Vecchie storie d'amore/III/La dama fallace

La dama fallace

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III - Passione d’un gentiluomo veneziano III - Il polso
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LA DAMA FALLACE

Sec. xvii.

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I.

Mentre il duca Odoardo Farnese, i Francesi e il duca di Savoia assediavano Valenza, don Alfonso della Torre, il quale era tra gli ufficiali d’Odoardo, ricevette la notizia che suo zio il marchese di Cortemaggiore era morto lasciando a lui, come a giovane savio ed a nipote affettuoso, ogni suo avere; ond’egli, da nipote affettuoso, dimostrò un ineffabile dolore, e da giovane savio deliberò tra sé di godere al piú presto di quella fortuna inattesa. Infatti appena i collegati ebbero tolto, per disperato, l’assedio, egli corse a Parma, ed ivi diede tosto troppe prove di prepotenza e di grandezza: capestrerie, fastosi sollazzi, amori, brighe, soprusi. Né continuò poco cosí; ma quando il duca fu uscito dai travagli della guerra e riprese il retto governo dello stato, [p. 168 modifica] chiamò a sé, un giorno, il giovane e turbolento cavaliere e gli propose il dilemma o d’ubbidire alle sue leggi per restare in Parma, o d’andarsene da Parma per non ubbidire alle sue leggi.

A ciò don Alfonso avrebbe dovuto rispondere co ’l sussiego che gli conveniva: — Altezza, io possiedo anche un feudo fuori delle vostre terre — ; eppure, trattenuto da certa sua riflessione, egli chinò il capo e tacque.

Di che meravigliandosi e dolendosi quasi di un’umiliazione sua il conte Gabrio Gabrii, che gli era intimo amico, gli disse Don Alfonso: — Oggi capirai che se io metterò il giudizio a posto non sarà tutto merito di Sua Altezza.

E nel pomeriggio, condotto l’amico al giardino della sua casa, da un punto dal quale si scorgeva chi era nel giardino attiguo disse a bassa voce: — Guarda!

Una dama leggendo un libro passeggiava all’ombra; e come fu condotta dal sentiero presso il muricciolo di confine, levò gli occhi e al profondo saluto che le fece don Alfonso risalutò, senza ristare, con garbo signorile. Una dama [p. 169 modifica] bellissima. Il Gabrii sorrise, attese ch’ella si fosse allontanata ed esclamò:

— Varrebbe la pena di mettere la testa a posto; ma io credo che tu, questa volta, la perderai del tutto! [p. 170 modifica]

II.

La dama posò il romanzo. Nella sua mente piena di quell’avida lettura le viragini e i cavalieri continuarono a scambiare colpi di spada e prove eroiche e i principi a perseguire le donzelle traverso strane e confuse vicende di battaglie, di rapimenti e di naufragi; ma nel suo cuore, dai discorsi piú galanti e dalle pagine piú sentimentali, era penetrata una tentazione sottile, un’eccitazione dolce ad un amore tuttavia sconosciuto.

Fanciulla quasi l’avevano data in moglie a un cavaliere milanese, tanghero e geloso; a pena vedova i congiunti del marito, per carpirle una parte dell’eredità, l’avevano rinchiusa a forza in un convento, e da poi che era fuggita dal convento in casa della vecchia dama che le voleva il bene d’una madre, il Palmenghi figlio della dama, per non essere compromesso e per sottrarla all’ira dei congiunti, la costringeva a una vita peggio che di chiostro. O piú tosto, [p. 171 modifica] invaghitosi di lei, il Palmenghi aspettava agio di sposarla?

Da Scilla in Cariddi!; e altro confortatore della sua giovinezza sognava Domitilla (questo il suo nome): ella sognava una grande passione che le consentisse il dominio dell’amante in guisa d’aver poi uno schiavo in suo marito; e il Palmenghi era un geloso carceriere quando ancora non le aveva proposto di sposarla!

Sospirando, Domitilla riprese il libro. Ma il suo pensiero oramai ripugnava dalla lettura e seguiva imagini sue, un’imagine che da alcuni giorni cercava il suo cuore e l’accarezzava per entrarvi; e don Alfonso della Torre, il giovine e bello e perfetto cavaliere di cappa e spada, le sorrideva con un inchino profondo di saluto. Ella non aveva il dubbio di non piacere a don Alfonso della Torre: anzi s’era avveduta che la corteggiava; ma, quando pure le riuscisse innamorarlo, riuscirebbe al piú, a divenirgli moglie? Divenirgli moglie! E la sua fantasia correva, correva. Egli era ricco e superbo; onde una gloria l’avvincerlo e una fortuna il possederlo. Se non che lo dicevano [p. 172 modifica] anche intemperante, violento, infido colle donne, e non le conveniva disgustare il Palmenghi per avventarsi a una speranza incerta e a un pericoloso tentativo. Rifletté, poi levandosi risoluta e sicura: — A innamorarlo — pensò — basta la bellezza; lo avvilupperò con l’arte e con l’inganno e avrò lo schiavo!

E si guardava nello specchio della sala: era bellissima. [p. 173 modifica]

III.

La dama che ogni giorno passeggiava nel giardino del Palmenghi, rispose cortese alle prime dimande di don Alfonso ma guatandosi attorno quasi paurosa che ci fossero altri ad ascoltarla; disse che aveva nome Vittoria, che era sorella del Palmenghi e vedova da poco tempo di un gentiluomo milanese: non piú; ma negli occhi e nel viso essa aveva l’ombra e l’impronta d’un dolore sempre presente al suo spirito, e dalla circonspezione con cui ella si conteneva, s’arguiva che qualcuno l’invigilava. Qual colpa di lei o d’altri la teneva vittima di quella tirannia occulta? qual cura l’affliggeva turbandone la meravigliosa e fresca bellezza? Don Alfonso non poté sapere di piú, ma se il giovanile desiderio di un’avventura galante l’aveva condotto nel giardino le prime volte, nel solito luogo, all’ora solita, ve lo trasse di poi il desiderio acre e virile di far dispetto a qualcuno e di affrontare un [p. 174 modifica] pericolo; e quindi ve lo trasse, con tutta la forza e con tutti i lacci, l’amore.

E quell’accensione lenta, nuova per lui, divampò cosí nel suo cuore che non ebbe piú requie: e il suo animo rimase conquiso, occupato, umiliato da quella donna la cui bellezza s’elevava e raffinava con lo strano contorno della pietà e del mistero. Egli fece e le ripeté molte proteste, ma la dama o taceva inquieta o rideva mestamente; ed un giorno in cui egli insistette per ottenere una parola, una parola sola, ella disse: — Io non ci penso a rimaritarmi.

Don Alfonso non le chiedeva questo o non le chiedeva tanto. Allora la dama lo guardò fissa per leggergli il pensiero negli occhi; poi soggiunse: — Che cosa domandereste a una dama nobile ed onesta? — Una parola! soltanto una parola! — La dama gli sorrise.

In fine, un altro giorno, ella si dolse perché le bisognava interrompere la consuetudine di quei piacevoli colloqui.

— Impossibile! — esclamò don Alfonso —. Voglio vedervi, udirvi! Chi può impedirmelo? [p. 175 modifica]

— Io — essa rispose —; se no voi, don Alfonso; mi recherete danno.

Né alle domande di lui aggiunse spiegazione alcuna, ma si mosse come per andarsene. Allora egli si contenne, la supplicò e promise d’essere prudente; e la dama quasi per premiarlo gli concesse di scriverle e di nascondere le lettere in un crepaccio della cinta: ivi, potendo, gli lascerebbe le risposte. Tacquero; e dalle loro pupille le anime loro si guardarono tremule e accese, interrogando.

— Voi m’amate! — disse don Alfonso.

— Sí — disse la dama; e ne’ suoi occhi luccicarono le lagrime. [p. 176 modifica]

IV.

Certo che essa l’amava, senza piú titubare don Alfonso intese al fine del suo amore; e le ripulse della dama non lo frenavano, non l’intimidivano gli ostacoli; ed essa gli scriveva invano: “Vorrei, ma non posso„.

Egli un giorno, stanco, le scrisse cosí: — O la sera sarebbe venuta da lui, nel giardino, ad udire quel che aveva a dirle, od egli, alla prima buona circostanza, la porterebbe via a forza.

Domitilla, com’ebbe letto il biglietto, sorrise all’idea d’essere rapita di notte in una carrozza trascinata da due veloci cavalli e scortata da ceffi spaventosi; ma la ragione la distrasse dalle fantasie romanzesche, e poiché l’amante si ribellava, comandava, minacciava, il meglio era non badargli — se pure, a tirar troppo, la corda non si fosse rotta. No, meglio era andare da lui — se pure al convegno, per debolezza sua, non fosse seguito ciò che sarebbe seguito al rapimento. — Parcere subiectis et debellare superbos! [p. 177 modifica] Domitilla, la sera tardi, s’attenne alle norme che l’amante le aveva scritte; e don Alfonso, ricevutala da una scala nel giardino, non stentò a persuaderla che entrasse nella sua casa. — “Soggiogare il ribelle e, dopo, nel perdono, acconsentirgli„ aveva determinato a sé stessa Domitilla; ed entrando disse in tono ostile, súbito:

— Per voi io comprometto, questa sera, il mio onore. Del vostro amore quali prove avete date voi a me?

— Io vi amo — rispose don Alfonso.

La dama senza badargli continuava: — Voi m’avete fatta una proposta indegna, l’insensata minaccia d’impossessarvi di me con la violenza! Ma io non vi temo; v’ascolto. Che volete?

Già alle prime parole di lei cosí avversa nell’aspetto e nella voce il cavaliere aveva perduta la riflessione del disegno che s’era preparato in mente; e alle ultime lo turbò il dubbio che la dama nascondesse un’arma; onde, umile, le chiese:

— Vittoria, che cosa debbo fare io per voi?

— Nulla, se non potete soffrire e non sapete dominarvi! [p. 178 modifica]

Allora egli si lamentò di lei: egli soffriva da troppo tempo, egli soffriva di quell’amore che gli pareva tenebroso ed aspro quasi un delitto o una condanna; e da lei non aveva conforto se non di poche parole vane; non aveva speranza e confidenza alcuna. — Desiderate che io soffra. E avete detto che mi amate!

— Io vi amo — ripeté essa; e ai lamenti contrappose gli aforismi appresi nei romanzi. — Non è amante degno chi non rinunci la propria volontà a quella dell’amata; né v’ha amore buono che non sia combattuto dalla sorte; né è passione nobile e pietosa in chi non sia pronto ad ogni sacrificio, al sacrificio della vita stessa.

Il rimprovero offese don Alfonso. Esclamò: — La mia vita non è vostra? Ogni mio pensiero, da quando vi ho veduta, ogni mio desiderio non è in voi? Non vorrei io liberarvi ad ogni costo della tirannia che v’affligge? Un cerchio di ferro vi stringe e vi soffoca: vorrei spezzarlo, e v’avvolgete nel mistero e mi fuggite; vorrei consolarvi o dividere nel vostro segreto i vostri affanni, e mi fuggite! Che amore è il vostro? [p. 179 modifica]

— Un amore onesto, paziente, generoso!

Don Alfonso tacque con uno sforzo palese per contenere il diniego contro il quale la dama era agguerrita: nel dibattito l’ira deformava la bellezza della donna ed egli che aveva creduto d’ottenerla presto in pace, quella sera, pativa come sentisse dileguarsi un sogno di felicità. Perciò egli taceva. Ed ella, quantunque quel silenzio non la sbigottisse molto, per lasciar trapelare un po’ di barlume agli occhi dell’amante, proseguí.

— In quest’amore io aveva riposto il conforto d’affanni vecchi e nuovi: ad esso confidavo l’avvenire: per il bene di esso, il mio e il vostro bene, mi credevo costretta a nascondervi ciò che cercate di scoprire, a celarvi ciò che cercate di sapere, quasi dubitaste di qualche mia azione indegna. Voi ignorate le lagrime che mi costa il solo sospetto dell’amore che vi voglio; e non mi vedete quando vi sospiro, non mi udite quando vi chiamo a me, non mi sentite in voi come io sento voi in me. Mi sono ingannata. Voi, voi mi avete ingannata turbando cosí per gioco e per [p. 180 modifica] sfogo della vostra giovinezza la poca quiete che la sorte mi lasciava. Ma se non m’avete compresa non m’avete meritata, don Alfonso! Addio dunque.

E stupita ora ch’egli non fiatasse, andò al l’uscio per uscire: l’uscio era chiuso a chiave. Si rivolse, di bianca divenuta livida.

Il cavaliere disse orgoglioso e solenne: — Voi siete in mia balia. Ma don Alfonso della Torre vi difende proponendovi il suo nome, il suo cuore, la sua nobiltà. — E le si accostò tendendole la mano. La dama non sorrise: piú fiera, piú solenne di lui, rifatta bellissima da quell’orgoglio superiore, ella disse: — Per difendermi basta il mio nome, puro come il vostro, e la mia nobiltà, piú antica della vostra, don Alfonso della Torre!

No: ella non aveva nessun’arma; tremava e, tanto il cuore le batteva, ansimava quasi il respiro le mancasse. E vinse lei.

Ai suoi piedi il cavaliere domandava perdono con le piú umili e dolci parole che la passione gli suggeriva e con gli occhi ansiosi cercava nell’aspetto di lei il segno del perdono, come la [p. 181 modifica] speranza della sua vita. Essa ascoltava rasserenandosi a poco a poco, e infine su quell’ira domata, quell’orgoglio avvilito, quella fierezza abbattuta, essa sorrise e sollevò lo schiavo a baciarla nella bocca. [p. 182 modifica]

V.

Domitilla non aveva a pena goduto del suo trionfo che si dié colpa d’essere stata troppo debole ed arrendevole; e quantunque non dubitava della parola di don Alfonso temeva che egli appagato nel desiderio e già pentito si disamorasse, o almeno non giudicasse grande quant’ella voleva la grazia ottenuta quella notte. Essa l’amava; ma per dominarlo le bisognava che l’ardore di lui fosse piú vivo del suo stesso ardore; e per acuirne o riagitarne le brame e inretirlo piú strettamente, le bisognava farle stentare la ripetizione e l’intero possesso della voluttà.

Gli scrisse il giorno dopo: “Guardatevi, ché è in pericolo la vostra vita.„

Don Alfonso, il quale non aveva paura di pericolo conosciuto e certo, a quell’avviso cominciò quasi sgomento a imaginare ogni piú strano affronto ed ogni danno che potesse fargli il nemico nascosto e sconosciuto; e come da un pezzo sospettava fosse il Palmenghi il carceriere della [p. 183 modifica] dama, cosí suppose che il Palmenghi, scoperto il trascorso della dama, cercasse vendicarsi: non usciva se non armato e seguito da piú servi e comandava di vigilare presso la casa del vicino. Di che questi s’avvide presto; né avendo ragioni proprie d’inimicizia con il Della Torre, credette a un accordo fra i parenti di Domitilla, che l’odiavano a morte, e don Alfonso; e si guardava anch’egli. I servi dell’uno e dell’altro si guatavano in cagnesco. La rissa avvenne, e quando già Domitilla, dimentica del suo biglietto, aveva ripreso a scrivere all’amante e a confortarlo.

Un giorno don Alfonso veniva verso la porta del Palmenghi, sulla quale due figure di bravi stavano in attitudine spavalda; e poiché egli fu passato, quelli risero in faccia ai due fidi che gli erano di scorta. Offesa ai servi, offesa al padrone: don Alfonso fe’ un cenno e i suoi attaccarono gli altri.

Alle grida il Palmenghi uscí con la spada in pugno, e allora don Alfonso s’avventò su di lui rapido, in un attimo, e lo colpí al cuore; poi in [p. 184 modifica] due salti entrò nel suo palazzo e dalla pusterla del giardino corse alla casa di Gabrio, che era poco lungi. E mentre l’amico l’aiutava a cambiar vesti perché cambiasse aria, egli gli raccomandava di ottenergli il perdono della dama, che credeva aver privata del fratello e che presto o tardi, se gli perdonasse, farebbe sua moglie. Gli raccomandava di indurla a scrivergli a Torino, dove sperava recarsi; di provvedere a che giungessero a lei le sue lettere e di adoperarsi, quando fosse tempo, ad ottenergli dal duca la grazia di quell’omicidio che aveva commesso quasi involontariamente. Gabrio promise.

Don Alfonso all’imbrunire fuggí da Parma. [p. 185 modifica]

VI.

Quando tra amici ch’ebbero comuni sentimenti, abitudini, piaceri e desideri si frammette la donna amata da uno di lor due, è imposto anche un limite alla loro antica comunanza: oltre tale limite è la donna, di cui non si può discorrere o si deve discorrere poco e con riguardo; è il possesso, conosciuto solo in apparenza, che non si può scrutare, toccare, valutare. E troppo di frequente, per una voglia suscitata da invidia e gelosia insieme, accade che l’amico pensi dinanzi alla donna dell’amico: — M’ha detto che l’ama e che gli appartiene anima e corpo; non altro. Quali parole gli mormorano quelle labbra, intimamente? quali sorrisi gli porge quella bocca? quali baci? Agli occhi di lui che lusinghe, che promesse hanno quegli occhi? e quali carezze e abbandoni molli e resistenze incitatrici e segrete voluttà trova egli tra le sue braccia? Piú: che forza o che arte misteriosa congiunge essa alla bellezza per carpirne il cuore e trarlo seco, [p. 186 modifica] avvinto, nel cammino della sua vita? — Chi studia di rispondersi tenta di tradire l’amicizia.

L’ufficio di confortatore riuscí penoso da prima, a Gabrio Gabrii, perché la madre del Palmenghi, vecchia rimbambita, o lo scambiava co’l figliolo, o gli chiedeva: — Dicono che l’hanno ammazzato. È vero? —; e perché la dama di don Alfonso piangeva, con lui, dolorosamente. Domitilla in fatti soffriva, non già accusandosi della tragedia avvenuta, per caso, dopo i suoi inganni, ma pensando che aveva perduto a un tempo stesso due amanti: quello che essa amava e quello che la proteggeva.

Nondimeno Gabrio ebbe pazienza, e Domitilla era cosí leggiadra che lo scoprirne la vera storia non distolse il gentiluomo dall’usare con lei i modi piú cortesi e le parole piú affettuose. D’altra parte, la dama ammirava in Gabrio tanta dolcezza d’animo e piacevolezza di costumi; e trovando nei discorsi di lui da ammirare anche sé medesima, non sempre senza intenzione gli spiegava co’ suoi vezzi il perché l’amico Don Alfonso s’era invischiato e perduto nel suo amore. [p. 187 modifica] Chi non avrebbe perduta la testa come don Alfonso?

Ma: — Lontano dagli occhi, lontano dal cuore — sospirava Domitilla; e il Gabrii rispondeva che mancatogli oramai ogni speranza di tornare a Parma, il povero amico cercava forse dimenticarsi delle persone fide, che non si dimenticavano di lui.

Frattanto don Alfonso, il quale mandava lettere e non riceveva piú notizia di nessuno, dubitava che qualche sciagura fosse intervenuta a Gabrio, temeva che Gabrio tacesse per tacergli qualche sventura della dama, supponeva fino d’essere stato abbandonato dall’amante e dall’amico. E nel ricordo, irremovibile dal suo pensiero, l’amaro e nero ricordo di quel fatto pe ’l quale viveva nell’esilio, sorgeva insistente e tormentoso in atto di dolore e di maledizione la bella donna ch’egli amava, ch’egli invocava, desto e nei sogni, sempre; né ardiva figurarsela, pure nell’avvenire, innamorata d’altri.

La verità don Alfonso l’apprese tardi. Incontrò un giorno certo gentiluomo della sua città che era venuto in missione per il duca Odoardo alla [p. 188 modifica] corte di Torino, e gli domandò nuova dell’amico Gabrio.

Rispose il gentiluomo:

— Ha sposata la dama che si diceva sorella del Palmenghi.

— Vittoria! — gridò don Alfonso, cui parve ricevere d’un coltello nel cuore.

— Vittoria facile per i suoi amanti — disse l’altro sorridendo del motto —; ma essa ha nome Domitilla.

Don Alfonso n’aveva imparato abbastanza, e dissimulando quel che pativa dentro, volle sapere di piú: chiese piú cose, e infine che cagione si fosse data in Parma alla sua rissa co ’l Palmenghi. — Che l’uno di voi era geloso dell’altro, o che Domitilla spinse l’uno a liberarla dell’altro. Ma un terzo ha goduto.

Cadutagli la benda dagli occhi, don Alfonso credè scorgere anche oltre la verità vera. L’amore della dama per lui era dunque stato uno svago, un sollazzo cominciato colla bugia del nome ambiguo che quella, cosí per gioco, aveva assunto, e proseguito per una tragedia fino al tradimento: [p. 189 modifica] già prima d’avvolgere lui in quegli inganni ella forse amava Gabrio! Forse questa era stata la pena segreta che un tempo aveva sorpresa in lei! La rivedeva, adesso, come nel giorno che gli aveva detto d’amarlo, lagrimosa, e come nella sera della dedizione, vittoriosa e vinta; la vedeva, lei che gli aveva accesa nelle vene la febbre della voluttà, fremere ora di voluttà tra le braccia di Gabrio, obliosa, sorridente, perfida.

Cercò imagini diverse: Gabrio che cadeva ferito sanguinando e Domitilla che gemeva nella solitudine d’un chiostro; e meditò la vendetta, la preparò con brama feroce, la pregustò con gioia feroce.

Il conte e la contessa Gabrii tornavano una sera dalla loro villa a Parma, quando, a una svolta della strada, un uomo tese il braccio armato di pistola verso il cocchio.

— Gesummaria! — fece a pena il conte, ricevendo il colpo.

Chi aveva tradito l’amicizia s’era meritato di morire; chi aveva tradito l’amore meritava di vivere, sola, nel rimpianto e coi rimorsi.