Besta

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La sordità Vo' fare all'amore
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BESTA


A


Caro l’amico mio, tu tel sai quanto
     Soffre una madre giunta a disgravarsi,
     E ben sai pur qual sia di gioia il pianto
     Allor che ’l feto vien bello a mostrarsi,
     Se un scarafaggio va financo fuora,
     L’ama dippiù, anzi dirò, l’adora.
Giunge un parente, e poi viene un’amica,
     Un forestiero arriva, un confidente,
     Vien seco lui la vergine pudica,
     E a tutti dice allor la partoriente
     Tra le mani cullando il suo bambino:
     Guardino il bimbo mio com’è bellino.
Così la mente mia soffrì dolori
     Atroci a concepir che di sublime,
     E al fin dal piccol alvo venne fuori
     Co’ versi incarbugliato e colle rime,
     Ma come a vero dir ch’io non lo so,
     Una rana, che poi Besta chiamò.
L’affetto non le fa veder ben bene
     La bruttezza del feto partorito.
     Dunque se tel presenta, ti conviene,
     Scusami del consiglio troppo ardito,
     Ti convien perdonar, se pur ti lice,
     Non già il dono, ma almen la donatrice.

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BESTA


Quando un toscan sollecito,
     E con paterna cura,
     Volle donare al mïope
     Quel, che negò natura,
I birci tutti intrepidi,
     E lieti del gran caso,
     In vari modi strinsero
     Quel poverin, che è ’l naso.
Ma più dolori il presbite
     Soffrir gli fece amari
     Ahi! quando, o crudo, stringere
     Ne volle ancor le nari.
Eppur vi fu chi tenero
     Bagnò di pianto il ciglio
     E un terso vetro e limpido,
     Tra il naso e ’l sopracciglio,
Pose per non dar carico
     Al naso sconsolato,
     Che riconoscentissimo
     Diè a starnutir serrato.
E da quel dì, che videro
     Tutti un pochin più in là,
     Questo, gridaro, è ’l limite,
     Più avanti non si va.
E con ardire insolito
     Quanto nell’uom ne esista,
     Contrastar pure all’aquila
     Voller l’acuta vista.

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Ma già l’è chiaro, e facile
     A concepirsi adesso,
     Qual fiasco solennissimo
     Ebbero a far sì spesso.
D’un lusco assai bisbetico... —
     (Quel non son’io, badate!
     Nè questo è un’amor proprio,
     Chè in me non ne trovate.
Son per natura mïope,
     E se ci vedo è a stento,
     Ma son sincero e libero
     A dir quello, che sento.
Se vedo ad un centimetro
     Lungi da me qual cosa,
     Dir, ch’oltre il guardo spingesi,
     Il fatto mio non osa.
A più non posso gridino
     Tutti i nemici miei,
     Non dirò mai son quindici
     Se tre con tre fan sei.)
D’un lusco assai bisbetico
     Il disperato amore
     Udrete, amici amabili,
     E riderem di cuore.
(Perdon se, con modestia
     Un poco spinta avante,
     Dissi di farvi ridere,
     Questa va fra le tante.)
Fuggite eran lo tenebre;
     Col giornalier saluto
     La terra dall’Eclittica
     Il sole avea veduto.
E ’l nostro Besta.... (chiamasi
     Così il protagonista
     I cui parenti provvidi,
     E di gran lunga vista,

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Levando suon profetico
     Da vera gente onesta:
     Questi sarà gran bestia
     Gridâr, chiamiamlo Besta.)
E ’l nostro Besta, cupido
     Dell’aria mattutina,
     A respirar più libero
     Uscì quella mattina.
In ver fu molto intrepido,
     Levalo allor da letto;
     In un paese incognito
     A passeggiar soletto.
Ma fermo nel proverbio
     Che la fortuna ajuta
     L’audace, in mezzo al popolo
     Si spinse, e conosciuta,
Dopo un girar sollecito,
     Una cotal persona:
     — Amico, e’ tosto dissele,
     Che è? Qui si consona?
L’è forse mai possibile,
     Che qui, qui nel paese,
     Non si può andar pacifici?
     Oh! dove mai s’intese? —
— Non ti comprendo un cavolo!
     Che cosa dici, amico? — —
     — Si corre ognor pericolo.....
     Eh dico quel, che dico.
Un’uomo assai simpatico
     Ir dove più le pare
     Non puote, chè lo vogliono
     Tutte le donne amare,
Guarda per caso in aria,
     E quà vien salutato,
     E là mira lo spasimo
     D’un cuore innamorato.

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Eh! non par vero, a dirtela
     Chiara, rotonda e netta,
     Civetterie sì illecite,
     Chi mai, chi se l’aspetta?
Ier l’altro, come al solito,
     Andavo a passeggiata,
     Quando riuscito al vicolo,
     Che chiaman la Fiascata,
Ebbi a veder, che scandalo!
     Una gentil donzella
     Di vago aspetto e candida,
     Quanto impudica, bella.
Ch’era al balcone estatica
     In abito da letto,
     E, cosa più incredibile,
     Senza celarsi il petto.
Ma quest’è nulla, proprio
     Tu rimarrai stordito,
     Tutta d’amor struggendosi
     Mi chiamò fin col dito.
Per veder me sollecita
     Sempre al balcon sedea,
     Ma un padre detestabile
     A forza la trae
In casa, al tristo carcere,
     Per non vedermi affatto,
     La sera, o quando il fulmine
     Imperversava a un tratto.
E che ne vuoi, quest’anima
     Al par dell’altre è frale.
     No, non si può resistere,
     Che ’l valor qui non vale,
Sento un’affanno insolito!
     Sento un’ardor cocente!
     Ah! che non è credibile,
     Troppo è la fiamma ardente. —

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— Sta calmo, via, rinfrancati,
     Siam presso al sorbettiere,
     C’è ghiaccio, e tanto incendio
     Spegner si può col bere. —
— Che, che? Qua’ detti mormori?
     Qual nome profferisti? —
     — Amico, calma, abbracciami,
     Che non ci siam mai visti? —
— La Bere mia?... O giubilo!
     Dov’è.... Tu vista l’hai?
     Ah! vieni, ah! vieni, subito,
     Ad incontrarla ormai.
A riveder quell’angiolo
     Dal ciel venuto in terra....
     Sì, sì, siam giunti, or eccola
     Chè ’l guardo mio non erra. —
Qui, con un po’ di pausa,
     La musa ancor s’arresta
     A contemplar quell’idolo
     Che innamorò il suo Besta.
Era un fantoccio, ingenuo
     Giuoco di fanciulletta.
     E non è scherzo, o favola,
     Che mi sia stata detta.
Con gli occhi mie’ medesimi
     L’ho conosciuto io stesso,
     E a veder meglio limpido
     L’occhial m’avevo messo.
Per ben più dì, celandomi
     Con persistenza vera,
     Di dietro a Besta, intrepido
     Corsi da mane a sera.
Lo vidi nel più fervido
     Spasmo di vivo amore,
     Chi nol compiange è stupido,
     O non ha in petto un core.

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Eran di presso l’undici
     Di sera, e l’ho mirato
     Sotto al balcon dell’idolo
     Per terra inginocchiato.
— Ah! deh! crudele, volgimi
     Dicea, que’ tuoi be’ rai.
     Che cosa ho fatto, o vergine?
     Dimmi dov’io peccai?
Or non più veggo al solito
     Quel tuo ridente volto.
     O deh! mi guarda, o subito
     La morte m’avrà colto. —
Qui, mentre che con ansia
     L’alma sospesa tiene,
     Gli cascan su con impeto
     Due catinelle piene.
Prego, donnette amabili,
     Di trattenere il riso,
     In così gran pericolo
     Un’uom non va deriso.
E poi non era un liquido
     Qual la Santippe altera
     Versò di sopra a Socrate,
     No, come quel non era......
Ma che? Vi par difficile
     Quel che già avete inteso?.....
     Ahi! Ahi! Ch’io sento agli omeri
     Di gran legnate il peso!
Oh! basta, oh! basta ahi! misero!
     I baffi mie’ lasciate,
     Le orecchie, o brutti miopi,
     Dippiù non m’allungate.
Ch’io sia, cospetto! un’asino
     Volete? Ebben, sia fatto,
     Ma questa metamorfosi
     Vo’ farla ad un sol patto.

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Se a quell’altera nudacia
     Di veder ben lontano,
     E se all’infingardaggine
     Voi non saprete invano
Contrastar tutti unanimi,
     Tiri le orecchie ognuno,
     Ma orecchie mai senz’asini
     Non ne ha veduto alcuno.
Però, però, credetelo,
     Pur con le orecchie corte
     Asini d’ogni genere,
     N’ho visti e d’ogni sorte.
E sia il mio Besta esempio
     Chiaro qual sol splendente.
     Il traveder l’è facile
     Ad una lusca mente.
Quindi ne’ suo giudizi
     La sempre sia ritrosa,
     Chè vera sapienzia
     Nell’umiltate è ascosa.