Abrakadabra/Il dramma storico/XXVII
Questo testo è completo. |
◄ | Il dramma storico - XXVI | Il dramma storico - XXVIII | ► |
CAPITOLO XXVII
Disordine anarchico.
Non era cessata sull’area massima l’agitazione suscitata dalla Michel, quando una volante di alto cielo seguita da un centinaio di gondolette venne ad attraversare gli spazii sovrastanti all’agro. Un fragore come di tuono rimbombò nell’aria. Tutti gli occhi si levarono al cielo, tutte le braccia si distesero. Il rombo delle mitragliatrici pacifiche annunziava una scarica di telegrammi. Chi poteva dubitarne? Quei cartoncini pioventi dalle regioni eteree erano altrettanti elenchi di nomi, e quei nomi rappresentavano il risultato delle ultime elezioni. Il silenzio e l’immobilità regnavano nell’agro. Tutti leggevano con ansia, avidamente, come si trattasse per ognuno di un proprio, individuale interesse.
I duecentosessantacinque Comuni dell’Unione si erano pronunziati. Il partito degli spiritualisti aveva subito uno scacco completo; i naturalisti avevano guadagnato sessanta voti; duecento cinque eletti rappresentavano la schiacciante prevalenza del partito equilibrista.
I primi commenti della folla furono un mormorio di approvazione. I coscritti dell’agro tripudiavano.
In ogni tempo i giovani si lasciarono inconsideratamente trascinare dalle utopie esagerate.
Recava però meraviglia, anche a molti dei più enfatici aderenti al programma degli equilibristi, che la colta ed onesta famiglia di Milano avesse scelto a suo reggitore e rappresentante uno degli uomini più scandalosamente famigerati della Confederazione. Per succedere al compianto Berretta nella carica di Gran Proposto i milanesi avevano eletto Antonio Casanova. Il ragionamento degli elettori equilibristi era stato codesto: «Casanova è un furfante, Casanova è un falsario, Casanova è un barattiere da gioco; ma egli è il solo della triade che professi i nostri principii, e noi dobbiamo concordi e compatti votare per lui. Al disopra di tutto e di tutti, il trionfo del partito!»
L’Albani si sentiva umiliato.
— Se tu fossi riuscito — disse l’ingenuo quanto orgoglioso Primate stendendo la mano al Virey — avrei provato una grande soddisfazione. Tu sei migliore di me; nella tua elezione avrei ammirato il senno de’ miei concittadini e applaudito al trionfo della giustizia. Ma lui!... quel furfante! quel ladro!...
Il Virey crollò la testa sorridendo.
— Ladro! furfante! Chi tien conto di queste inezie? Il candidato non rappresenta che il congegno d’una locomotiva politica; che importa se questo congegno sia di vile metallo e lordato da ogni bruttura? Purché agisca sulle rotaie del partito, non si chiede di più. Accordando una specie di impunità agli eletti della nazione, i nostri sapienti legislatori hanno mostrato di saper interpretare lo spirito delle masse. Credilo, amico: le masse, analfabete od erudite, barbare o civili, saranno sempre cretine; correranno sempre dietro il carro del ciarlatano che batterà più forte la gran cassa. Ti fa meraviglia che un Antonio Casanova abbia trionfato di noi?
Mentre i due primati discorrevano nel frastuono dei commenti generali succeduti alla tacita sorpresa, da una torre di sorveglianza partì un razzo color porpora. Era un segnale di allarme. Tutti gli uffiziali e gli agenti di sicurezza pubblica si chiamarono a raccolta a mezzo dei soffietti acustici, e riunendosi in pelottone, si posero in marcia dirigendosi verso Broni. Una ciurma di equilibristi impaziente e fatta audace dall’esito delle elezioni, minacciava di realizzare immediatamente le utopie del partito, invadendo e saccheggiando le case degli abbienti privilegiati. Uno dei più reputati stabilimenti di pigiatura, occupato dai convalescenti più doviziosi e dalle etère più famigerate, era preso di assalto. I sopraintendenti e i subalterni resistevano debolmente; le belle pigianti si sbandavano ignude e rosseggianti di mosto pei vasti corridoi, invocando soccorso. Uno dei capi della rivolta, entrato per la finestra di una cabina di pigiatura, si dibatteva furiosamente sulla scaletta di una piscina uvaria colla bella moglie di uno czarre, la quale con ceffate e con graffi da pantera tentava di schermirsi.
Frattanto, al vedere gli agenti di sicurezza attrupparsi per marciare verso il centro della sommossa, in altri punti dell’agro si formavano degli assembramenti minacciosi. I coscritti, affigliati per la più parte alle sètte anarchiche, affiggevano ai berettoni solari le coccarde riottose. L’uragano della sommossa si annunciava terribile e spietato. Le botteghe si chiudevano; i merciaiuoli smontavano le baracche; le madri paurose traevano i bambini fuor della folla; altre più audaci, invase da un ardore di ribellione, coi pargoli in sulle braccia, animavano all’azione i giovani esitanti. Ciò che accadeva in quel momento nei due agri collegati di Stradella e di Broni non era che un minimo episodio della grande rivoluzione, suscitata per naturale coincidenza di passioni politiche, in ogni quartiere popolato dei dipartimenti dell'Unione.
— Che si fa? — chiese il Virey all’Albani, traendosi in disparte per dar passo ad un pelettone di sorveglianti i quali si avanzavano intimando l’ammonito ad un gruppo di rivoltosi.
— Io sarei d’avviso che ci imbarcassimo bravamente in una volante, e ci facessimo condurre a Milano, senza preoccuparci dei nostri bagagli, i quali, c’è da scommetterlo, a quest’ora devono aver già assaggiate le garbatezze dei nostri futuri governanti.
— Credi tu che a Milano si abbia a godere maggior sicurezza?... Ma, via! Si può tentare... Forse giungeremo in tempo da poter assistere al saccheggio della mia villa. Vorrei che di quell’edifizio maledetto, nel quale ho sommerso tutti i milioni da me guadagnati coll’invenzione della pioggia artifiziale, non rimanesse più vestigio. Oggimai è penetrata nel mio animo questa convinzione, che ogni attentato violento fatto alla natura è opera da pazzo, per non dire da scellerato, e che io, al par di altri orgogliosi della mia specie, colla mia superba invenzione mi sono reso complice dei più grandi disastri che affliggono il mondo.
— Tu, dunque, vorrai essere dei nostri? — chiese il Virey radiante di gioia.
— Sì! per la vita dell’umanità! — rispose l’Albani con ardore entusiastico. — Torniamo alla natura! Il vostro programma quindi innanzi sarà il mio.
— Dunque?... A Milano?...
— A Milano!...
— Presto! Facciamo calare una volante!... Ecco là una aerea da due posti, che pare fatta per noi. Diamo il segnale!
Il conduttore della volante, all’udire il fischio, lasciò calare il veicolo a quattro metri dalla testa dei reclamanti.
— Più basso! — gridò il Virey; — si vuol partire immediatamente.
— Più basso? — esclamò l’auriga di cielo in tono più beffardo. — Io son disceso di quattro metri, ora spetta a voi di salire altrettanto. Siamo, o non siamo equilibristi? Animo, dunque! Salite!
— Bella pretesa davvero! — sclamò l’Albani irritato. — Via! non son momenti di celie codeste! Vien giù!... Sarai pagato lautamente.
— Non potete salire? peggio per voi — rispose l’auriga di cielo; — e nemmen io posso scendere. Sono uomo di principii. Il vostro denaro non mi tenta... Chi più ha, meno ha diritto di avere. Il Bigino ha l’onore di augurarvi la buona notte. Viva Antonio Casanova e l’abolizione della moneta! Viva l’equilibrio sociale!
E cantando una gaia ballata, l’auriga fece risalire la volante, che andò a smarrirsi nelle brume vespertine.
Il tumulto cresceva nell’agro. Ai ribelli si aggiungevano i curiosi; pochi atti di violenza si commettevano, ma lo strepito saliva alle stelle. I rappresentanti del governo legale ripetevano indarno le ammonizioni.
Plochiù, il generale comandante della spedizione eletta a sedare la rivolta, prima di ricorrere ai mezzi estremi, esitava, temporeggiava, attendendo rinforzi. Verso le cinque pomeridiane, in luogo delle truppe arrivò un telegramma. Il generale lo lesse esprimendo cogli accenni del capo la più viva soddisfazione:
Assemblea generale in seduta permanente delibera ed ordina nessuna resistenza movimento anarchico generale — passi la volontà del paese — passerà presto. Dato a Berlino, ore quattro.
— A meraviglia! Lasciamo che si arrabattino fra loro. Se la godano un paio di giorni la loro anarchia! Nessuno dei militi volonterosi da me dipendenti rischierà una scalfittura per mettere al dovere questi pazzi!
Di là a pochi minuti, i rappresentanti del potere legale si ritiravano dai centri tumultuosi. Una grande aerostata governativa e duemila volanti di seconda mole ancoravano alla stazione centrale per accogliere e trasportare i ben pensanti. Un razzo fosforescente proiettò sull’agro una luce azzurrognola, che subito si spense. Era un segnale ben noto ai ribelli; un segnale che voleva dire: il governo si dichiara nolente o impotente a resistere: si salvi chi può!
L’Albani e il Virey si gettarono nella corrente dei fuggenti, incalzati dagli urli, o piuttosto dai ruggiti di quella belva capace di tutti gli orrori, che è un popolo scatenato.
A Stradella ed a Broni si saccheggiava impunemente, e, diciamolo ad onore del vero, con ordine, con garbatezza, coi più delicati riguardi alle suscettibilità dei saccheggiati. Sulle aree, la ripartizione e l’equilibrio dei beni faceva le sue prime prove gaiamente. Ad un cittadino che aveva nel portafoglio diecimila lussi, si accosta un nullabbiente per esigere la metà del suo avere.
— Presto fatto! Eccovi cinquemila lussi, e buona notte... per ora!
La ripartizione amichevole è approvata dall’applauso popolare; ma ecco i due equilibristi son presi in mezzo da altri equilibristi che esigono la metà della metà toccata a ciascuno.
— È troppo giusto. A ciascuno duemila e cinquecento lussi — siete soddisfatti? — Ma non è finita, convien ripartire anche i duemila cinquecento; e così via, via. di ripartizione in ripartizione, i capitali vanno siffattamente assottigliandosi, che all’ultima fase dell’equilibrio generale ciascuno risulta possessore di circa dieci centesimi.
Ci vorrebbero dei volumi per riprodurre gli episodi tragi—comici di quel breve trabordo di anarchiche utopie. Basti dire che ad un lacero nullabbiente il quale si era fatto cedere il paletot dal droghiere Pirotta, toccò indi a poco di dover dividere le sue spoglie con un correligionario sprovveduto di giubba. E ciascuno dovette andarsene mezzo vestito, con un solo braccio insaccato in una manica e un frammento di bavero attorno al collo.
Malgrado le irritazioni inevitabili in ogni attrito di popolo, la giornata prometteva di chiudersi con un allegro chiasso di canti e di balli. Un fratellevole accordo si produceva dalla comunanza degli interessi; dall’uguaglianza nella miseria tutti si attendevano l’età dell’oro; dal deprezzamento delle intelligenze, l’uniformità del sapere e lo schianto di ogni supremazia.
Ma sul far della notte, le cose mutarono aspetto.
I caporioni della sommossa, che pei primi si erano slanciati all’assalto degli stabilimenti di pigiatura, non riflettendo al pericolo, dopo essersi immersi nel mosto fino alla gola e aver tracannato a larghe fauci il licore effervescente, avean levate le spine alle botti. Il vino inondava gli appartamenti e scorreva a rigagnoli per le scale. L’esalazione alcoolica saliva ai cervelli; i bevitori quasi asfissiati si avvoltolavano come giumenti in una melma rossiccia; i meno briachi, per uscire da quell’afa irrespirabile, si aprivano il varco rompendo la folla coi pugni. Frattanto, irrompevano altri bevitori. I fanciulli camminavano carponi leccando i pavimenti; le donne succhiavano dalle spine le ultime sgocciolature. Nelle cantine dei ricchi proprietari, i coscritti stappavano bottiglie di vecchio barbera; decapitavano l’Asti spumoso e trincavano senza freno. La fede equilibrista era scossa; non vi era più alcuno in Stradella ed in Broni che fosse in grado di tenersi in equilibrio. Si vedevano dei vecchi avvinazzati strappar le gonnelle alle donne, affermando il diritto all’uguaglianza dei sessi; le donne, a loro volta, pretendevano all’onore dei calzoni. Rotolavano come botti, sul pendio dello stradone curricolare, delle coppie di ubbriachi, strettamente collegate. L’agro era invaso dalla follia contagiosa; abbracciamenti e ceffate, lacrime di tenerezza e invettive, danze a suono di calci, baci e morsi di lussuria impotente, tutte le maniere di amplessi imaginate dall’Aretino e dal Carnicci; l’orgia del sabbato antico coi raffinamenti e gli orrori della sensualità alcoolizzata.
Chi porrà fine a questo orrendo scompiglio?...
Udite! Udite!
Un muggito reboante, che par quello di cento tori riuniti, ha percosso l’aria con spaventose vibrazioni. Dalla via De—Pretis è uscito un gran fragore di terremoto; un padiglione è crollato, è un fuggi fuggi di gente che urla come fosse pigiata.
Cos’è avvenuto? Pressoché nulla: un leggerissimo errore di calcolo nella mente di un grande scienziato. Chi farà la storia delle infinite sciagure derivate alla famiglia umana dalle lievi abberrazioni dei forti intelletti! L’illustre primate Piria avea perfettamente costruito il suo gigante automatico-chimico-vitale. La macchina umana era riuscita; tutti gli elementi essenziali che la chimica poteva prestare alla formazione dell’ossatura, dei muscoli, dei condotti, delle parti viscerali, dei glutini nervei, erano stati da Piria impiegati e coordinati sapientemente. Un gigante dell’altezza di trenta metri, proporzionatamente sviluppato nelle singole membra, giaceva disteso nel padiglione di via De—Pretis. Verso le cinque pomeridiane, in presenza di un centinaio di spettatori, l’illustre scienziato aveva operato la trasmissione del sangue e del movimento. Incisa la carotide del mostro inanimato e messala in comunicazione, a mezzo di un tubo elastico, con quella di un toro parimenti svenato, l’illustre creatore dell’uomo colossale avea veduto realizzarsi con rapidità l’assorbimento e la dejezione. Si volle il sangue di dieci tori per fornire al vasto cuore ed ai grandi condotti arteriosi del gigante il liquido vitale occorrente. L’azione simultanea di due pile elettriche di quadrupla potenza diede impulso alla circolazione, suscitò l’irritazione nervosa e il movimento dei muscoli. La materia inerte si scosse... Due grandi occhi si spalancarono assorbendo la luce, le nari si gonfiarono, il petto parve scoppiare pei forti aneliti di aria ossigenata, le braccia si agitarono, le mani si distesero per afferrare l’ignoto; e finalmente...
Chi poteva prevedere un tal impeto di vita? Dalle fauci del gigante elettrizzato proruppe un muggito spaventoso. L’immane corpo si sollevò, atterrò con un calcio poderoso l’enorme banco sul quale stava adagiato, e lanciandosi colla violenza di un toro inferocito verso la porta di uscita, si diede a percorrere la via, sorpassando ogni barriera. Trecento baracche di merciaiuoli andarono capovolte; quattro olmi secolari, urtati da lui, si rovesciarono sradicati. Egli cozzava, rompeva, abbatteva ogni ostacolo, impiegando a tal uopo, con istinto taurino, la catapulta di un cranio resistente ad ogni urto.
Imaginate il terrore di quella apparizione, in una folla esaltata dagli entusiasmi politici e dai fumi del vino! Dove la gente non era lesta a sgombrare, il gigante si faceva largo coll’impeto della persona, colle irruzioni del capo, colla violenza dei calci. I più accorti tentavano schermirsi da lui passandogli fra le cosce o saltandogli sul capo per scivolare al suolo tra le curve della schiena interminabile; ma i fortunati ai quali riusciva di salvarsi, se la davano poi a gambe esterrefatti, annunziando il finimondo e la comparsa dell’anticristo. Quello sgomento generale aveva fatto passare la generale ubbriacatura; in meno d’un’ora il vasto agro di Stradella e di Broni si era mutato in un deserto.
La popolazione che prendeva il largo, sbandandosi pei vigneti e cercando rifugio nei letti dei fiumi, verso le otto della sera fu colpita da un nuovo terrore. Nell’impeto bestiale della corsa, il gigante aveva dato il capo in un campanile, quattro metri più alto di lui. La torre era crollata, ma anche il grosso cranio, con tanta sapienza di mezzi chimici confezionato dal Piria. si era spezzato nell’urto. Slanciando il suo uomo chimico—meccanico, il dabben Piria non aveva riflettuto che in ogni essere animato la percezione sensuale non può svilupparsi che gradatamente. Per la conservazione di quel mostruoso fenomeno vitale si esigeva un trattamento di neonato; supponendo in lui ingenita quella facoltà di discernimento che può formarsi soltanto nell’adulto per una successione di esperienze, l’illustre primate vide sfasciarsi in un attimo la più ardita creazione che mai fosse concepita e realizzata dal genio umano.
Coll’ultimo muggito del gigante chimico—meccanico, e col fragore di un campanile in rovina, a Stradella ed a Broni ebbe fine in quella notte il baccanale rivoluzionario degli equilibristi.
A dieci ore l’ordine più perfetto regnava nell’agro.