di quella ricetta, che risultò però essere morbidissima. Le suore, infatti, di fianco agli ingredienti avevano scritto: “Aggiungere un bicchiere di latte”, la qual cosa fu fatta. Alcuni mesi dopo incontrai quella stessa signora che mi aveva dato la ricetta. Effettivamente nel consegnarmela affinché potesse essere trascritta aveva dimenticato, come ingrediente, proprio il latte.
Un altro avvenimento del 1990 di fondamentale importanza riguarda una festa organizzata dal presidente di quel giornale universitario dove per lungo tempo ho pubblicato i miei rebus. Questa persona, per tutti i dipendenti dell’Università, ha organizzato per alcuni anni una manifestazione intitolata Mens sana in corpore sano, un evento che ha visto premiare personaggi, soprattutto nel mondo dello sport, indenni da sostanze dopanti. Nella prima edizione del 1990 ebbi modo di conoscere il rettore di allora, il professor Paolo Mantegazza. Non è certo la prima volta, dottor Biagi, che nel corso di questa trasmissione faccio nomi di persone che conosco, ma ho voluto farlo ancora una volta perché la persona in questione è famosa e, soprattutto, perché ha avuto per anni una parte molto importante nella mia vita lavorativa. In particolare è intervenuto più volte, a partire dal 1991, nella gestione degli accompagnamenti.
Ora, ormai da anni, il professor Mantegazza non è più rettore dell’Università degli Studi di Milano, ma ogni volta che mi incontra mi ferma sempre per scambiare qualche parola e per mandare i suoi saluti a mia madre. Lo stesso atteggiamento che ha sempre avuto nei miei confronti anche quando era rettore.
Verso la metà del 1991 ricevetti un attestato per aver frequentato sin dal 1989 un corso per diventare catechista. Nel 1992 ebbi un’altra esperienza importante, grazie ad un pellegrinaggio parrocchiale a Fatima. Ufficialmente quello fu l’ultimo pellegrinaggio o, per lo meno, uno degli ultimi. La prima volta fu nel 1979, quando andai a Lourdes in treno. Vi ritornai di nuovo – questa volta in aereo – nel 1988 e quello fu il mio primo battesimo di volo. Due anni dopo vi ritornai – il caso volle – nello stesso albergo di due anni prima. Poi vi ritornai di nuovo nel 1991. Ma, come ripeto, fu il 1992 che diede la svolta ad una serie di avvenimenti. Per la prima volta partecipai ad un pellegrinaggio itinerante e ciò contribuì a migliorare la mia cultura in fatto di turismo e geografia.
Un’altra data da ricordare riguarda il 28 gennaio del 1993. Per la prima volta mia madre sperimentò la possibilità di portarmi al mare d’inverno. Si era così chiusa la stagione dei pellegrinaggi e si era aperta quella dei soggiorni marini. Anche questa esperienza fu particolarmente importante perché fu l’occasione per me di recarmi in diverse località. Per alcuni anni, infatti, veniva cambiata la destinazione del soggiorno, con la possibilità anche di recarmi in gita in varie località che non sto ad elencare, ma che hanno consolidato la mia cultura turistica. Al momento, questa splendida stagione continua ancora oggi.
Sempre nel 1993 una mia amica mi disse che i suoi alunni di catechismo volevano conoscermi; fu così che mi portò nella parrocchia vicina al paese in cui abito. Per tre anni, ovvero finchè non cambiò il parroco, la seguii nel catechismo come suo aiutante. Io, infatti, avevo frequentato, dal 1989 al 1991, un corso per catechisti. Sempre nel 1993 entrai a far parte del coro giovani della parrocchia in cui abito.
Nel 1995, durante il mio soggiorno in Abruzzo, ci capitò di partecipare per due giorni ad una gita in Puglia. In particolare andammo a San Marco in Lamis, San Giovanni Rotondo, il paese di San Pio da Pietrelcina, a San Nicola di Bari, a Castellana – dove visitammo le famose grotte – e ad Alberobello.
Un anno dopo ci recammo per la prima volta negli Stati Uniti, presso mio zio, emigrato dall’Abruzzo molti anni prima. Vi trascorsi un mese, fatto di gite, svaghi, incontri con persone conoscenti di mia madre – le quali, a loro volta, si erano trasferite negli Usa – e incontri con persone nuove. Fu per me anche l’occasione per mettere in pratica la mia conoscenza della lingua inglese. Non sto a descriverle le difficoltà che incontrai nel parlarla in un paese dove si parla l’americano. Sta di fatto che, ormai prossimo al ritorno, riuscii finalmente a capire quasi bene l’accento americano; ma ormai la partenza era prossima. Anche alcuni mesi fa ho avuto modo di recarmici, ma questa volta solo per due settimane.
Nel 1998 acquistai il mio primo cellulare. Lei, dottor Biagi, si chiederà come mai mi prema sottolineare questo avvenimento. Glielo spiego subito. Lei deve sapere che tre anni più tardi – nel settembre del 2001 – la Tim e l’Unione Italiana Ciechi hanno stipulato un accordo consistente nel concederci gratuitamente una speciale sim che ci permette di utilizzare i comuni sms in formato vocale. In particolare la possibilità, solo per noi, di inviare e ricevere i messaggi di testo in forma vocale. Ogni tanto c’è qualche piccolo difetto, ma, tutto sommato, va bene.
Unica condizione nell’impiego di quella scheda era quella di cambiare il telefonino, scegliendo il modello che si adattasse a questa nuova necessità così importante. Acquistai per l’occasione il telefonino nuovo senza rimpianti, anche perché quello vecchio, ormai, non funzionava più e si spaccò – volle il caso – proprio in quei giorni. Certo, anche se non si fosse rotto, lo avrei acquistato lo stesso. Nel 2002 feci domanda per ottenere il computer con speciali supporti a noi dedicati. Guarda caso, in quello stesso periodo, il coordinatore dell’Assiciazione Disabili in Università mi propose di fare un corso. Era ciò che ci voleva.
Poi, quando Dio volle, il computer arrivò anche a casa mia. In breve tempo imparai molte cose, non esclusa quella di navigare in internet, una risorsa, quest’ultima, alla quale tengo molto per soddisfare le mie numerosissime curiosità. Il computer riuscì a cambiare il mio stile di vita e perfino i rapporti con la redazione del giornale parrocchiale, tanto che nel 2003 iniziai a cambiare la modalità di scrittura degli articoli; fino a quel momento ero costretto ad adoperare una normalissima macchina per scrivere. Sul giornale, per lunghi anni, mi ero dedicato a rubriche gastronomiche, di enigmistica e di musica classica e leggera. Questa volta diedi una svolta decisiva, curando una rubrica dedicata al mondo dei non vedenti e ciò grazie al computer che, fra le altre cose, mi rese completamente autonomo, senza l’aiuto d’altri. Se avessi utilizzato la macchina per scrivere avrei dovuto pensare prima di scrivere e forse avrei dovuto strappare e ristrappare i fogli che avevo già scritto per rifarne altri in modo corretto più e più volte.
Spesso noi ci lamentiamo per come sta andando il mondo, ma molte volte io penso anche alla dignità che noi non vedenti abbiamo acquisito nel corso di decenni e alle tecnologie che ci vengono in aiuto. È proprio di questi giorni la notizia che un importante gestore telefonico – sto parlando di Tim – sta promuovendo l’iniziativa con la quale un non vedente può acquistare un telefonino il cui software permette a chi non vede l’utilizzo del cellulare in piena autonomia. Per la verità il software esisteva già da qualche anno, ma per il solo software occorrevano circa 150 euro. Ora, invece, il programma a noi dedicato è in omaggio, contestualmente all’acquisto di un telefonino compatibile e pare che in alcuni negozi vi sia la possibilità di usufruire di questa promozione su diversi modelli. Diversamente, occorre acquistare anche il software. Forse qualche non vedente lo ha già fatto, come ad esempio la persona non vedente che è in albergo con me, nonostante il prezzo un po’ elevato».
«E lei, signor Galetti, lo comprerà?».
«Al momento no. Preferisco aspettare ancora un po’, nonostante l’offerta sembri essere vantaggiosa. Forse col tempo i prezzi diminuiranno». «Bene, signor Galetti, anche per stasera abbiamo terminato. Ricordo ancora una volta che la puntata di domani sarà un po’ più breve e verrà trasmessa alle quindici. Con questo vi diamo la buonanotte».
Augurai anch’io la buonanotte. La trasmissione era terminata alle 23.17. Arrivammo in albergo in otto minuti.