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I Cavalleggeri di Alessandria

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I Cavalleggeri di Alessandria


I.


Il cinquantenario. — Il Conte di Torino. — Bracorens di Savoiroux. — Il Colonnello Greppi.


Un’altra festa militare, resa più solenne per l’intervento di Sua Altezza il conte di Torino, seguì a Verona nel giorno memorando del 24 giugno 1900.

Un manifesto del Sindaco, la vigilia annunciava:

Cittadini!

Nel giorno 24 e 25 corrente il reggimento Cavalleggeri d’Alessandria, qui di stanza, ricorda il cinquantesimo di sua fondazione mediante pubbliche feste, resa più solenni dalla presenza di S. A. R. il conte di Torino.

Alla lieta ricorrenza non poteva mancare l’Augusto Principe, che legò il suo nome alla storia dell’esercito nazionale sin dal giorno in cui rivendicò colla spada in pugno l’onore delle armi italiane; e noi rinnovandogli le prove di affetto e di devozione che abbiamo ognora dato ai rappresentanti della gloriosa Casa Sabauda, concorreremo al miglior ornamento di queste feste, alle quali l’Amministrazione cittadina, sicura di interpretare i desideri Vostri, interviene in forma ufficiale.

Il Sindaco A. Guglielmi.„


In tale occasione il comandante del reggimento, nobile Luigi Greppi, pensò di pubblicare un elegante e interessante volumetto, compilato da quell’egregio ufficiale ch’era, ed è, l’allora maggiore Lisi-Natoli — [p. 202 modifica]intitolato: I Cavalleggeri d’Alessandria, 1850-1900; ornato da un disegno dell’Origo, e arricchito internamente, dalla riproduzione di un quadro rappresentante una delle famose cariche di Villafranca.

La memoria è dedicata ai reggimenti Piemonte Reale, Lancieri di Novara e di Aosta, dalle costole dei quali, nuova Minerva dal cervello di Giove, con decreto 3 giugno 1850, i Cavalleggeri d’Alessandria, nacquero armati di scudo e di lorica.

Comandante del nuovo reggimento veniva allora nominato il conte
Bracorens di Savoiroux.
Carlo Bracorens di Savoiroux; il quale ne conservò il comando, prima come tenente colonnello, poi come colonnello, tino al 1859.

Venuta la spedizione di Crimea, 1855-56, i Cavalleggeri d’Alessandria, durante la campagna, col proprio stendardo, il comandante e uno squadrone, contribuirono insieme ai Lancieri di Novara e Aosta, e ai Cavalleggeri di Saluzzo e Monferrato, a formare quel famoso reggimento misto, alla testa del quale il colonnello Bracorens di Savoiroux si guadagnava in Crimea la Croce di Savoja al merito militare.

Nella campagna del 1859, il reggimento poi si distinse alla Sesia, a Palestro, a Magenta e, una parte, a San Martino; qui il 2° e il 3° squadrone ebbero la Menzione onorevole.

Ma dove risplende fulgida la pagina delle sue glorie, è a Villafranca il 24 giugno del 1866. È là che lo stendardo di Alessandria ebbe quella Medaglia d’argento al valore della quale va ornato.

Fu perciò nobilissimo e opportuno il pensiero dell’allora suo comandante, colonnello Greppi, di degnamente commemorare i cinquant’anni della sua creazione; prendendo a base ed occasione della festa il vecchio stendardo, sventolante sui campi di Crimea; quello che, per volontà di S. M. Vittorio Emanuele II, veniva cogli altri ritirato nella regia armeria della Capitale piemontese. [p. 203 modifica]S. A. R. il conte di Torino, colonnello comandante allora i Lancieri di Novara, intervenne alla solennità in nome di S. M. il Re.



Egli, la mattina del 24, montato a cavallo, con a fianco il colonnello Greppi, e scortato dalle rappresentanze di Piemonte Reale, Novara, Aosta, Saluzzo, Monferrato e Lodi — più, tutto il reggimento [p. 204 modifica]Alessandria in armi — si recò verso le 9 a ricevere alla stazione di Porta Vescovo il glorioso antico vessillo.

Contessa Miniscalchi.

Nel frattempo, gentilmente invitate, si raccoglievano nel quartiere Campone tutte le autorità civili e militari — in servizio attivo, di complemento e di riserva — e uno stuolo eletto di cavalieri e di dame graziose; fra le quali le signore patronesse del Gymkhana che doveva aver luogo il dì dopo, con a capo la contessa Miniscalchi Erizzo.

Lungo tutto il percorso del corteo, così nell’andata che nel ritorno, grande era l’animazione della città, tanto della destra che della sinistra d’Adige. Le finestre imbandierate e addobbate, erano stipate di cittadini plaudenti; e davvero non si sarebbe detto in quel momento che nella parte bassa della capitale Scaligera, spuntasse, insidiosa, la pianta del socialismo.

La qual cosa proverebbe che ogni parte d’Italia, checchè se ne dica, checche se ne pensi, al tocco di certe corde patriottiche, sa patriotticamente rispondere.... almeno finora!

Scoccavano le 10 — ora dell’invito — e il conte di Torino colla precisione dei Re, arrivava al Campone con tutto il suo seguito.

Ivi, dopo le presentazioni di rigore, assistette da cavallo all’inaugurazione della lapide — bellissimo lavoro dello Sperati di Torino — sulla quale, scolpite in oro, si leggono queste parole:

NEL CINQUANTESIMO ANNIVERSARIO DI LORO FONDAZIONE
I CAVALLEGGERI D’ALESSANDRIA
RICORDANDO I PRODI DEL REGGIMENTO CHE COMBATTENDO
CADDERO PEL RE E PER LA PATRIA



STENDARDO
MEDAGLIA D’ARGENTO AL VALOR MILITARE
PER L’IRRESISTIBILE SLANCIO SPIEGATO NEL GIORNO 24 GIUGNO 1866
DA TUTTO IL REGGIMENTO
NEL CARICARE TANTO IN SQUADRONI ISOLATI CHE RIUNITI
RESPINGENDO I VIGOROSI ATTACCHI DELLA CAVALLERIA NEMICA


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Seguono i nomi degli ufficiali e soldati morti e feriti, e le decorazioni da questi conseguite nei
diversi fatti d’armi cui avevano preso parte.

A destra e sinistra della lapide, si vengono a collocare i due stendardi; dei quali il più antico rammenta la guerra di Crimea, e l’altro la Sesia e Villafranca. Il primo è portato dal capitano aiutante maggiore Solaro del Borgo, il secondo dal sottotenente Lorenzo Spadaccini, Portastendardo del reggimento.

Sindaco ed assessori appendono una corona alla lapide, come omaggio della città.

Schierato il reggimento su tre lati, il colonnello Greppi sguaina la sciabola, e dato l’attenti! addita la lapide, e a voce alta e vibrata dice:

“Cavalleggeri! — nel cinquantesimo anniversario della formazione del reggimento, io affido a voi questa lapide, nella quale stanno scolpiti i nomi di coloro che ci hanno preceduto, e che, combattendo valorosamente, caddero morti o feriti sui campi di battaglia, per il Re e per la Patria!

Leggete sovente quei nomi, perchè v’abbiano a rimanere impressi nella mente e nel cuore come un ricordo e una promessa: il ricordo delle glorie passate — la promessa di glorie future.

Sono cinquant’anni che i primi cavalleggeri d’Alessandria giurarono fedeltà e devozione al Sovrano, colle stesse parole e lo stesso cuore col quale avete giurato voi.

Ripetiamo ora, davanti questa lapide, quel giuramento, perchè ci diventi doppiamente sacro, e lo accompagni quel grido che guida gli squadroni alla vittoria: il grido di Savoia! — Evviva Savoia!„

Un altro grido assordante, ripetuto da mille voci echeggiò per il vasto ambiente dopo le nobili parole del bravo colonnello. Il reggimento sfilò davanti agli stendardi e la parte militare della cerimonia finì.


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II.


1866. — Le note di Ulderico Levi. — Cesare Stucchi. — Vincenzo Tacchetti. — Luigi Rosini. — Armando Vitali. — Camillo Dal Verme. — Luigi Mazzola. — Alberto Bottagisio.


Il generale Alfonso Lamarmora il quale, come ognuno sa, nella poco lieta campagna del 1866, era Capo di Stato Maggiore generale dell’Esercito — quel Lamarmora che noi preferiamo di ricordare nella sua azione militare in Crimea; o, meglio, in quella più brillante, esplicata accanto al
gran Re Vittorio Emanuele nel 1859 — il generale Lamarmora, diciamo, il 19 giugno 1866, lanciava all’Esercito, già in assetto di guerra, quel famoso dispaccio:

“D’ordine di S. M. il Re, questa mattina si è mandata all’Austria la dichiarazione di guerra, avvertendola che fra tre giorni si darà principio alle ostilità. Salvo il caso che gli Austriaci non accettino quella dilazione di tre giorni, le ostilità incominceranno il mattino del 23. Durante questi tre giorni, le truppe dovranno guardarsi e prendere tutte quelle misure e precauzioni necessarie in faccia al nemico.„

Fu tale e tanto l’entusiasmo, il giubilo, che quell’annunzio sollevava in tutte le armi, da venire salutato con canti, balli, corse nei sacchi.... fino al punto di vedere gli ufficiali ballare coi propri soldati!

[p. 207 modifica]Innumerevoli, come vedremo, furono gli atti eroici, e di abnegazione, compiti e prima e durante la cruenta giornata del 24 giugno. Un pittore, caporal furiere in Genova Cavalleria — il Gabani, ora defunto, autore egregio di alcuni quadri che rappresentano i fasti di quel reggimento — scrivendo un giorno al colonnello Vicino Pallavicino, narrava a mo’ d’esempio, fra gli altri, il caso di un soldato del secondo squadrone — certo Aviena, piemontese — il quale, risultando ammalato, doveva entrare all’ospedale, proprio nel momento che nell’aria si sentiva l’odore della polvere. Egli non ne volle sapere; pregò, scongiurò che lo si lasciasse seguire il reggimento, giacchè, finalmente, era giunta la occasione di menare le mani!.... Ma il medico — capitano Piras — fu irremovibile. L’Aviena doveva entrare all’ospedale ad ogni costo!... Disperato, che cosa fa allora? Si ritira sotto la tenda, carica un pistolone.... e si fa saltar le cervella!

Un altro fatto, meno tragico, ce lo narra il senatore Ulderico Levi, già sottotenente nel reggimento Guide — quel bel reggimento che, insieme agli Usseri di Piacenza, fu una delle vittime della smania livellatrice del Ricotti — il bravo Levi, apparteneva allo squadrone comandato dal marchese Fernando Scarampi di Villanova, il biondo elegante ufficiale piemontese; squadrone del quale facevano pure parte, il luogotenente Sansone dei duchi di Torrefranca, napoletano, e il sottotenente Giuseppe Cassinis, bresciano, cui appunto riguarda il fatto seguente.

Quest’ultimo nel provare una rivoltella, il giorno prima della battaglia, ebbe perforata la mano sinistra. Ferirsi alla vigilia di una battaglia! C’è disgrazia maggiore che possa capitare a un valoroso ufficiale, pronto a dar la vita per la patria? Ed ecco che il Cassinis, malgrado la mano forata, legate le redini al braccio sinistro, soffrendo come un dannato, carica col suo squadrone, e non vuole entrare all’ospedale che a combattimento finito!

Lo stesso Levi, permettendoci lo spoglio di alcuni suoi appunti presi due giorni dopo la battaglia, ci narra altresì un episodio che riguarda un soldato volontario di artiglieria, ferito a Custoza — il quale è vissuto fino a ieri con un solo polmone — il signor Cesare Stucchi, milanese.

Ecco la parte degli appunti che riguardano quel fatto.

“...... Posta in moto la colonna — il Levi scrive — rimango alla retroguardia, e levo le ultime vedette, a seconda dell’ordine ricevuto dal mio valoroso capitano. Ma mentre sto per risalire a cavallo, vengo chiamato da una donna, la quale vuol farmi vedere un ferito, che giace al primo piano della sua casetta. Salgo in fretta, seguito da un furiere dei bersaglieri. A piedi dal letto, disteso immobile a terra, vedo un bel [p. 208 modifica]giovanotto, soldato d’artiglieria che, così a occhio e croce, giudico un volontario....

"Il furiere dei bersaglieri dice di lasciarlo stare, perchè tanto, non ci è più nulla a fare....

"Io esito, poi scosso dal muovere degli occhi che il poveretto fa verso di me, mi decido a farlo trasportare su uno dei carri, che avevamo con noi, e lo faccio condurre in una cascina, al sicuro, per essere medicato.



"Speriamo — conclude il Levi nelle sue note — che non si avveri la profezia del furiere!„

Ma fu tale la impressione ch’egli dice d’aver riportata alla vista di quel bel giovane moribondo, che, quantunque a lui sconosciuto, volle ricordarne la memoria in un quadro, dovuto al pennello del Crespi.

In quella tela, il soldato incognito steso a terra, è lo Stucchi; l’ufficiale, che inginocchiato accanto a lui lo assiste, è Ulderico Levi, vestito della sua celeste divisa di sottotenente nelle Guide; Ulderico Levi, oggi senatore del Regno e capitano di cavalleria nella riserva, decorato a Custoza.

Ma il più curioso è per davvero questo, ch’egli fece dipingere il quadro senza manco conoscere di nome, nè sapere se vivesse ancora [p. 209 modifica]l’eroe dipinto. E non fu che ad Acqui, nel luglio 1884 — cioè diciott’anni dopo — ch’egli, raccontando per la centesima volta quel suo incontro in un crocchio di bagnanti, il milanese e compianto senatore Rinaldo Casati, lì presente, che aveva sentore del fatto, udito il racconto, esclamò subito:

El sarà el Stücch!

Fu per tal modo che il sottotenente delle Guide, e il volontario ferito d’artiglieria, poterono finalmente incontrarsi e abbracciarsi, dopo tanti anni! Ed è così che il Levi potè sapere dallo stesso in che modo la nera profezia del furiere dei bersaglieri, fosse stata sbugiardata. Perocchè lo Stucchi, raccolto in quel luogo dal padre e dal fratello, potè essere medicato e curato nell’ospedale di Brescia; d’onde ne uscì guarito.... ma lasciandovi in pegno.... un polmone, col quale visse fino al 1906. Possano questi cenni del loro caro essere di conforto — ahi, piccolo conforto! — al dolore della vedova ed alla sua figlia diletta.



Epperò, torniamo al quartiere di cavalleria che i veronesi chiamano Campone.

Sceso da cavallo S. A. R. il Conte di Torino, dopo rivolto un grazioso saluto alle dame — che affollate alle finestre del quartiere, assistevano alla cerimonia — stretta la mano ai presenti, si fermò davanti a due gentiluomini vestiti dell’abito borghese, decorati di croci e di medaglie al valore militare: i nobili Rosini e Tacchetti, veronesi.

Trovatosi in faccia al Rosini, il Principe si fermò in atto deferente. E il Principe aveva ragione!

Perocchè il sottotenente Rosini a Villafranca s’era coperto di gloria. Nell’impeto di una carica, avendo il keppy strappato da un ramo di gelso, s’era slanciato a testa nuda contro un manipolo di Usseri, che lo circondarono per farlo prigioniero. Si difese come un leone. Le numerose ferite ricevute alla testa, lo resero quasi cieco pel sangue di che grondavano; finchè, estenuato, cadde come morto sul terreno.

Raccolto boccheggiante verso sera, gli si riscontrarono sulla testa e pel corpo ben dieci ferite di taglio e di punta, di cui risente ancora il glorioso sì, ma poco comodo regalo; e alle quali miracolosamente [p. 210 modifica]sopravvisse — come, in quasi identiche condizioni, potè cavarsela il sottotenente nel 3° squadrone Guide, ora tenente generale, Vittorio Asinari di Bernezzo, del quale parleremo nella seconda parte di questo libro.

“Questo valoroso e simpatico ufficiale che abbiamo la fortuna di vedere spesso fra noi„ — dice, parlando del Rosini, l’opuscolo succitato — “e al quale invidiamo le traccie delle sciabolate austriache, ci è doppiamente caro, sia per le sue doti personali, sia perchè è l’immagine
Armando Vitali.
vivente della più bella gloria della nostra Alessandria.„

Gentile omaggio, al quale non resistiamo di aggiungere il nome di alcuni altri prodi, che non sono più; tre dei quali lasciarono, quel giorno stesso, la vita sul campo.

Vogliamo alludere al milanese Armando Vitali, ai tenenti Camillo Dal Verme e Mazzola, al capitano Marchesi de’ Taddei; e, sovra tutti, a quell’eroe temerario ch’era il colonnello Enrico Strada, comandante il reggimento Alessandria.

Armando Vitali era nato di famiglia nobile milanese, e fu uno dei nostri compagni volontari nel 1859. Per la rigidezza del suo corpo, così nell’andare che nel cavalcare, noi lo chiamavamo l’uomo di ferro; e fu un soldato modello, che di quel metallo risentiva davvero. Nel 1866 aveva il grado di luogotenente, e doveva in quei giorni passare capitano. Egli, ai primi di giugno, in una manovra in sulla Trebbia, cadendo da cavallo, s’era rotto la clavicola della spalla destra. Il suo colonnello volle che andasse a Milano in cura; nè mai si sarebbe sognato di vederselo, dopo pochi giorni, cioè il 23 dello stesso mese — non ancora guarito e nella impossibilità di maneggiare la sciabola — capitare davanti per chiedere, come atto di grazia, di volergli riaffidare il comando del proprio plotone!

Dapprima, pur ammirando la buona intenzione del Vitali, poco mancò che lo Strada non gli desse del matto; ma poi, furono tali le esortazioni di lui, che finì coll’aderire.

E la mattina del 24, mentre il bravo colonnello, alla testa di una piccola parte del suo reggimento, caricava a Villafranca gli Ulani, egli, il [p. 211 modifica]Vitali, galoppando alla testa del suo reparto, si cacciò nel folto della mischia per il primo. Circondato, assalito da più parti, non potendo far uso della sciabola, cadde morto sotto un poderoso fendente che, a detta dei presenti, gli staccava quasi la testa dal busto.

Quella morte tragica fece spargere molte lagrime a Milano, dove il Vitali aveva numerosi e affettuosi amici e parenti, da quella notizia fieramente colpiti.

 
Luigi Mazzola.

E gloriosa fine ebbe pure il luogotenente nobile Luigi Mazzola; il quale, avendo il proprio cavallo ucciso, lottò da terra, corpo a corpo cogli stessi Ulani, non cedendo la vita che alla brutalità del numero.

Ma il tributo di sangue che la società milanese diede quel giorno alla patria, non si fermò soltanto ad Armando Vitali; dovette registrare, fra l’altre, anche la morte straziante del giovane conte Camillo Dal Verme, ch’era luogotenente nel primo squadrone del reggimento Guide.

Il conte Camillo Dal Verme fu, anch’egli, uno dei volontari milanesi del 1859, con noi, nell’istesso anno, passato ufficiale. Apparteneva a una delle più illustri famiglie del patriziato lombardo ed era anche un geniale pittore. Nella giornata del 1866, a Custoza, rimase mortalmente ferito in una delle cariche eseguite dal suo squadrone. Non restò morto sul campo; ma si spense in mezzo a spasimi atroci, a Monzambano, dove era stato portato e adagiato sopra un giaciglio di paglia. Il Dal Verme, comandato alla leva a Bari, pochi giorni prima che venisse l’ordine di entrare in campagna, tanto fece e tanto disse, che potè raggiungere il suo squadrone a Bagnolo di Brescia, il 20 giugno 1866. Quattro giorni prima, cioè, della battaglia e della sua morte.

Cesare Stucchi, il volontario di artiglieria dianzi nominato, il quale, portato via il Dal Verme, veniva adagiato sullo stesso pagliericcio, narrò di quella morte alcuni ragguagli che stringono il cuore. Egli vide là, su quel mucchio di paglia, una specie di gomitolo, il quale nulla più [p. 212 modifica]conservava della forma umana; perocchè la palla entrata traversalmente negli intestini, costringeva il povero paziente, nello spasimo del dolore, a contrarsi, rattrappirsi, raggomitolarsi, in modo orrendo. La bella faccia serena e gioviale del buon Camillo, emaciata, livida, chiazzata di sangue, era irriconoscibile. Gli ultimi tratti dell’agonia gli facevano schizzare gli occhi dall’orbita, fissi, vitrei, spaventosi. Era una pietà ed uno sgomento! — Pregare Iddio di farlo morire presto! — E morì.... e finì di penare!
Conte Camillo dal Verme.
— E quella morte parve un sollievo, non solamente per lui, ma per chi lo vedeva soffrire.

Caro e buon Camillo! che quella patria alla quale hai dato il sangue, ricordi almeno il tuo nome!

Il capitano comandante il primo Squadrone Guide, marchese Fernando di Villanova, comunicava la dolorosa morte di Camillo, al fratello conte Giorgio Dal Verme, colla seguente lettera:

«Volta, 26 Giugno 1866.


Signore,

Con l’animo ripieno del massimo dolore, compio ad un triste ufficio, che non osai partecipare io stesso alla Contessa Dal Verme. Suo fratello Camillo, tenente nel mio squadrone, slanciandosi pel primo contro il nemico insieme con i suoi soldati alla difesa del ponte di Monzambano, cadeva colpito da una palla nel ventre e spirava poche ore dopo fra le mie braccia. Le ultime sue parole furono per la sua famiglia cui mandava un affettuoso saluto. Non cercherò lenire il dolore che questa risentirà per tale notizia, ma solo dirò a Lei ed alla madre, che Camillo non ha sofferto; sereno, tranquillo, rassegnato, ebbe campo a ricevere tutti i conforti della religione; lasciava, mi disse, volentieri la vita per la patria, pel Re. La sua fine fu tale da fare invidia ai più prodi, e se lo squadrone sarà portato all’ordine del giorno, lo si deve in massima parte al brillante suo coraggio, all’indomabile suo valore. Possano queste considerazioni recare qualche conforto alla desolata famiglia, come servono di esempio a me ed all’intero Reggimento! Ho potuto ritirare la sua sciabola, il revolver e la sciarpa che portava al momento della sua morte, le [p. 213 modifica]
 
Il tenente Dal Verme cade ferito a morte.
 
[p. 214 modifica]conservo gelosamente per renderle alla famiglia. Mi parlò di carte importanti e di iscrizioni ipotecarie che dovevano trovarsi in una borsa a tracolla, la quale fu bensì rinvenuta ma completamente vuotata. I cavalli sono allo squadrone ed aspetto in proposito i di Lei cenni. La prego di voler assumere il pio compito di istruire di tale gloriosa ma immatura morte la madre ed il padre di Camillo, dica loro che tutto il Reggimento più che non lo rimpianga, lo ammira, e che rassegnati al volere del Cielo facciano con pazienza il sacrifizio del figlio sull’altare della patria. Altro non aggiungo, vi sono dolori che non si consolano. Le stringo la mano e la prego perdonarmi se la nostra conoscenza si fa in modo così dispiacevole. Ho l’onore di significarmele con tutta stima

Suo devot.mo
Marchese Fernando di Villanova
«Capitano com.te il I° Squad.ne Guide».



Questa bella lettera, che non allude alle sofferenze ultime del povero Camillo, è una bugia pietosa del bravo capitano.

Più fortunato del povero Dal Verme, fu Cesare Stucchi; questi, malgrado la palla nel polmone, portato quasi morente a Monzambano, riesci invece a guarire e a diventare marito e padre felice.

Ma come se la cavò lo Stucchi?........ L’abbiamo detto: con un polmone di meno. Da buon patriotta, forse pensò allora che avendone due, poteva benissimo sacrificarne uno per amore di patria.

C’incontrammo, Viaggiando poco tempo addietro in ferrovia, ed egli ci ripetè il racconto appuntino. Passando in vista di Custoza, si tornò col pensiero a quei bei giorni di palpiti, di gloria.... d’illusioni. E io gli chiesi: — Pare a te che la vita di Camillo Dal Verme.... e il tuo polmone, siano stati bene spesi?

Non rispose. Ci guardammo a lungo. Ci stringemmo la mano.... e si cambiò discorso! — Ora è morto anche lui!


Un altro bravo volontario, che si segnalò in campo, è il veronese Alberto Bottagisio. Il Bullettino delle ricompense del 1866, portava:


“S. M. il Re ha conferito la Medaglia d’argento al valore militare al sottotenente nel Reggimento Lancieri di Foggia, Bottagisio Alberto; perchè assendo di scorta alla Brigata di Artiglieria, contribuì grandemente a sgombrare dalla cavalleria nemica la testa di colonna della Batteria stessa, rendendo così possibile la difficile discesa di uno de’ suoi pezzi sulla pianura. — Custoza 24 giugno 1866„.


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III.


Malacchia Marchesi de’ Taddei. — Pietro Porro, suo biografo.


Ma qui non finisce la pagina degli eroismi. Avremo più tardi l’occasione di fare il nome di molti altri; intanto ci preme di dire una parola del Marchesi de’ Taddei, capitano allora in Alessandria.

Il nobile Malacchia Marchesi de’ Taddei era nato a Casalmaggiore di Cremona il 19 agosto 1834, da Luigi e dalla nobile Carolina De Cristoforis, milanese. Aveva menata in moglie la signorina Maria Nasi nel 1875, cioè tre anni prima che morte immatura lo cogliesse a Napoli il 23 gennaio 1878.

Principiò la sua carriera militare il 21 giugno 1854 nell’Undecimo Reggimento Ulani, sotto l’Austria. Cadetto-caporale nel 1855, sergente nell’aprile 1858, fu promosso sottotenente nell’agosto dello stesso anno. Venuto il 1859, allo scoppio della guerra, passò luogotenente e fu mandato alla frontiera contro i Prussiani.

L’Austria, in questo, aveva avuto buon naso. Nell’Undecimo Ulani
 
Marchesi de’ Taddei.
militavano parecchi italiani, i quali si sarebbero rifiutati di combattere in patria contro i propri fratelli.

Ma quel bel giovane biondo dalla dolce fisonomia, sotto l’elegante divisa dell’Ulano austriaco, sentì battere prepotentemente il cuore d’italiano; e non appena gli fu possibile, si dimise, e venne in patria. Correva allora l’aprile del 1860. Comprese subito che un certo sentimento di diffidenza tra la ufficialità italiana doveva nascere, come nacque, verso i provenienti dall’Austria, e cercò un primo lavacro, accorrendo nel luglio di quello stesso anno, a far parte del battaglione Volontari di Bologna, destinato all’Italia meridionale. Nell’agosto del 1860, venne inscritto col grado di luogotenente nell’arma di cavalleria dell’Esercito Sardo, con riserva di anzianità; e fu contemporaneamente collocato in aspettativa per scioglimento di Corpo, dopo avere, col grado di sottotenente, fatta la campagna della Bassa Italia in un reggimento della Brigata Sacchi.

[p. 216 modifica]Finalmente, arrivò anche per lui il momento tanto sospirato!

Il 7 di novembre di quell’anno medesimo, eccolo chiamato, col grado di luogotenente, in servizio attivo nei Cavalleggeri di Lodi, dove fu presto nominato aiutante maggiore.

Promosso capitano, entrò poi — 6 maggio 1862 — nei Cavalleggeri d’Alessandria.

Tenuto in conto di ufficiale distinto, venne per poco aggregato al Corpo di Stato maggiore; ma quel mestiere non era fatto per lui. La sua anima, il suo corpo, volevano una vita più attiva; e, fosse il presentimento della gloria che lo aspettava, od altro, tanto fece e tanto pregò, che nel luglio 1864 fu rimandato al comando del suo caro e amato squadrone.

Ed eccolo a Villafranca il 24 giugno 1866!

Quel giorno, trovandosi collo squadrone di avanguardia alla Divisione di S. A. R. il principe di Piemonte, guidata dal capitano di Stato Maggiore conte Rinaldo Taverna — ora generale nella Riserva, senatore del Regno, e presidente della Croce Rossa — seppe, con grandissimo slancio, arrestare un convoglio diretto a Verona: farne prigioniero il personale di servizio e catturare l’ufficiale telegrafico, nel momento che stava informando il Comando generale austriaco dell’arrivo in quel posto dei nostri.

Nè ciò basta. L’ardito capitano, più tardi, avvertita una furiosa carica degli Ulani — che per punto di mira avevano preso il Principe Umberto — col suo solo squadrone, si slanciò contro l’intero reggimento nemico. Gli Ulani caricati di fianco, deviano, e vanno così a incontrarsi nei quadrati del 49 e 50 fanteria, che intanto avevano avuto il tempo di rapidamente formarsi.

Il futuro Re d’Italia, impassibile, in mezzo al suo quadrato — circondato dallo Stato Maggiore divisionale: Ferrero e De Sonnaz, maggiore Ulbrich, capitano Taverna, tenente Serego Allighieri, sottotenente Ponza di S. Martino, Trivulzio, Luigi Visconti di Modrone; e dal suo primo aiutante di campo Generale Revel cogli ufficiali d’ordinanza Gianotti, Cagni, Roero, Bertola e Brambilla — si preparava a vendere cara la vita.

Ritiratisi gli Ulani, il capitano Marchesi, coi pochi superstiti del suo squadrone, non ancora contento, piomba in coda alla loro colonna Ha il cavallo mortalmente ferito. Circondato da parecchi Ulani, sostiene la lotta corpo a corpo: disarma un soldato nemico, cui prende il cavallo, e rimonta in sella. Ferito, continua a battersi per tutta la giornata. Queste ultime note noi le riproduciamo da quel brevetto che recava al capitano Marchesi de’ Taddei la Medaglia d’oro al valore.

Corra a quel prode, colla stima e l’affetto di chi l’ebbe a compagno, il nostro pensiero riverente, là, presso il tumulo glorioso, nel cimitero della sua nativa Cremona.

[p. 217 modifica]Ma qui lasciamo la parola e un testimonio oculare, che ebbe pure parte attiva e brillante in tutta la giornata: vogliamo dire al compianto conte Pietro Porro — una delle prime e volontarie vittime africane — il quale, pochi giorni dopo la morte del Marchesi de’ Taddei, volle scrivere in suo onore, nella Perseveranza del febbraio 1878, una stupenda appendice non abbastanza conosciuta e lodata, causa la vita effimera di un giornale, e intitolata Villafranca 27 giugno 1866, il Quadrato del Principe Umberto.

Prima però ci corre il debito di accennare ad altre pubblicazioni sugli stessi fatti; una di queste dovuta a quell’indefesso lavoratore, amico dell’Esercito, che si chiama Quinto Cenni — anima modesta e disinteressata di giornalista e di patriotta, il quale non vive, non lavora e non pensa che per la gloria e il bene del soldato; specialmente del soldato di cavalleria, suo primo amore. Quinto Cenni, a questo suo amore, dedicò tempo e quattrini; ma, a compenso di tanti sacrifici, egli non raccolse che.... l’intima soddisfazione — troppo poco davvero! — di aver compiuta un’opera utile e buona.

La sua Rivista militare, sostenuta per molto tempo con gravi sacrifizi, l’album Custoza 1848-66 — in collaborazione col bravo Archinti — e il Centenario di Saluzzo, basterebbero a fargli erigere, dall’oggetto dei suoi amori, dall’Esercito di cavalleria.... almeno un busto!

Detto ciò, torniamo a Pietro Porro, a quell’altro patrizio milanese, anche più degli altri dolorosamente perduto. Questi, prode soldato e ardito esploratore, dopo essersi circondato di gloria a Custoza, ufficiale anch’egli nei Cavalleggeri d’Alessandria, volle rendersi utile alla patria con altre imprese: volle mettere l’ingegno, le giovani sue energie, a disposizione della Società Geografica di Milano, recandosi imperterrito a inaffiare, le ardenti e traditrici arene africane, del suo buon sangue lombardo.

Ed ecco quello che intorno alla giornata di Custoza egli scriveva:

“..... Alle cinque e un quarto antimeridiane S. A. R. il Principe Umberto giungeva, con quasi tutta la sua divisione, in vista di Villafranca: fermò la testa della colonna per serrare le distanze, e profittò del tempo così impiegato per riconoscere Villafranca, e le strade che di là si diramano verso Povegliano, Verona e Sommacampagna. Per compiere questa operazione, S. A. incaricò uno squadrone della cavalleria divisionale e due battaglioni di bersaglieri. A un tiro di fucile da Villafranca, il capitano Marchesi de’ Taddei, comandante del riparto di cavalleggeri, fece prendere il galoppo al suo squadrone ed entrò in città, fermandosi dove comincia la strada postale di Verona.

I bersaglieri, a passo di corsa, appoggiarono la punta della cavalleria.

[p. 218 modifica]Il capitano di Stato Maggiore conte Taverna, il quale era entrato in Villafranca colla cavalleria, fece rapidamente percorrere da drappelli e pattuglie tutte le vie; e fu presto constatato che il paese non era occupato dal nemico. Allora il capitano Marchesi, sempre nel dubbio che vi fossero cavalieri nemici dietro il rialzo della ferrovia, vi si lanciò di carriera.

Era uno di quei momenti in cui non si vede ancora il nemico, ma lo si sente;
Rinaldo Taverna.
perciò S. A. dato l’ordine a tutte le divisioni di traversare Villafranca, e porsi in linea colla fronte verso Verona, fece avvertire il generale Ferrero di coprire lo spiegamento.

Il generale Ferrero, comandante la Brigata Parma, fece distendere i bersaglieri fra la strada postale e ferroviaria, e spinse in esplorazione il terzo squadrone Alessandria verso Calori e Ganfardine.

Il capitano Marchesi, veduta della cavalleria vicino a Ganfardine, vi accorse al galoppo, credendoli Usseri austriaci: trovò invece il secondo squadrone d’Alessandria, comandato dal Falsina, che lo avvertì come si fossero veduti cavalieri nemici appartenenti a diversi corpi, verso Sommacampagna.

Il capitano messosi a contatto colla cavalleria della Divisione Bixio, fece suonare la raccolta e si ritirò su S. Giovanni, lasciando un plotone di retroguardia....

Una sezione della Undecima batteria comandata dal luogotenente Ferrari del 5° Reggimento artiglieria, si portò in posizione sulla Strada Villafranca-Verona.

Questi, guardando verso la città, scorse dei cavalieri sullo stradale, e ne avvertì immediatamente il generale. Il luogotenente Adamini dei Cavalleggeri d’Alessandria, volle riconoscerne il numero. Mentre avanzava, vide un ufficiale, seguito da una cinquantina di ussari che gli venivano incontro a briglia sciolta. I cavalieri italiani ebbero appena il tempo di gettarsi a destra e a sinistra della strada in rialzo, mentre il Ferrari, fatto esplodere due granate fermò gli ussari, uccidendo l’ufficiale e una ventina d’uomini e cavalli, che rimasero tutto il giorno, come barricata, in mezzo la strada„.

[p. 219 modifica]

IV.


Il quadrato.


“Sua Altezza Reale — continua il Porro — udite quelle prime cannonate, accorse per conoscerne egli stesso la causa. Udendola, ordinò che la destra e la sinistra della Brigata
 
Maggiore Minotti.
Parma si ritraessero alquanto, formando quasi due sistemi di scaglioni, uniti da una punta comune, avanzata in San Giovanni; per potere, nel caso d’un improvviso attacco di Cavalleria formare una linea di quadrati obbliqui, disposti ad angolo col vertice verso Verona. Il 3° squadrone d’Alessandria si collocò a sinistra della prima linea della brigata Parma; il 2° squadrone — capitano Falsina, luogotenenti Villa, altro bravo volontario milanese, e Fusoni; sottotenenti Perozzi e Rossi — squadrone che apparteneva alla divisione Bixio — fu provvisoriamente trattenuto da S. A. R. e collocato a sinistra della seconda linea della stessa Brigata.

Il Principe Umberto, circondato dal suo stato maggiore, stava dando ordini ai generali conte di Revel e Ferrero; quando il maggiore Minotti, dei Cavalleggeri d’Alessandria, annunziò una carica di cavalleria; e già il capitano Marchesi gettavasi innanzi con quanti dei suoi poterono udirlo in quel frangente.

Era il 13 ulani — conte di Trani — che a stormi caricava furiomente, in direzione di Sommacampagna-Villafranca, il fianco sinistro della XVI divisione.

Per una provvidenziale combinazione, i pochi cavalleggeri, frapponendosi fra gli Ulani e lo Stato maggiore di S. A. R., riuscirono a disordinare ed a togliere l’impeto, se non a fermare, allo squadrone nemico, che caricava direttamente il Principe. Gli austriaci urtarono il brillante e numeroso Stato maggiore del Principe.... In un istante tutto scomparve tra il fumo ed il polverone.... e per pochi momenti mille cuori italiani [p. 220 modifica]palpitarono d’angoscia. Ma quando, sfuriata la prima carica, spazzata l’atmosfera dal vento, comparve in mezzo al quadrato del 4° battaglione del 49°, il futuro Re d’Italia fu un: — Savoia! — generale. Il Principe Umberto, con pochissimi del suo seguito, era rimasto in sella e s’era gettato nel quadrato, traversando la cavalleria nemica„.



Interrompiamo la lettura per dedicare due parole al valoroso IV Battaglione del 49 reggimento che formò il famoso Quadrato di Villafranca; battaglione comandato dal maggiore Ulbrich, e che aveva sotto ai suoi ordini i capitani Cartoni, Crova, Provasi, e il milanese Paolo Frigerio; subalterni
erano i tenenti Trotti, Marchetti, Carassiti, Piazzola; e, sottotenenti, Menegoni, Federici, Mistrorigo, Piatti, Mariano, Zanella; più, il medico di battaglione Rolando. Si è detto che intorno al futuro Re d’Italia, chiuso nel Quadrato, erano i generali Thaon di Revel e Ferrero; Giuseppe de Sonnaz colonnello di Stato Maggiore: i capitani Bertola, Gianotti, Brambilla, Roero di Settime, Taverna, Trivulzio e Luigi Visconti di Modrone. Per quel fatto il maggiore Ulbrich comandante il battaglione ebbe la Croce dell’Ordine militare di Savoja; il colonnello comandante il Reggimento, la Medaglia d’argento; il comandante la Brigata, Ferrero, pure l’Ordine militare di Savoja, e il suo aiutante di campo Stievano, anch’esso la [p. 221 modifica]Medaglia. Ai quattro capitani, la Medaglia d’Argento, e quella di bronzo ai subalterni, sott’ufficiali e a qualche soldato.

L’annuario Militare del gennaio 1900 stampava:

“Il IV Battaglione del 49° Fanteria ottenne la Menzione onorevole per la prontezza e l’ordine con cui formossi in Quadrato il 24 giugno 1866 alla battaglia di Custoza, racchiudendo S. A. R. il Principe Umberto, e respingendo con coraggio, i ripetuti attacchi della cavalleria nemica.

Giulio Brambilla. G. G. Trivulzio.

A ricordo di questo segnalato atto di valore militare, il 10 agosto 1900, S. M. il Re Vittorio Emanuele III, donò al reggimento la sciarpa che apparteneva al suo Augusto Genitore, ordinando che fosse appesa all’asta della bandiera, in luogo del solito nastro di seta azzurra„.

Nobile e inspirato pensiero del giovane Re, degno figlio ed erede di quell’amato e tanto rimpianto principe di Savoia che il 24 giugno 1866, là a Custoza, chiuso nel suo Quadrato, combatteva come un leone, formando la meraviglia degli stessi Ulani prigionieri, che lo videro a difendersi impavido, e sempre in prima linea di combattimento.

Volle, inoltre, S. M. in quell’occasione ricordare i superstiti ufficiali, ancora viventi del famoso Quadrato, benchè non più in servizio, [p. 222 modifica]decorando, nell’Ordine Mauriziano: il tenente generale Ulbrich — allora maggiore comandante il battaglione, colla Commenda: il colonnello Zanella allora sottotenente — colla croce di ufficiale: il capitano Paolo Frigerio, con quella di cavaliere.

E nell’Ordine della Corona d’Italia: a commendatori, il colonnello Palizzolo, e il tenente colonnello Carassiti — allora sottotenenti. Nominò cav. ufficiali i tenenti colonnelli Trotti e Menegoni — uno tenente allora, e l’altro sottotenente — e, per ultimo, a cavaliere l’allora sottotenente Magliano.

Luigi Visconti di Modrone.


Detto ciò, continuiamo a leggere quello che il povero Porro scriveva:

“Il capitano Falsina, sebbene avesse mezzo disciolto lo squadrone per la carica ricevuta quasi di pie fermo, inseguì in coda gli Ulani, ma perdette parecchi uomini pel fuoco incrociato de’ quadrati e de’ gruppi della fanteria italiana.

I cavalieri austriaci si fermarono e si riordinarono al di là della ferrovia. Poscia si posero in ritirata, al trotto, sulla strada di Verona.

Il bravo Marchesi, il quale aveva intanto riordinato lo squadrone, piombò allora sul fianco ed in coda della loro colonna!... Ulani e cavalleggeri, frammischiati, percorsero insieme al galoppo la strada, sciabolandosi. Finchè, giunta quella massa eterogenea, nel punto dove giacevano [p. 223 modifica]ammonticchiati i cadaveri de’ cavalli degli Usseri uccisi qualche ora innanzi dalla nostra artiglieria, fu arrestata. I primi cavalieri caddero, la massa sopravveniente si rovesciò sopra di essi; poi, uomini e cavalli caddero rotoloni a destra e sinistra della strada. Degli ufficiali italiani il solo luogotenente Adamini — il primo che s’incontrava colla cavalleria nemica alle ore quattro del mattino — rimase in sella; il capitano Marchesi ebbe morto il cavallo e fu ferito in una gamba....


Luogotenente Adamini.


Intanto, uno squadrone di Ussari s’avanzò in sostegno degli Ulani, e questi si prepararono ad una terza carica. Marchesi, Perina, Palizzolo e Adamini, aiutati dai pochi uomini rimasti in sella, s’impadronirono dei cavalli sbandati, li montarono, e riunirono intorno una ventina di cavalleggeri. Ma la loro posizione sarebbe stata critica, lontani com’erano dalla fanteria italiana, se loro non fosse giunto un nuovo ed insperato soccorso da compagni che credevano lontani.

Al generale Della Rocca, arrivato in Villafranca pochi istanti prima, si era presentato il luogotenente Bertola, ufficiale d’ordinanza di S. A. R. il Principe Umberto, chiedendo urgentemente, a nome del Principe, della cavalleria per spazzare il terreno dinanzi al fronte della Divisione.

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— Dica a S. A. — rispose il generale Della Rocca — che le mando subito tutta la cavalleria che ho disponibile.

— Generale! — disse allora il colonnello Strada — ci ho qui uno squadrone del mio reggimento; mi permette ch’io ne assuma il comando e carichi con tutto lo stato maggiore?

— Vada! — fu la risposta.

In realtà, di disponibile non c’era che il 1° squadrone dei Cavalleggeri d’Alessandria
Cesare Galluzzi.
— capitano Uberti, luogotenenti nobili Vitali e Mazzola; sottotenenti nobili Rosini, conte Porro e Grassi — ed un plotone e mezzo del suo 5° squadrone, capitano Piovano; più, il maggiore Dogliotti, il capitano aiutante maggiore conte Magnoni, il luogotenente nobile Galluzzi, i due sottotenenti fratelli Oberty, e alcuni individui di bassa forza, tutti appartenenti allo stato maggiore del reggimento.

Il colonnello Strada collocò in colonna per quattro i cinque plotoni, attraversò Villafranca al galoppo, li fermò appena fuori della città e, oltrepassato il fronte della XVI Divisione, pose al trotto la colonna, ordinando al sottotenente Porro di stendere avanti e sulla destra in foraggieri il suo plotone, e di caricare a fondo in quella direzione. Ma appena questi si furono staccati, apparvero tra i fitti filari d’alberi, le lancie dei primi Ulani: e poscia tutto il reggimento che si avanzava al trotto, con uno squadrone d’Ussari in seconda linea. Il colonnello Strada fece immediatamente suonare la carica, ed al grido di — Viva il Re! — i Cavalleggeri d’Alessandria si lanciarono contro la linea de’ cavalieri nemici; che non resse all’urto.... s’aprì, e gli Ulani si dispersero in tutte le direzioni.

Il colonnello Strada, privo di sostegni, non volle che l’inseguimento sbandasse i suoi cavalleggeri; chiamò a sè tutte le trombe disponibili e fece loro squillare la raccolta a destra, a sinistra, e indietro, perchè fosse ripetuto il segnale in tutte le direzioni. Questo fragoroso strombettìo [p. 225 modifica]ottenne due brillanti risultati: fermare gli Ussari della brigata austriaca Pultz, che s’avanzava alla riscossa; dar tempo al capitano Marchesi di accorrere alla chiamata co’ suoi ufficiali, e con quella ventina di cavalleggeri del terzo squadrone, che aveva riuniti, ai quali si aggiunse pure il luogotenente Luigi Villa.

Dopo qualche esitanza, il 3° Ussari si avanzò in foraggieri, lasciando indietro, a destra, sulla strada Sommacampagna-Villafranca, uno squadrone.

 
Luigi Villa.

Il colonnello Strada, riordinati i suoi — 150 cavalieri, al più, compresi gli ufficiali — fece suonare il trotto da tutte le trombe: spinse, a destra, il maggiore Dogliotti, il capitano Uberti ed il sottotenente Porro, con una ventina di cavalleggeri, verso la strada di Verona; a sinistra, i luogotenenti Vitali e Mazzola ed il sottotenente Rosini, con altrettanti uomini; poscia, mettendosi egli stesso alla testa del grosso, fece di nuovo suonare la carica. I foraggieri austriaci, non aspettarono l’urto e volsero le groppe; solo lo squadrone che stava in linea sulla strada di Villafranca-Sommacampagna aspettò di piè fermo, caso rarissimo in cavalleria, il plotone dell’estrema sinistra nostra, e l’accolse con un fuoco di pistoloni. I luogotenenti Vitali e Mazzola, lanciatisi tra le file nemiche, vi rimasero morti; il sottotenente Rosini vi ricevette dodici gravissime ferite d’arma bianca. Ma piegando a sinistra il grosso de’ Cavalleggeri d’Alessandria, quello delli squadroni d’Ussari si ritirò alla carriera assai malconcio; mentre l’artiglieria austriaca, tirando a granata, annunciava una nuova carica di una brigata fresca, la Brigata Bujanovich.

Le trombe italiane suonarono di nuovo a raccolta; le perdite erano state gravi, la stanchezza de’ cavalli evidente; pure il colonnello Strada, non vedendo comparire nessun squadrone dei sei reggimenti di cavalleria che formavano parte del III corpo d’esercito, ordinò di nuovo la carica, incitando ufficiali e soldati perchè questa volta l’eseguissero ancora più a [p. 226 modifica]fondo, ed obliquassero poscia a sinistra, se mai non udissero il suono delle trombe.

Gli Austriaci, caricati di fronte con tanto impeto, e strepito, dal colonnello Strada, girati sul loro fianco sinistro dalla carica in foraggieri del maggiore Dogliotti, urtati sul destro da parte del secondo squadrone d’Alessandria,
 
 
e da uno dei lancieri di Foggia, si ritirarono; nè, fino a sera, dopo i successi ottenuti a Custoza, ritornarono all’attacco.„

Qui ci fermiamo collo scritto del Porro, anche per non cadere troppo in cose già dette; ma non possiamo a meno di indugiarci, con un’ultima parola, sull’attore principale degli allori del reggimento Alessandria in quella giornata; cioè sul nome del suo colonnello comandante Enrico Strada, e sulle sue cariche ormai leggendarie.



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V.


Enrico Strada. — Giuseppe Pianell.


Enrico Strada, è colui che — come scrisse il generale Della Rocca nella sua Autobiografia di un veterano — si compiaceva di seguire il nemico col frustino in mano: colui che, non contento di due cariche fatte, gli aveva chiesto — come dianzi ci narrava il conte Porro — la licenza di mettersi a capo di tutte quelle altre, anche parziali, che fossero per avventura occorsel — Gli avvenimenti di quella giornata ci dissero ch’egli ebbe campo di soddisfare al suo capriccio fino alla saturazione!

Il quale capriccio, però, non era il solo.... altri ne aveva, e parecchi d’indole diversa!

A mo’ d’esempio, dobbiamo citare, più che un vero capriccio, la passione che il bravo colonnello nutriva per il suo cane. Un cane guerriero anch’esso d’istinto, il quale seguiva il suo padrone dappertutto, persino nelle cariche.

Si sa che quando il colonnello Strada assunse il comando dei Cavalleggeri d’Alessandria, il suo nome nell’esercito era già fulgido per antichi fasti.

Sottotenente nel reggimento Savoia nel 1839, guadagnò la sua prima Medaglia al valore a Goito nel 1848: la seconda alla Sforzesca nel 1849. Alla presa di Pesaro, nel 1860, ebbe una menzione onorevole, e, nel 1866, a Villafranca, la Medaglia d’oro. Per avere — così il suo stato di servizio — caricato valorosamente alla testa di ogni squadrone, in modo da destare la giusta ammirazione delle truppe.

Pure questo eroe temerario, per la vivezza del suo carattere, ebbe anch’egli i suoi guai.

Anzi, se la memoria non ci tradisce, egli, prima della guerra del 1866, era stato collocato per alcun tempo in disponibilità: e ciò per certi attriti avuti cogli ufficiali del proprio reggimento. Ma agli eroi debbono essere permessi gl’impeti nervosi, e specialmente i capricci. Capricci uguali a quello ch’egli ebbe quando, ordinando un quadro al pittore Palizzi, perchè dipingesse una delle cariche di Alessandria, pretese che il pittore vi ficcasse dentro il suo fido cane!

“Il colonnello Strada„ — così il Lisi Natoli nella pubblicazione di cui abbiamo prima parlato — “il colonnello Strada volle essere raffigurato in un quadro di grandi dimensioni, alla testa dei suoi cavalleggeri di Villafranca, e ne commise la fattura al Palizzi, pittore napoletano celebre in tal genere di lavori. Ma poco mancò che la pregevole opera d’arte [p. 228 modifica]rimanesse incompiuta. Il colonnello voleva ad ogni costo che anche il suo cane, il suo fido amico che non lo aveva mai abbandonato durante la campagna nei combattimenti, godesse gli onori della posterità, e pretendeva che fosse dipinto dietro al suo cavallo. L’artista si ribellò, protestando che non avrebbe
Enrico Strada
mai consentito a deturpare la sua tela con simile eccentricità. Dopo molte trattative la povera bestia venne finalmente sacrificata!„

A noi pare, francamente, che il capriccio questa volta non fosse tanto del colonnello quanto del Palizzi: il quale, rifiutandosi di contentarlo, si rifiutava di fare quello che pur facevano i grandi pittori — il divino Leonardo in prima linea — i quali non isdegnavano di collocare, e cani, e animali meno nobili, magari nelle Cene degli Apostoli.


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Il colonnello Enrico Strada a Villafranca.


[p. 230 modifica]Signore Dio! andiamo facendo la scimmia a tante cose brutte, che poco male sarebbe stato, scimiottare, in questo caso, gli antichi maestri.

Il fatto sta che il povero colonnello, di solito non molto remissivo, ne dolce di temperamento, dovette rimanere dipinto.... senza cane; e non sappiamo dire se tale sagrificio poi avesse equo compenso nella Medaglia d’oro al valore, quel giorno guadagnata!

Se non che, prima di chiudere queste brevi pagine di storia, un altro dovere c’incombe: ricordare il nome del conte Giuseppe Pianell: il solo, si può dire, dopo il Covone, dei generali che, nell’infausta giornata del 24 giugno 1866, scrivesse un’altra pagina gloriosa nel volume militare italiano.

L’illustre generale C. Corsi, in un articolo stampato nel periodico La Rivista di Fanteria, nell’anno 1896, — articolo intitolato per l’appunto Un Generale, — si occupa con grande competenza, e altrettanto amore, dell’azione illuminata del conte Pianell durante quella campagna di guerra. In quello scritto si direbbe che il Corsi abbia voluto anticipare un commento a quanto lo stesso generale scriveva in una lettera a sua moglie, in data 27 giugno, tre giorni dopo la battaglia:

“.... Tu sta’ contenta, sta’ calma: fallo per me. Ci rivedremo forse: e, se no, io morrò contento di lasciarti un nome che, spero, il mondo dovrà onorare, ad onta delle perfidie degli avversari.„

Diciamo subito che, studiando le dolorose fasi di quella giornata, leggendo quanto se n’è scritto, rammentando quanto se n’è detto, non possiamo a meno di rimpiangere che il 24 giugno 1866, egli non si trovasse a capo dello stato maggiore dell’Esercito. Certamente egli avrebbe fatto.... quello che non fecero nè Della Rocca, nè Cucchiari, nè Maurizio De Sonnaz; nè specialmente quello.... che fece il Lamarmora! E forse da lui diretta, tutta la azione campale di quel giorno, in luogo di una sconfitta, l’avremmo chiamata una vittoria.

Si dirà che è cosa facile il profetare a posteriori: ma questo convincimento è diviso da soldati molto più di noi competenti.

Anche il generale e deputato, Luchino Dal Verme, in una recente lettera a difesa della cavalleria, parlando della giornata di Custoza, scriveva:

“E chi non ricorda come nel pomeriggio del 23, e poi nel mattino del 24 giugno del 1866, i reggimenti di cavalleria disponibili fra il Mincio e Villafranca — quattro il 23, sette il 24 — se fossero stati, non dirò abilmente, ma semplicemente impiegati a riconoscere la pianura fra Villafranca e l’Adige, avrebbero certamente rotto il velo dell’esplorazione nemica, avrebbero conosciuto l’addensarsi delle masse austriache sulla destra dell’Adige, avrebbero evitata certamente, la sconfitta di Custoza.„

Il Senatore Levi, negli appunti da noi citati, ci fa sapere che il 23 [p. 231 modifica]giugno dopo una notte insonne, veniva richiamato allo squadrone accantonato nel cortile della Cascina Ceresa, a Pozzolengo; che, svegliate le Guide dallo scoppio di una bomba e dal fragore delle armi e dei carri, si erano trovate, quasi per incanto, tutte a cavallo nella piazza del paese.

“Ivi„ — scrive il Levi — “stava il generale Pianell, col suo aiutante
Giuseppe Pianell
di campo Carlo Brunetta d’Usseaux. Il generale masticava un limone; impartiva ordini a destra e a sinistra per concentrare tutte le forze di cui poteva disporre, e portarle al fuoco; ligio in ciò al famoso detto: Marchez au canon!

“Guai„ — egli soggiunse — “se Pianell avesse esitato! Perchè se gli Austriaci fossero riusciti a impadronirsi del ponte di Monzambano, la catastrofe, già grande per le altre Divisioni, avrebbe assunto proporzioni incommensurabili!„

[p. 232 modifica]Avvenuto il concentramento, le colonne, colla cavalleria in testa, al gran trotto si mettono in moto, guidate dal generale Pianell. Arrivano sul ponte del Mincio.... Lo oltrepassano, per quanto bersagliato dalle artiglierie nemiche, e ancora — come se quelle non bastassero — dalle cannonate dei nostri!

E il Levi continua:

“Il nostro bravo e valoroso capitano di Villanova, dopo arringati i soldati, ordinata la carica, si spicca il primo in testa allo squadrone. Il nemico, mascherato dapprima, si fa vivo con una tempesta di proiettili. Arrivati a un certo punto, vedo cadermi a lato il mio sergente Ganz e il luogotenente conte Dal Verme; il quale, al cenno ch’io feci di fermarmi per soccorrerlo, mi ingiunse di tirar via.

Riformato lo squadrone più indietro, vediamo entrare nei ranghi due cavalli, privi di cavaliere, uno colla gualdrappa insanguinata.... È il cavallo del povero Camillo Dal Verme, l’altro del volontario Doria, napoletano.

Si ripete la carica contro i cacciatori per dar tempo al 5° Fanteria — colonnello conte Pasi — e al 32 — colonnello Charchidio — di entrare in azione. Si perdono parecchi altri uomini, ma si fa una retata di prigionieri....„

Dopo un’altra carica a vuoto, il Levi ha la fortuna di poter raccogliere e trasportare a Monzambano, stesi su due cacolets, a dorso di mulo, il luogotenente Dal Verme, il quale, come sappiamo, poco dopo spirò, e il sergente Ganz, che, assistito dal furiere, potè poi essere trasportato all’ospedale.

E qui, dopo un inno al suo capitano, il Levi esclama:

“— Viene l’ordine di ritirata per la Divisione!... Ma perchè?.... Non fummo vincitori?....„

Se non che a questa esclamazione, a cotesta domanda naturale, per quanto ingenua, che molti allora si fecero, risponde nella sua essenza lo stesso generale conte Giuseppe Pianell, il quale scriveva, da Volta, alla egregia donna che gli fu compagna nella vita, la contessa Eleonora Ludolf, il giorno 26 di giugno — cioè due giorni dopo la battaglia del 24 — questa lettera:

Dilettissima amica mia,

Grazie alla Misericordia Divina, sto bene, o almeno meglio, non ostante disagi incredibili. Non ho tempo di scrivere, ma ho voluto darti questa assicurazione.

L’anniversario di S. Martino è stato sanguinosissimo e sventurato per l’Esercito e per il per il paese: colpa di imprudenza, assoluta, [p. 233 modifica]inconcepibile imprudenza. La mia divisione sola ha respinto vigorosamente il nemico, facendogli 560 prigionieri, compresi otto ufficiali; e ciò non ostante che dovessi contenere le uscite della piazza, avessi al principio del combattimento una Brigata tra Pozzolengo e Monzambano, e mi fossero caduti sulle braccia i fuggiaschi della prima Divisione. Feci sforzi ch’io credevo impossibile si potessero fare da un uomo solo: corsi gravi ed imminenti pericoli. Fra le perdite deploro quella del capitano Lamberti del mio Stato Maggiore, però mi resta la speranza che possa essere rimasto prigioniero.

“Le Guide fecero bravamente il loro dovere, ed ebbero molte perdite, fra le quali il giovane Carlo Doria rimasto sul campo. Piscicelli è ferito leggermente; notai Rivadebro per la sua bravura. La mia sola divisione conservò la posizione: l’abbandonai nella notte per effetto della disfatta altrui e della nuova posizione delle cose. È stata una sventura; vi si può rimediare; però non ne prendiamo la via.

Dopo la giornata del 24, per sollevare il morale delle truppe, bisognava condurle nuovamente al fuoco, arditamente, ma con saggezza. Gli ufficiali e i generali, sopratutto, hanno pagato della loro persona. Durando è leggermente ferito, ha lasciato il comando del I° Corpo, che io ho assunto. Questa sera parto per Medole. Non si può immaginare cosa sia muovere un Corpo d’Armata innanzi al nemico.

La mia gente non si è ben condotta: cavalli, carrozza, domestici, scapparono tutti alla prima fucilata fino a Pozzolengo. Tornarono dopo il combattimento; però la sera, dovendo io ripartire per ordini, perdettero talmente la testa che portarono via tutti i cavalli, e sarei rimasto a piedi se il tenente colonnello Bagnasco — eccellente ufficiale — non mi avesse dato un cavallo. Sono contento di far bene il mio dovere.... Brunetta è un bravo giovane; in mezzo a quella tempesta, mi faceva pena vederlo! Il cannone della piazza ci danneggiò molto, ma le mie batterie mieterono le file nemiche. Stà tranquilla, fiduciosa nel Signore, ad ogni caso rassegnata ai suoi voleri.

Salvatore tuo.„


Come si vede, nello scrivere questa prima lettera intima, a sua moglie, egli non era ancora consapevole del come fossero andate le cose di alcuni riparti, e lamentando la morte del Doria e del Lamberti — questi davvero prigioniero a Mantova — non sapeva nulla della grave perdita del conte Camillo Dal Verme, luogotenente in quel reggimento Guide di cui egli stesso vanta il valore; e di tanti altri bravi che non erano conoscenti della famiglia.

Se non che, nelle lettere che seguono, schiarita la situazione e le responsabilità, amaramente scrive: [p. 234 modifica]

..... La mia Divisione è orgogliosa per il risultato ottenuto il giorno 24. Essa sola, fra tutte, respinse il nemico che aveva di fronte e mantenne le sue posizioni sulle due rive del Mincio. L’attuale movimento retrogrado mi lacera l’animo! C’inoltrammo con imprudenza, e ci facemmo sacrificare là ove dovevamo ottenere vittoria certa. Ora retrocediamo senza necessità: ne sono costernato! Quante cose vorrei dire, ma non ne ho il tempo.... ne debbo! Povero Cerale, si è fatto sacrificare! Mi passò dinnanzi trasportato su di una lettiga a braccia, e con volto sereno, mi salutò, e mi disse: — Viva il Re, viva l’Italia! — Valoroso soldato, uomo virtuoso, ma incapacissimo di comandare tre uomini. Ha fatto macellare, sacrificare, la sua Divisione, come pecore: è incredibile una ignoranza, una bestialità simile.

Della sua Divisione ho qui riuniti gli avanzi, che debbo prontamente riorganizzare. Tanta brava gente perduta, tanti giovani ardenti e generosi immaturatamente travolti nell’ultima loro fine; ed il paese ne è privato! Mi ribolle il sangue nelle vene pensando come, ottimamente informati dei nostri proponimenti del 24, per mezzo delle strade di ferro, gli Austriaci concentrarono nel giorno precedente, e quella notte stessa, quasi tutte le loro forze, e piantarono le loro artiglierie precisamente nei posti che sapevano essere nostra intenzione occupare.... E con piè fermo ci attesero per stritolarci. Però non vi sarebbero riusciti se ci fosse stata miglior condotta da parte nostra!... Che peccato!... Che peccato!....„

E qui smettiamo, benchè a malincuore, colla citazione di quelle lettere, tanto pili interessanti chè sono scritte da chi ignorava che un giorno avrebbero veduto la luce; ma per molte delle quali la storia deve essere grata alla nobildonna che si decise a pubblicarle.

Noi, facendo eco a Ulderico Levi, esclameremo:

— Ritirata?... perchè?... non fummo vittoriosi?!...



Alla prima edizione di queste Memorie, e dopo un nostro articolo dove parlavamo della dolorosa giornata di Custoza — con tanto interesse illustrata da un volume di Umberto Covone, e con tanto sapere e tanta competenza dal Generale Pollio — un vecchio patriota, il signor Enrico Osnago, diligente e appassionato raccoglitore di documenti e di cose [p. 235 modifica]riguardanti il patrio risorgimento, ci scriveva — e noi lasciamo a lui tutta la responsabilità — quanto segue:

“Il di Lei articolo sulla battaglia di Custoza mi invoglia a narrarle un dietro-scena, il quale influì potentemente sul nostro insuccesso. È poco noto, ed io l’ho da buona fonte.

S. M. Vittorio Emanuele, alla mattina del 23 giugno, ebbe la fatale imprudenza di telegrafare a suo genero il Re del Portogallo:

Domani passo il Mincio alla testa di duecentomila uomini.

L’arciduca Alberto ebbe conoscenza di questo dispaccio prima che esso giungesse a destinazione; e il suo Capo di Stato Maggiore, Iohn, diede immediatamente gli ordini per concentrare sul Mincio quanti più uomini era fattibile.

Alla mattina del 24 giugno, 60,000 soldati erano stati trasferiti dal Po al Mincio!

Chi ebbe, certo suo malgrado, ad eseguire questo immane movimento, fu l’ingegnere Gelmi, allora capo delle ferrovie a Verona; e, per per questo fatto, nei circoli austriaci, lo si qualificava come il vero vincitore di Custoza!

A quanto ci dice l’Osnago, aggiungeremo, che Lodovico Gelmi — già alunno dell’Accademia Navale Sant’Anna, di Venezia, e condiscepolo del giovane Teghetoff, il vincitore di Lissa nel 1866 — allo scoppiare della rivoluzione del 1848, passò ufficiale d’Ordinanza del Cavedalis, Capo di Stato Maggiore del Governo Provvisorio, lo stesso che trattò poi la capitolazione del 1849.

Al ritorno degli Austriaci, abbandonata la carriera di Marina, il Gelmi diede a Padova l’esame di ingegnere, ed entrò nella amministrazione ferviaria, dove rivelò subito una attitudine speciale pel movimento dei treni. Ne profittò il colonnello Iohn; il quale, appena ricevuto quel famoso ordine dell’Arciduca Alberto, si recò in casa del Gelmi, lo sequestrò tutta la giornata, e non uscì che alla sera, portando seco l’ordine del movimento delle truppe per la mattina dopo!

Ed ecco in qual modo Lodovico Gelmi si sarebbe fatto, forzato, innocente complice, del nostro disastro del 24 giugno 1866!


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VI.


Il sergente Canna.


Dedicato così il nostro omaggio agli eroi morti, torniamo al colloquio che S. A. il conte di Torino, ebbe a Verona coll’eroe vivente: il nobile Luigi Rosini.

Torre di San Martino della Battaglia
Torre di San Martino della Battaglia

Era naturale che, trovatosi davanti ad uno dei miracolosi superstiti — diciamo miracolosi, perchè sopravvivere con una decina abbondante di ferite nella testa, e nel corpo, è davvero un miracolo — il giovane principe s’intrattenesse in un colloquio più a lungo che cogli altri, si facesse narrare la storia di quelle ferite, che certamente invidiava; e, in prova della sua ammirazione, gli consegnasse, da parte di S. M. il Re, una nuova Croce.

Per quanto la espressione non abbia niente di peregrino, e sia vecchia come la vanità umana, cotesto era proprio il caso di dire: che non la Croce onorava l’uomo, ma sì bene l’uomo onorava la Croce; e in tanto sterminato sciupio di.... crocifissioni — le quali, se poco possono dare di lustro, sono troppe volte una parodia — vederne una collocata a posto, è cosa che fa veramente piacere.

Ma qui, per finire con una nota allegra questo troppo serio e ormai pesante capitolo, torniamo alla festa dei Cavalleggeri d’Alessandria dalla quale ci siamo dilungati.

Finita la cerimonia, le belle dame e i cavalieri, salutati dal Principe, dissero addio a tanta poesia militare, per obbedire alle esigenze prosaiche dello stomaco; e, chi a piedi, chi in equipaggio, lasciarono il quartiere per andare a colazione.

Le patronesse del Gimkhana, intanto, salutate a una a una da S. A., si preparavano alla festa del domani.... Festa, che il sole — non obbligato ad essere cavaliere — non si degnò di illuminare a lungo!

Quelle gentili dame, però, non vollero abbandonare il terreno senza prima avervi lasciato, come le stelle, la traccia luminosa del loro [p. 237 modifica]passaggio; decorando, cioè, la tavola, cui poco dopo doveva sedere S. A., di uno splendido ricordo.

A quella mensa, oltre tutta l’ufficialità d’Alessandria e le rappresentanze, sedettero pure alcuni privilegiati: e fra questi anche il nobile Cesare Galluzzi, già appartenente al reggimento, il quale nella giornata del 24 giugno, era stato per merito di guerra, da luogotenente promosso capitano.

Durante la colazione, S. A. ricordò le glorie di Alessandria, dicendosi lieto e commosso, e della solennità, e dell’accoglienza avuta.

E quelle memorie egli opportunamente rievocava, quando più tardi, intervenuto al rancio della truppa, accostatosi alle tavole imbandite nel grande quartiere, s’indugiò a discorrere famigliarmente con tutti i soldati che entusiasticamente lo acclamavano.

Era, anche questo, uno di quei quadri che rallegrano la vista, e confortano il cuore.

E qui non ci stancheremo mai di ripetere quanto bene facciano sul morale del soldato, la presenza, la parola di un Principe amato! Un sorriso, una stretta di mano, sono per quei vergini cuori, il più efficace contravveleno al tossico nascostamente loro somministrato dalle vipere delle sètte, che strisciano, mordono e fuggono!...



Fra i decorati della Medaglia d’argento al valore militare nella giornata del 24 giugno, incontriamo nell’elenco dei militari di bassa forza che più si distinsero, un certo Pietra Canna, sergente in Alessandria. Questo nome richiama alla nostra mente un aneddoto che ci narrava, poco tempo addietro, il colonnello Orazio Lorenzi, ora tenente generale, allora aiutante di campo di S. M. Re Umberto, e nostro buon amico. — Del quale aneddoto, egli accennò di volo nel suo interessante opuscolo recentemente pubblicato e intitolato Il Re Umberto a cavallo, per lasciare a noi il piacere di narrarlo più diffusamente.

Questo Pietro Canna, che il Lorenzi non nomina, era figlio anch’esso di quel forte Piemonte dove i bimbi nascono, si può dire, coll’elmo, o col keppy in testa; e nei quali il valore prendeva, specialmente allora, il posto delle lettere, della scienza, e un po’ anche della ortografia. Costui era un [p. 238 modifica]altro valoroso del reggimento Alessandria, intorno al quale vale la pena di spendere due parole: tanto più che, parlando di lui, abbiamo l’occasione
di parlare del lagrimato nostro Re.

Durante le grandi manovre del 1894, S. M. il Re Umberto era alloggiato nel villino Bonoris in Montechiari. La mattina di una giornata di riposo per le truppe volle profittarne per recarsi a visitare l’Ossario di S. Martino. Montò per tempo a cavallo e si diresse a quella volta, seguito da uno dei suoi aiutanti di campo, l’Orazio Lorenzi, e da due corazzieri.

Lungo la strada fra Montechiari e S. Martino, i contadini guardavano con una certa curiosità i quattro passanti; senza però arrivare a scoprire che uno di quelli fosse nientemeno che il Re d’Italia; profondamente convinti che un Sovrano avrebbe dovuto avere un seguito molto più abbondante.

Giunti presso la grande torre, S. M. mandò l’aiutante di campo verso l’Ossario, perchè facesse ricerca del custode.

Ira questi Pietro Canna, l’ex sergente nei Cavalleggeri di Alessandria, il quale aveva ottenuto quella specie di canonicato per merito di guerra. Scelto a custode dell’Ossario di Solferino, passò più tardi a quello di S. Martino. Era un buon uomo, onesto, volonteroso, attivissimo; ma lo si dovette mandar via, da Solferino prima, da S. Martino poi, in causa della moglie — certa Carolina, di allegra memoria — la quale, dopo averne fatte di cotte e di crude,
costrinse quella benemerita presidenza a licenziare anche il bravo, innocente e ingenuo marito.

Cotesta.... Messalina, — conviene dirlo a sua attenuante, — era ciò che si chiama un’assai bella e appariscente creatura; anco lei, intelligente e attiva, era solamente una altrettanto furibonda peccatrice.

Fatta la conoscenza dei coniugi, torniamo presso S. M. il Re, il quale, dopo avere atteso pochi minuti, pensò bene di dirigersi all’Ossario per incontrarsi coll’aiutante e il custode.

[p. 239 modifica]Dopo pochi passi eccoli di fatti che spuntano. Il Re volta allora il cavallo e si unisce ad essi dirigendosi verso la Torre.

Camminando pari pari, S. M. guardava con una certa insistenza la faccia di Gianduja del novello Menelao, in quel momento vestito in borghese; ma quello guardava con altrettanta insistenza S. M., fra il sì e il no, fra il dubbio, la sorpresa e l’imbarazzo.

Umberto sorrideva.



Ma sbircia, guarda e riguarda, finalmente Pietro Canna, più intelligente suddito che previdente marito, che ha mangiato, come chi dicesse, la foglia, si volta verso l’aiutante, e gli grida:

Ma chiel lì a l’è ’l Re!

— Proprio! — risponde l’aiutante, con un cenno affermativo.

Allora il Canna si slancia verso il cavallo di S. M., e con una intonazione che sarebbe difficile descrivere, esclama, sempre in piemontese;

Maestà! ch’am permetta d’ vestme an uniforme!

Il Re disse che non francava la spesa, che lo dispensava. Ma l’altro? duro stavolta come un mulo, tanto insistette che S. M., per contentarlo, finì per dire di sì.

[p. 240 modifica]Il Canna, via di corsa. Nel tempo di un’Ave, nel tempo cioè di arrivare alla Torre e scendere di cavallo, ecco il sergente di Alessandria ricomparire trionfante colla vecchia uniforme, portando sul petto — ragione principale del suo travestimento — la Medaglia d’argento al valore militare guadagnata a Villafranca.

Quell’uniforme e quella medaglia non potevano non risvegliare nell’animo del Sovrano la memoria del suo Quadrato, e di coloro che lo avevano difeso!

Saliti, piano per piano, lino in cima all’alta torre, il Canna andava via via descrivendo a suo modo, alla Maestà del Re, le diverse fasi della battaglia di S. Martino; perchè, capperi I egli aveva avuto la fortuna di prendere parte anche a quella come soldato nello squadrone del capitano Incisa, e avere caricato alla Madonna delle Scoperte.... persino contro una muraglia. Erano descrizioni da dare dei punti a quelle di Tito Livio, che misero di buon umore S. M. il Re; specialmente quando il Canna concludeva dicendo: che se una Divisione piemontese non fosse accorsa a soccorrere i Francesi a Solferino, i nostri alleati sarebbero stati belli e spacciati.

Scesi dalla torre, S. M. volle recarsi all’Ossario, per firmare il registro dei visitatori; ma prima di ripartire, incaricò Lorenzi di regalare il sergente di una bella sommetta, dicendogli di fargli scrivere il proprio nome e cognome, per non dimenticarlo anche in avvenire.

L’aiutante di Campo, preso un foglietto di carta, invito il sergente a scrivere....

Ma qui venne il guaio! All’invito di mettere penna in carta, il povero Canna fece una smorfia.... si contorse come un’anima in pena, e borbottò:

I pös nen scrive! perchè da quaic temp am fa mal ’l gomo!

Altro che gomo! il poveraccio, dopo tanti anni, aveva perduta.... la calligrafia.

Pietro Canna, dopo il licenziamento, si ritrasse a Pinerolo, a vita, come chi dicesse, privata; ivi deve essere morto da due anni. Quanto alla bella peccatrice.... la prudenza ci insegnò a non chiederne novelle.... Ma speriamo che gli anni abbiano in lei temperato gli ardori.



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VII.


Il banchetto, — Il brindisi di S. A. il Conte di Torino. — Alla Cavalchina. — A Santa Lucia.


Ed ora torniamo a Verona, al grande banchetto militare.

Alle ore 20, lo spazioso salone centrale della Gran Guardia, — così chiamata per tradizionale abitudine, fin dal tempo del dominio austriaco, e che è una delle più lodate opere del Sammicheli, — raccoglieva a banchetto intorno a S. A. R. il conte di Torino oltre cencinquanta convitati, tra ufficiali superiori e inferiori. Il Prefetto conte Gloria, il Sindaco commendator Guglielmi, e qualche altro ex militare.

Pranzo animato e brillante, per le belle uniformi dei vari reggimenti ivi rappresentati: simpatico per le affabilità di S. A. R. che, trovandosi in mezzo al suo prediletto elemento, aveva tutta l’aria di dire: — Come mi trovo bene!

Pranzo tanto più brillante, animato e simpatico, in quanto che servito — cosa rara in simili occasioni — con grande precisione, eleganza e rapidità.

Allo Sciampagna, il colonnello di Alessandria, nobile Luigi Greppi, chiesta licenza a S. A. — con calda e spontanea parola — portò il suo brindisi, interrotto e coronato da applausi.

“Rivolgo — egli disse suppergiù — anzitutto, riconoscente il pensiero al nostro amato Sovrano, che volle concederci l’onore di ospitare quel glorioso stendardo, che affratellava gli eroici squadroni piemontesi laggiù nella lontana Crimea, come oggi riunisce intorno a sè tanta parte dell’ardita cavalleria italiana, qui, in questa terra sacra alle sue glorie.

Ringrazio S. A. R. il conte di Torino di essere venuto compagno tra noi, quasi ad evocare la cara e santa memoria del nostro primo ispettore.

Ringrazio il Sindaco della gentile Verona, la città che ha sacra ogni tradizione militare. Ringrazio il rappresentante del Governo, i superiori, i compagni che vollero con noi tributare onore a quel vecchio Drappo; e, figgendo fiducioso lo sguardo sulla croce benedetta che nel mezzo vi campeggia, v’invito a gridare con tutta la voce del cuore: Evviva Savoia!

Cessata l’ovazione alle belle parole del comandante d’Alessandria, s’alzò il principe con uno scatto disinvolto, e pronunciò il suo brindisi in mezzo a una interminabile ovazione; brindisi del quale più avanti riproduciamo, in parte, l’autografo che con molta insistenza, abbiamo potuto avere dalla mani di S. A. R. dopo il banchetto. — Eccolo:

[p. 242 modifica]“A chi, con nobile pensiero, mi volle testimonio e partecipe di questa festa d’armi e di memorie, in un giorno sacro ad ogni cuore italiano — in questa terra redenta dall’eroismo dei padri nostri — a chi volle procurarci la emozione di rivedere a brillare il vecchio stendardo che alla Cernaja guidò gli epici galoppi della cavalleria piemontese, io rendo grazie a nome di tutti.

“Al Comandante i Cavalleggeri di Alessandria, agli ufficiali, ai soldati che sentono così alta la poesia delle belle memorie guerresche, e così profonda la virtù della stirpe, vadano i nostri saluti auguranti!

“E vada il nostro brindisi a tutta la cavalleria, la nobile arma dei sublimi ardimenti, degli eroici sacrifici; vada a tutto l’Esercito, dove si costudisce, intatta, la fiamma del patriottismo, il culto del valore.

“Salga altissimo verso Colui che, trentaquattr’anni or sono, strenuamente pugnava nel quadrato di Villafranca.„

Non è possibile descrivere la viva, simpatica, profonda impressione, che produsse su tutta quella massa scintillante, l’aspetto, la voce, le parole del giovane principe, fino dal primo suo scattare improvviso dalla seggiola, e durante il vibrato suo brindisi, pronunciato con una certa originale maestria di giovane oratore.

Impressione tanto più gradita, che da molto tempo i principi italiani non vollero apprezzare l’immenso effetto che produce fra il popolo e fra i soldati, la loro presenza, la loro parola.

Questo brindisi, pronunciato a voce alta, con giovanile entusiasmo, da quel gentile e forte principe, cavaliere dell’Esercito, che rinnovando all’Italia — come benissimo disse il Sindaco di Verona — la gloria di Barletta, si mostrò altrettanto calmo e sicuro sul terreno, come più tardi si mostrò intrepido cacciatore davanti alle tigri, suscitò un urrà assordante ed entusiastico che durò parecchi minuti.

Urrà eloquente, di cui l’eco ci ripeteva, come la voce di un Principe Sabaudo, se direttamente si leva in mezzo all’Esercito, o in mezzo a quel popolo che pure dell’Esercito è forza, ha un’efficacia salutare e dinamica della quale non va trascurata la utilità e la importanza.

Siano dunque benedette coteste feste militari, nelle quali, colla rievocazione delle pagine gloriose del passato, può la voce di un Principe, caro all’Italia, scuoterci dal torpore di quest’ora grigia, e additarci la via di nuove glorie.

Diamo qui l’autografo che audacemente pubblichiamo, a rischio d’essere messi da S. A. R. agli arresti di rigore.

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E finiva, come si dice, in mezzo alle acclamazioni:

Salga altissimoverso verso Colui che 34 or sono, strenuamente pugnava per l’Italia nel Quadrato di Villafranca.„

Al principe succedette il Sindaco di Verona che improvvisò con felice movimento oratorio, più che un brindisi, un inno.

Levate le mense, .S. A. tenne circolo; mentre dai grandi finestroni entravano, a ondate, i clamori del popolo stipato in piazza, in attesa della fiaccolata. Intanto, di contro alla Gran Guardia, cominciava a disegnarsi il profilo imponente, fantastico dell’antico Circo Romano, che S. A. R. si affacciò ad ammirare.

Nello stesso momento un gran chiarore si avanzava dal Viale del Pallone.... Era la fiaccolata.

Bersaglieri, artiglieri, fanteria, Genio — persino guardie di finanza — parteciparono a quella festa come se si trattasse di cosa loro.

Ecco i plotoni di Alessandria, colla fronte di 10 uomini, armati di fiaccole a forma di tulipani, col colore arancio del reggimento. Essi sfilano a passo lento. Cavalieri appiedati fiancheggiano i plotoni, illuminandoli con Bengala rossi.

Suonano tre musiche: da un capo all’altro della grande linea fiammeggiante, si ode la fanfara guerresca del Principe Eugenio.

Tutti gli squadroni, su tre plotoni, sono a cavallo.

I fuochi di Bengala bruciano dietro le groppe irrequiete. Sotto la gradinata s’impennano i destrieri tenuti a mano, in attesa dei due ufficiali portastendardo.

A un tratto, la siepe delle scintillanti spalline e delle giubbe nere, stipata sulla gradinata della Gran Guardia, si fende in due ali.... La musica intuona la marcia reale.... Ln lungo applauso si leva dalla piazza [p. 245 modifica]e si unisce a quello dei balconi.... Sono gli stendardi di Crimea e di Custoza, che in testa allo squadrone armato entrano in quel mare di luce; e fatto un giro in piazza Bra, salutano il monumento di Vittorio Emanuele e sfilano pel Corso di Porta Nuova.



All’alba del giorno 25, il conte di Torino, accompagnato dai suoi aiutanti di campo, dal generale De Sanctis, dal colonnello Greppi e dalle rappresentanze, si recò a cavallo a compiere un dolcissimo dovere di figlio, alla Cavalchina, dove sorge il monumento in onore del prode e compianto suo genitore, S. A. R. il principe Amedeo, Duca d’Aosta e già Re di Spagna.

E là che il secondo figlio di Vittorio Emanuele, appena ventenne, veniva ferito; mentre il maggior fratello Umberto, in mezzo al quadrato del 49° reggimento, incoraggiava i soldati a resistere alle cariche della cavalleria Ulana. È là che Amedeo volle che le prime cure fossero prestate ai feriti più gravi di lui, segnando così col proprio sangue la prima pagina della sua vita militare e civile.

[p. 246 modifica]S. A. il conte di Torino giunse sul posto verso le sei. Ivi trovò schierato intorno al monumento tutto il reggimento Alessandria, che lo aveva preceduto. Su quello spiccavano due corone di fiori: una offerta dai due reggimenti Alessandria e Novara, insieme uniti: l’altra portata dagli ufficiali del 2° reggimento Granatieri — l’antico reggimento del morto Duca.



Il conte di Torino riunì per brevi momenti gli ufficiali sotto una tenda appositamente eretta, e volle stringere la mano al maggiore dei Granatieri, venuto apposta in bicicletta da Parma.

E un’altra pagina commovente, il principe ebbe campo di leggere più tardi, passando da Santa Lucia; quando il colonnello Greppi lo condusse a visitare il monumento, che Verona, la sua provincia e i reduci Italia e Savoia, erigevano il 6 maggio del 1883, a pietoso ricordo dei caduti del 6 maggio 1848, coll’intervento dello stesso suo padre.

È questa una colonna granitica, dalla cima della quale una grande [p. 247 modifica]aquila in bronzo, coll’ali aperte, sta per ispiccare il volo. Dai quattro lati della sua base si leggono quattro epigrafi, delle quali la rappresentanza municipale d’allora incaricava l’autore di questi cenni.


VITTORIO EMANUELE DUCA DI SAVOIA FERDINANDO MARIA DUCA DI GENOVA SU QUESTI CAMPI PROVARONO AI SEPOLTI EROI DI SUPERGA LA BONTÀ LEGGENDARIA DEL LORO SANGUE
VITTORIO EMANUELE DUCA DI SAVOIA FERDINANDO MARIA DUCA DI GENOVA SU QUESTI CAMPI PROVARONO AI SEPOLTI EROI DI SUPERGA LA BONTÀ LEGGENDARIA DEL LORO SANGUE


SULLE VOSTRE OSSA O GLORIOSI FIGLI DEL PICCOLO PIEMONTE DEPONE RICONOSCENTE IL SUO GRAN BACIO LA PATRIA
SULLE VOSTRE OSSA O GLORIOSI FIGLI DEL PICCOLO PIEMONTE DEPONE RICONOSCENTE IL SUO GRAN BACIO LA PATRIA


Oh! quante memorie, e gloriose e meste, devono aver attraversato la mente del principe davanti a quel monumento! Quale volume di storia doveva leggervi scolpita, questo rampollo di una Casa, di cui tutti i [p. 248 modifica]principi, movendo da Moriana, procedettero per otto secoli, nel loro cammino glorioso, circondati dall’aureola del valore e della virtù!

Una delle epigrafi consiste nella data e nella dedica; le altre dicono:

QUI CARLO ALBERTO
RE DI SARDEGNA
CON UN PUGNO DI AUDACI
AFFRONTANDO GLI ESERCITI DEGLI ASBURGO
INDICÒ ALL’ITALIA
LA STELLA DELLA SUA UNITÀ


VITTORIO EMANUELE DUCA DI SAVOIA
FERDINANDO MARIA DUCA DI GENOVA
IN QUESTI CAMPI PROVARONO
AI SEPOLTI EROI DI SUPERGA
LA BONTÀ LEGGENDARIA
DEL LORO SANGUE


SULLE VOSTRA OSSA
O GLORIOSI FIGLI DEL PICCOLO PIEMONTE
DEPONE RICONOSCENTE
IL SUO GRAN BACIO
LA PATRIA

Il figlio di Amedeo lesse e rilesse le tre epigrafi, e il buon sangue dei Savoia gli fiammeggiò dagli occhi.


VIII.


In barca. — Il numero 13. — Gymkhana. — Felice Scheibler. — Ciccodicola. — Menelik. — Gelosia dell’Olimpo. — Savoja, for ever!


Ed eccoci al famoso Gymkhana!

S. A. R. il Conte di Torino, alle ore 17 del giorno 25, era aspettato nel bosco di S. Michele, per assistervi; e vi si recò puntuale. Ma non vi andò nè a cavallo, nè in carrozza, nè a piedi. Vi andò in barca; partendo da Porta S. Pancrazio, dove il comandante la brigata pontieri aveva, diremo così, armata la flotta.

In barca! La novità della cosa, per un paese di terra ferma, aveva chiamato a S. Pancrazio gli equipaggi di parecchie fra le patronesse, le quali — e si comprende! — non volevano lasciarsi sfuggire la bella occasione di navigare in compagnia del giovane e simpatico Principe, non fosse che per quindici minuti: che tanto era il tempo che ci voleva per arrivare alla mèta.

Se non che, la vista dell’Adige, quella del fiume grosso, giallo di pantano come un malato d’itterizia, fece sì che al momento di spingere i piedini in barca, quelle eleganti signore rimanessero lì, sospese in aria.... fra il volere e il disvolere, come colte da un non so che.... un non so che.... molto simile alla tremarella.

Poichè, Signore Dio! si capisce: una donna di terra ferma non si [p. 249 modifica]cimenta, così a cuor leggero, in un’impresa navale di quella fatta.... neanche per quindici soli minuti!

Ma S. A., che vede, indovina e sorride, dice loro subito, per animarle:

— Avanti le dame.... che non temono l’imbarco!...

Era un ordine bell’e buono! Le signore s’imbarcarono a una a una, senza fiatare.... per non perdere l’equilibrio.

Erano: le contesse Albertini-Miniscalchi, Giuliari-Revedin, Guerrieri, Albertini-Ferrante, Serego Da-Lisca, Solaro Dal Borgo, marchesa Medici; Guglielmi, Bompiani, Bianco-Fusinato, Gemma-Bampa, Palazzoli.... in tutto, tredici per l’appunto!

Brutto numero per una spedizione.... navale! Ma, al numero, nessuna in quel momento badò; nessuna contò.... se no guai!

Tennero dietro alle dame, il Conte di Torino, il Sindaco, gli ufficiali superiori, e le rappresentanze dei reggimenti: poi, in coda, qualche marito.... così.... come rappresentante della legittimità.

Di questo brano di celia, dopo tanta roba seria, noi chiediamo perdono alle patronesse gentili: assicurandole che nulla in quanto diciamo, o diremo, si nasconde, o si nasconderà di meno che rispettoso. E tiriamo via.

Alla nave, come chi dicesse, ammiraglia, si unirono altre imbarcazioni per il seguito militare; si levò l’ancora, e si diè moto alla macchina; — macchina, per modo di dire, perchè le barche andavano avanti.... a remi!

Non tutte le patronesse, però, s’erano volute arrischiare sulle onde infide. Alcune erano venute sul posto, per terra ferma; vista la responsabilità che pesava sulle loro teste per il buon andamento generale del Gymkhana.



Alle diciassette e quindici, la flottiglia è in vista. Arriva felicemente a spiaggia fra gli applausi. I viaggiatori, e le viaggiatrici narrano che fu una rotta incantevole, rallegrata da una brezza deliziosa, e resa ancora più simpatica da quella unione originale di speroni.... e di remi.

Le tredici signore toccano terra trionfanti, meno che mai pensando, o accorgendosi, d’essere in tredici più che quattordici. Il quale numero tredici, inefficace in barca, doveva, pur troppo, influire colla sua azione deleteria, in terra.... un po’ più tardi.

[p. 250 modifica]Perchè bisogna sapere che il cielo, come dianzi le onde, non appariva neppure esso, di molto buon umore. Anzi, al contrario, certi nuvoloni neri, e un’afa soffocante, diletta alle mosche, non presagiva niente, proprio niente d’allegro!

Ma signori e signore, non s’ingerivano di ciò che si stava preparando in alto; la loro attenzione era tutta quanta rivolta al basso; era rivolta all’amabilità del Principe, e al terreno dove stava per cominciare lo spettacolo.

Per la fausta circostanza, manco dirlo, lo sfoggio delle toilettes, femminili, gli abiti quadri, e qualche tuba fiammante mascolina, superavano qualunque record inglese. Tutto ciò che di più bello e nuovo s’era potuto ricevere da Parigi, da Londra, da Milano e da Torino, ivi tutto era messo in mostra. Guai se Eolo maleducato fosse venuto a scomporre quei ricci, quei veli, quelle piume, o le ardite aigrettes di quei cappellini freschi e leggeri, che sfidavano il cielo e che, di sera, a teatro, fanno tirar moccoli al pubblico della platea.

Lo spettacolo ha principio colla corsa dei sott’ufficiali.

Si tratta di un percorso di 2000 metri, lungo un terreno popolato di vecchie piante e di tronchi d’albero, con relativi salti di siepe, di muri, di staccionate. Corrono e arrivano in quest’ordine: sergente Lucchini, furiere Niccolini, furiere Turco e sergente Urga. I due primi ricevono in premio un Ricordo della giornata.

Segue la corsa dei caporali e soldati. Corsa stupenda. Questi partono in gruppo, corrono in gruppo, saltano in gruppo.... Nessuna caduta.... e i primi tre ricevono un premio in denaro.

Ed eccoci finalmente al clou della giornata. Eccoci al famoso Gymkhana, per il quale le patronesse hanno preparato dei premi coi fiocchi. Cravaches, orologi, servizi per fumare, porta-sigarette, oggetti d’oro, d’argento.... persino bottoni con rubini! Insomma dei premi degni di chi offriva e di chi doveva ricevere.

Gymkhana?.... Che roba è? È inutile ormai spiegarlo; che a certi nomi indiani, africani, e pur troppo, anche chinesi, oggi il buon pubblico è acclimatato. Ognuno sa che Gymkhana altro, suppergiù, non significa che esercizi, giuochi a cavallo, ginnastica da terra e da sella, sorprese buffe e serie; arresti violenti, volteggi, salti d’ostacoli, cavalieri che salgono e scendono d’arcione durante la corsa.... e via dicendo.

È roba indiana, portata fresca fresca in Italia, come un trofeo di caccia, e messa di moda per la prima volta a Roma, dal conte Felice Scheibler, uccisore, a tempo perduto, di leoni, tigri, elefanti, buffali, rinoceronti, ippopotami, coccodrilli.... ed altri insetti, in faccia al sole e alle stelle; tutti raccolti nel suo museo di Castellazzo, e imbalsamati che sembrano vivi [p. 251 modifica]da quel mago lombardo che è Enrico Bonomi; il quale però, non ha ancora trovato il vero sistema d’imbalsamare, altrettanto bene, le belve umane.

Gymkhana, malgrado la sua desinenza femminina, è roba mascolina. Il marchese Colombi, buon’anima, il quale appunto per la desinenza, riteneva Enea una femmina, e Didone un maschio, se fosse ancora al mondo sarebbe molto imbarazzato nell’attribuzione del sesso.

Sia comunque, femmina o maschio, non v’è città italica che questo Gymkhana, non abbia fatto suo. Perocchè si sa che copiare è la cosa più comoda del mondo.... far la scimmia, anche!

Dunque cotesto Gymkhana, maschio, fu portata in Italia dal conte Felice Scheibler; sul nome del quale se mi fermo per pochi minuti, spero
Felice Scheibler
Felice Scheibler
che non debba sembrar troppo strana cosa al lettore. Chè — certamente anche per ragioni d’intimità — non mi ci fermerei, s’egli non si distinguesse per altre ragioni, nell’immenso stuolo dei più notevoli sportsmens, italiani e stranieri, che hanno il verde turf come base della loro esistenza. Non mi ci fermerei se altri più importanti meriti non si fosse acquistato direttamente, e indirettamente, nel perfezionamento della equitazione di campagna nella nostra cavalleria. Aderito che gli stessi e più autorevoli ufficiali di cotesta arma, apertamente gli attribuiscono.

Infatti nel 1882, egli fu uno dei primi ordinatori dei paperhunts famosi; e, per otto anni, fu il master della Società milanese per la caccia a cavallo. Fu lui che, nel 1885 diede vita, nella grande Arena di Milano, al primo concorso ippico nel quale tanto oggi si distinguono gli ufficiali italiani; fu lui che contribuì efficacemente allo impianto delle Corse in Lombardia, alla fondazione di una società di caccia a cavallo nel veneto; e, finalmente, di quella [p. 252 modifica]Romana nelle grandi tenute del principe Baldassare Odescalchi, a Bracciano.

Il conte Felice Scheibler oggi trovasi alla testa di uno dei più importanti allevamenti di puro sangue italiani, sotto il nome di guerra di Sir Rholand, e — beato lui! — continua attivamente partecipare alle caccie a cavallo tanto di Gallarate che a quelle di Roma, sebbene padre di famiglia e con parecchi chili di peso oltre il necessario per saltare staccionate!

Importò cavalli da caccia dall’Inghilterra e arabi dall’India; è membro del Consiglio ippico governativo; nella cui qualità ebbe l’arduo incarico di surrogare quel Mellon famoso, e, diciamolo pure, stallone amaramente rimpianto, del quale malgrado i suoi 18 anni, gli stranieri menano vanto. Nella difficile impresa se la cavò alla meglio, coll’acquisto di due cavalli: Melanion e Workington, che diedero buoni frutti.

Lo Scheibler pubblicò poi di recente un volume, riccamente illustrato, intitolato Sette anni di caccia grossa, edito da quel taumaturgo che è il Comm. Ulrico Hoepli: il quale volume, al successo ottenuto qua e là per il mondo, arrivò — chi l’avrebbe detto? — fino al trono abissino: presso S. M. l’Imperatore Menelik, cui quell’opera fu presentata, in nome del cacciatore e autore italiano, dal rappresentante di S. M. il Re d’Italia in Africa, maggiore Federico Ciccodicola.

Il cortese ufficiale, ivi dallo Scheibler conosciuto di persona, dopo consegnato il volume al Re dei Re, mandava al suo autore la lettera imperiale di ringraziamento, che pubblichiamo; facendola seguire — per quello dei lettori che per avventura non conoscesse l’Amarico — dalla sua brava traduzione.

Documento e traduzione che il maggiore Ciccodicola accompagnava colla seguente lettera:

Addis Alem, 28 Dicembre 1900.

Illustr. Signor Conte Scheibler,

“Ho il piacere e l’onore di rimetterle, qui acclusa, una lettera di S. M. Menelik, per lei.

“Per evitarle noie e difficoltà per la traduzione, ho creduto opportuno trasmetterle copia in italiano.

“Intanto, valendomi della presente gradita e favorevole occasione, le invio i miei più sentiti ringraziamenti pel saluto che mi ha mandato, grato e riconoscente pel buon ricordo che ella serba di me.

“Il suo libro, regalo veramente interessante ed istruttivo, mi sarà prezioso compagno nella solitudine della mia residenza.

“La prego di accogliere i miei augurii pel nuovo anno, ed i miei rispettosi ossequi.

Dev. Federico Ciccodicola.„


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[p. 254 modifica]Ecco il documento con tanto di sigillo:

Ed ecco ora la traduzione che ne fa di proprio pugno Federico Ciccodicola:


“Il leone vincitore della tribù di Giuda, Menelik II, eletto da Dio, Re dei Re di Etiopia, al Conte Felice Scheibler.

“La salute sia con te.

“Ho ricevuto il bel libro che mi hai mandato.

“Avendomi mandato un ricordo ti ringrazio.

“Il maggiore Ciccodicola mi ha parlato delle tue cacce. Bene. Dio ti dia aiuto per tutto quello che hai fatto.

Scritto nella città di Addis Alem, il 27 dicembre 1900.„



Il programma del Gymkhana consisteva in tre corse: degli ombrelli, dei pacchi postali e dei fiori.

Questi tre ultimi giuochi erano naturalmente la great attraction della giornata.

Nella corsa degli ombrelli arriva prima il tenente Caracciolo, secondo Pelagatta, terzo De Mattia. Arrivano brillantemente in mezzo agli applausi...

Ma, ahimè! dopo questa corsa, quel maledetto numero tredici comincia a dar segni manifesti della sua influenza.... specialmente a danno delle signore. Ahimè! qui incominciano le dolenti note.

Quel zeffiretto poco grazioso di dianzi, si cambia a un tratto in vento impetuoso. Il cielo diventa nero, così che par che annotti.... Da lontano brontola il tuono e guizzano i lampi....

Brutto affare! ma tanto si tira via, e si viene alla seconda corsa: quella dei pacchi postali.

Il punto di partenza è di fronte al pubblico. Gli ufficiali coi loro cavalli a mano, la sella sul braccio, aspettano il segnale dello Starter per sellare, cinghiare e partire volteggiando....

E sellano, e cinghiano, e partono.... Ma le nubi, intanto, volteggiano per loro conto nel cielo, e mentre i tenenti Caracciolo e Spadaccini, col maggiore Lisi-Natoli, portano i primi pacchi postali alle dame cui sono diretti, il temporale si scatena in tutta la sua violenza. Le cateratte si aprono, e giù acqua.... giù neve.... giù chicchi di grandine, grossi come tante uova di gallina.

È un fuggi fuggi generale.... Ma fuggire, dove?

[p. 255 modifica]Il conte di Torino invita le signore che lo circondano sotto la tenda del buffet. Ma l’acqua cade a torrenti; soffia il vento, e strappa i picchetti infissi per terra. Quel diluvio inzuppa senza pietà, mussole, foulards, crèpe de Chine, trine, veli, boa di piuma; sforma i poveri cappellini innocenti di tulle e di paglia, e schiaccia senza misericordia tutte quelle aigrettes ardite che dianzi sfidavano il cielo. Gli ombrellini dai bei colori, cambiati in altrettanti paracqua improvvisati, gocciolano a tutt’andare sulle stoffe chiare delle vesti, che assumono i colori dell’iride; ma, quel ch’è peggio, solcano crudelmente la fronte e il viso delle dame, i bei ricci delle quali, sfatti dal liquido colorato, diventano mosci, e simili a tanti asparagi.

Gli sforzi dei maschi, e dello stesso principe, tendono a tener ritto quell’unico riparo: ma il temporale è spietato, la grandine picchia sulle spalle e sulle mani.... il disastro è completo.

Sotto la tenda però — vedi strana combinazione della sorte — restano incolumi, o quasi, insieme alla presidentessa, quelle patronesse soltanto che non avevano fatto parte del numero fatale!

È cosa pur troppo nota, che fra i viziacci della fragile umanità abbia il primo posto la livida invidia; ed è un miracolo se di fronte ad un grande trionfo — di qualunque natura esso sia — questa non si faccia viva colla gesuitica insidia dei ma.,., e dei se.... allo scopo di diminuirne il valore. Ma qui — vedi cosa piuttosto unica che rara — davanti all’entusiasmo suscitato dalle feste dei Cavalleggeri di Alessandria, questa volta anche l’invidia tacque.

Ecco, invece, che la brutta parte dei trouble-fète, se la vollero assumere gli spiriti invisibili che si agitano oltre le nubi! Gelosi costoro di quel mondano Olimpo che vedevano sfolgorare nel bosco di S. Michele, e che aveva l’aria di rivaleggiare coll’Olimpo celeste, vollero punirlo!

A farla breve: le beltà eteree, vollero pigliarsi una piccola vendetta sulle beltà terrene.... a furia d’acqua.

Ma non riuscirono. Di lassù non avevano fatto il conto col valore italico delle nostre Dee; le quali rimasero, a dispetto degli elementi, impavide sul posto fino alla corsa dei fiori, ch’era l’ultima, applaudendo ai tenenti Fontana, Caporali e Cavriani, arrivati primi così come li scriviamo. Quando Dio volle, un raggio di sole s’aperse un varco fra le nuvole e venne a rinfrancare quelle maltrattate; così che il loro sacrificio si limitò allo sciupìo delle toilettes e, tutt’al più, alla mostra.... forzata, di qualche mollet fidiaco, degno di Venere.... o di Giunnone.

Anzi ne risero, e ne ridono; non rammentando che il lato splendido delle feste di Alessandria, e l’affabilità del giovane colonnello dei Lancieri di Novara.

Savoja, for ever!....