Abrakadabra/Il dramma storico/XXIII
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CAPITOLO XXIII.
Sogno di una notte di estate.
— Lassù, al paese, dove le figliuole non hanno cessato di portare con orgoglio i nomi delle loro madri, mi chiamavano Maria. Più tardi, mutando dimora e condizione, io presi il nome di Glicinia...
— La Glicinia è un pallido fiore — mormorò l’Albani. — Se voi non vi chiamate Fidelia, come accade ch’io vi vegga inginocchiata davanti al mio letto?
— È il posto che mi spetta; e non credo che altra persona al mondo più di me ci avrebbe dritto. Noi donne siamo portate ad amare con istinto materno coloro ai quali abbiamo dato la vita, e quando una di queste vite è in pericolo, noi sappiamo che per salvarla nessuna potenza umana uguaglierebbe la nostra!
— Mia madre è morta! — sospirò l’Albani; — le sue carezze e i suoi baci mancarono alla mia giovinezza.
— Nè vi resta il sovvenire di altre carezze, di altri baci, più impetuosi, più ardenti, che in una notte di spasimi atroci, in un’ora di tremenda agonia vi fecero esclamare: la giustizia degli uomini mi avea ucciso e l’amore di un angelo mi richiama alla vita?...
L’Albani si rizzò sui guanciali, ma tosto, vinto dalla spossatezza, piegò il capo su quello della Immolata esclamando: parlami!
— Parlami ancora! la tua voce mi fa bene al cuore.
— Or fanno cinque anni — riprese la donna — al cadere del giorno, io sedeva con mia madre fuor della casetta tutta coperta di edera e di glicinie, posta sul declivio di una collina. Il sole tramontava dietro un padiglione di nuvole ardenti, i cui riflessi di porpora rischiaravano il villaggio come vampa di Incendio. Si respirava un’aria di fuoco. Regnava intorno a noi quel silenzio lugubre che sembra presagire l’uragano. Allo svolto del sentiero che metteva alla nostra abitazione apparve un viandante affannato. Si appoggiò al muricciuolo, e scuotendosi la polvere dagli abiti, pareva cercare collo sguardo una persona a cui chiedere soccorso. Vestiva la tunica bianca del prete riformato, e sotto il suo largo cappello da pellegrinaggio si disegnavano i contorni di un bellissimo viso. Mia madre si alzò. Quel movimento attrasse a noi gli sguardi del Levita, che tosto si diresse alla nostra volta esclamando una parola di benedizione. — La volontà di Dio e la saggezza degli uomini — proseguì egli colla sua voce piena di angelica dolcezza — mi hanno imposto di accompagnare pel duro calle della espiazione uno sventurato, che oggimai non ha più il diritto di coabitare coi fratelli. Ma la pietà di Dio impone dei temperamenti alla giustizia della società, e l’arbitro di questi temperamenti suoi essere il sacerdote. Ora, ecco un caso nel quale io posso di tutta coscienza invocare pel mio martire la tregua dei rigori legali. Il reietto è là... giacente sul terreno... affranto dalla stanchezza e dalla febbre... L’uragano è imminente... Io non debbo permettere che quell’infelice muoia sulla via maledicendo agli uomini ed al cielo. Consentireste voi a dargli asilo per questa notte? Mia madre ed io ci ricambiammo uno sguardo, e introducemmo il Levita nel cortiletto. Benedette le case dei nostri padri! — esclamò il prete; — questi porticati erano una ispirazione della carità! qui le rondini fabbricavano i loro nidi, e qui dormivano nella sicurezza i perseguitati e i mendichi. Non volete salire agli appartamenti superiori? — chiese mia madre al Levita. — No!... l’infrazione della legge eccederebbe i limiti che mi sono prescritti. Si stabilì di collocare un pagliericcio al piede della scala. Mia madre ed io ci affrettammo ad apprestare quel povero letto, corredandolo di un guanciale e di una coltre. Noi stendemmo fra le colonne del portico una tenda di riparo: una scranna, un’anfora d’acqua, un lavacro ed una lampada elettrica completarono il mobilio di quell’andito terreno, dove la pietà, sposandosi all’infortunio, doveva in quella notte tramutarsi in un amore infinito.
«Frattanto, il sacerdote era uscito con due famigli per soccorrere il caduto e sorreggerlo fino alla porta della nostra casa. Il vergine cuore di una fanciulla ha dei presentimenti divini. Ciò che noi proviamo all’appressarsi di quel lui ignorato che dovrà essere il sole della nostra esistenza è qualche cosa che simiglia ad un’aurora. La nostra anima si rischiara, i nostri sensi tripudiano; noi ci sentiamo inondate di una beatitudine rivelatrice... Nella attonita fantasia il mistero prende forma, ed è una forma indeterminata, volubile, che ad ogni tratto svanisce per ricomporsi, per rassodarsi, per isfuggirci di nuovo, fino a quando, all’apparire di un essere reale, il cuore non ci gridi con un sussulto: eccolo! è lui! Ho cercato di esprimere le ansie della attesa, ma invano tenterei dipingere a parole la emozione che provai nel vedermi innanzi... quello sventurato. Egli era bello della tua bellezza; egli era pallido come tu lo sei; egli soffriva come tu soffri... I due famigli, sorreggendolo, lo accompagnarono fino al letto. Mi passò accanto, levò gli occhi, e il suo sguardo — poiché la parola gli era contesa dal dovere — esprimeva un ringraziamento affettuoso.
«I miei occhi non si affissarono che un istante su lui, ma la sua imagine rimase avvinta al mio cuore per non più dipartirsene. Mia madre, all’atto di allontanarsi, chiese al Levita se di nulla abbisognasse. «Troverò il mio posto per riposarmi — riprese quegli, e accennando al compagno che si appoggiava alla muraglia per sorreggersi, ci fece comprendere che la nostra presenza cominciava a divenire importuna. Ci avviammo per salire agli appartamenti superiori. Io non proffersi parola; le lacrime agglomerate sul cuore facevano intoppo alla voce. Prima che noi fossimo entrate nelle nostre stanze, uno scoppio fragoroso di tuono annunziò lo scatenarsi dell’uragano».
L’Immolata si interruppe. Il tremito convulso onde l’infermo era assalito lo avvertiva che i dettagli spaventevoli di quella scena potevano ucciderlo.
La crisi fu passeggiera. Il sembiante dell’Albani si ricompose, una leggiera tinta di rossore traspirò dalle pallide guance, gli occhi si animarono di viva luce.
L’Immolata raccolse tra le braccia il bel capo che per un istante si era scostato da lei, e riprese a parlare di tal guisa:
— Le grandi commozioni della natura non durano a lungo. Di là a pochi istanti, la tempesta era cessata, e il cielo raggiante di stelle, gli alberi ed i fiori rinfrescati dalla pioggia si scambiavano un saluto di luce e di profumi. La notte riprendeva la sua calma solenne, e tutto il creato pareva gioire. Ciò che non poteva placarsi era il turbamento, l’agitazione, la febbre del mio povero cuore. Io non mi era coricata. Durante l’uragano, io non aveva cessato di pregare, di piangere, di baciare col desiderio della pietà e dell’amore il bel volto dell’ospite infelice. L’atmosfera della stanzetta mi soffocava. Apersi la finestra; la dolce frescura e le esalazioni del giardino non valsero a confortarmi. Sotto la finestra che sovrastava al porticato, io vedevo al soffio dell’aere agitarsi una tenda. Dei singulti affannosi giungevano al mio orecchio, e penetrandomi nel cuore, parevano tradursi in richiami e rimproveri. Sorpassando quel debole riparo di tela, il mio pensiero penetrava nell’andito lugubre, ove un bello, un giovane uomo, reietto dalla società, implorava nei tremiti della febbre quella stilla ravvivatrice che è una parola di perdono e di amore. E mentre nell’animo mio si dibattevano le esitanze e i desiderii; mentre i pregiudizii contrastavano a quegli istinti di pietà e di sacrifizio che fanno santa la donna, io aveva sorpassata la soglia della stanzetta; ero discesa al piano terreno, ero caduta in ginocchio presso il giaciglio di un infelice...
— E quegli? — domandò l’Albani con voce animata.
— Sollevò il capo e mi stese le braccia, profferendo la parola del Cristo morente... «ho sete!»
— Gli sventurati hanno sete di pietà e di amore — interruppe l’Albani.
— Infatti — proseguì l’Immolata — l’acqua che io gli porsi non valse a dissetarlo...
— Oh! mi sovvengo— riprese l’Albani contemplando con espressione di viva riconoscenza e di affetto il bel volto della donna; mi sovvengo di tutto... Eppure, in quella notte gli ardori del mio labbro furono ammorzati!...
— Ti rammenti di qual maniera? — chiese Glicinia sollevandosi e affiggendo amorosamente la bocca a quella dell’infermo. — Tu mi attiravi al tuo petto esclamando: «io ti ringrazio... io ti benedico... I tuoi baci mi daranno la forza di vivere... e di soffrire.»
La reminiscenza di una ebbrezza sovrumana, ravvivata dall’aspetto, dalla voce, dalle ardenti carezze di una donna incomparabilmente leggiadra, operarono il miracolo.
Ripetendo con voce sussultante le parole della enfatica narratrice, l’Albani aveva ripreso, colle illusioni del passato, tutta la energia del suo temperamento giovanile. Quel lungo duetto di amore si chiuse con una cabaletta che il gusto musicale dell’epoca nostra ci impone di sopprimere.
L’impeto della passione non poteva durare a lungo nella fibra estenuata dell’infermo. Quando il Virey e fratello Consolatore rientrarono poco dopo nella stanza, l’Albani era ricaduto nel letargo; ma il pallido volto supino ai guanciali pareva tuttavia irradiato di felicità, e il labbro atteggiato al sorriso rivelava la calma serena degli organi intelligenti.
Il Primate si accostò al letto. Posò la mano sul cuore dell’infermo, e guardando fissamente la donna, colla espressione espressione di chi si attende una risposta affermativa, le chiese a bassa voce: «ha creduto?»
— Ha creduto — rispose l’Immolata.
E la porpora delle guance, lo splendore degli occhi, l’ansia del petto, prestavano alla pudica parola il più espressivo dei commenti.
— Voi potete ritirarvi — disse il medico all’Immolata; — la vostra missione è compiuta; dopo il breve letargo, avremo la reazione febbrile, e in seguito a quella potremo operare sul sangue con sicurezza di riuscita.
In quel punto entravano nella stanza gli alunni e alcuni subalterni della villa.
— Ho l’onore di annunziarvi — proseguì il Virey solennemente — che fra dodici giorni l’illustre Albani avrà ricuperata l’integrità del suo essere, e potrà presentarsi alla Assemblea elettorale del nobile Dipartimento che intende elevarlo alla carica di Gran Proposto.
L’Immolata esitava ad uscire.
Fratello Consolatore la prese per mano e traendola in disparte:
— Sorella — le disse all’orecchio; — al sacerdote e all’Immolata non è mai permesso di obliare che la vita è un sacrifizio.
— No! no! — rispose la donna colla vivacità di un fanciullo contrariato; — noi viviamo di amore, e ogni voto, ogni legge sociale che si oppone a questo sovrano istinto della natura, è una mostruosità di cui Dio deve inorridire. Io amo quest’uomo!... Egli mi ha insegnato i più intensi piaceri e i dolori più tremendi della vita..» per lui divenni madre!...
Il Levita levò gli occhi nel bellissimo volto soffuso di lacrime, e quello sguardo gli ravvivò nel pensiero mille memorie assopite.
E traendo seco la donna oltre il vestibolo per passare nel giardino:
— Non era dunque — esclamava — un sogno di inferma fantasia ciò che il mio povero compagno di viaggio ebbe a rivelarmi dopo quella notte angosciosa che noi passammo a Losanna. Ma voi...? Come avviene che io debba rivedervi fra le Immolate, dopo che Iddio vi aveva fatta santa col maggiore de’ suoi benefizii, rendendovi madre?...
— Io perdetti mio figlio — rispose la donna con un sospiro.
— Morto?...
— Rapito in età di due mesi.
Fratello Consolatore giunse le mani esclamando: — E Iddio vorrà permettere che duri eternamente impunita questa tratta misteriosa di neonati per cui piangono tante madri!... Duemila e cinquecento bimbi scomparsi dall’Europa in meno di tre anni... e nessun indizio... nessuna traccia...
— Tacete!... — interruppe la donna rabbrividendo.
— Che è stato?...
— Vedete... quell’uomo?...
— Un orribile uomo! — disse il Levita, guardando verso la cancellata del giardino.
— Ebbene... quel terribile nano... quel mostro... in un momento di esaltazione amorosa... mi avrebbe promesso...
— Vi avrebbe promesso?...
— Di restituirmi la mia creatura a patto che io infranga i miei voti, a patto ch’io mi sacrifichi a lui per tutto il resto de’ miei giorni.
Fratello Consolatore alzò gli occhi al cielo e dopo breve silenzio esclamò con fatidico accento:
— È necessario che il sacrificio si compia; i figli sono la redenzione dei padri.
Così parlando, il sacerdote e la donna erano giunti alla porta maestra del gran parco.
— Sorella di amore! — ringhiò il nano che stava ad attenderli oltre il cancello — i termini della estradizione sono spirati — vorrete voi permettere, o bella fra le belle, che io vi riconduca all’ovile nella mia gondola?...
L’Immolata si ritrasse con ribrezzo; ma appena il sacerdote le ebbe mormorato all’orecchio una misteriosa parola, abbandonando il suo braccio a quello del mostro, ella salì con lui nella gondola e disparve.