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sue labbra tumide di sangue, esuberanti di ardore, corsero avidamente a baciare una bocca, dove la morte già delineava il suo glaciale sorriso.

Quel bacio poteva essere eterno. L’Immolata, affiggendo le sue labbra a quelle dell’Albani, dovea trasmettere la vita o assorbire la dissoluzione.

Ma i presagi del Virey non tardarono ad avverarsi. L’infermo dopo alcuni istanti aprì gli occhi.

— Che è stato? — domandò con fioca voce.

L’Immolata trasalì, e cadendo in ginocchio presso il letto del malato, gli mormorò all’orecchio una parola che parve rianimarlo.

— Il vostro nome! il vostro nome! — ripeteva l’Albani, guardandola fissamente.

E allora, con un accento pieno di soavità e di tristezza, la genuflessa prese a parlare di tal guisa:

CAPITOLO XXIII.

Sogno di una notte di estate.

— Lassù, al paese, dove le figliuole non hanno cessato di portare con orgoglio i nomi delle loro madri, mi chiamavano Maria. Più tardi, mutando dimora e condizione, io presi il nome di Glicinia...

— La Glicinia è un pallido fiore — mormorò l’Albani. — Se voi non vi chiamate Fidelia, come accade ch’io vi vegga inginocchiata davanti al mio letto?