Lettera del signor de Montaigne

francese

Michel de Montaigne XVI secolo 1864 Pietro Fanfani Indice:Boetie - Il contr'uno o Della servitù volontaria.djvu Lettere Lettera del signor de Montaigne Intestazione 4 ottobre 2019 100% Da definire

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LETTERA


del signor


DE MONTAIGNE





Da una lettera che il signor Consigliere de Montaigne, scrisse al signor de Montaigne suo padre, dove si raccontano alcune singolarità cui egli notò nel corso della malattia e nella morte del fu sig. de la Boétie.


Se delle ultime parole sue qualcuno dee farne certo ragguaglio, tocca a me senza fallo, sì perchè più volentieri a me che a niun altro parlò nel corso della malattía, e sì ancora perchè così raro e fraterno bene ci volevamo, che, quanto un uomo la può aver dell’altro uomo, io avevo certa conoscenza delle intenzioni, dei giudizj e delle volontà di lui, e le sapevo essere nobili, virtuose, piene di ferma risoluzione, e per dirlo in una parola, ammirabili. Bene io indovinavo se la [p. 4 modifica]malattía il lasciava parlare, che in sì forte punto nulla non gli uscirebbe di bocca se non di grande e di esemplare; e però ci stava attento quanto poteva. Vero è, signore, ch’io sono di non troppa memoria, e questa poca è tuttora sbalordita dal colpo di sì dolorosa e grave perdita; e può darsi che parecchie di quelle cose ch’io vorrei si sapessero mi sieno uscite di mente; ma tutte quelle che mi ci son rimaste, ve le ritrarrò quanto più posso al naturale: benchè a dipingervelo così spietatamente arrestato nel suo animoso cammino, a mettervi dinanzi agli occhi quell’indomito coraggio in un corpo vinto e oppresso dal violento sforzo della morte e del dolore, confesso che ci vorrebbe altro stile che il mio; perchè, sebbene quand’era sano e parlava di cose gravi e di conto, lo facesse per forma che nè anche a scriverle si potessero dir sì belle, e par proprio che in su quel punto l’ingegno e la lingua si mettessero a prova per rendergli l’ultimo servigio; e vi accerto di non averlo mai trovato così ricco di tante belle immagini nè di tanta eloquenza, come nel corso della sua malattía. Se poi, o signore, vi parrà ch’io abbia voluto dar valore a’ suoi discorsi più lievi e più comuni, l’ho fatto apposta, perchè detti in que’ momenti e nell’estremo di un sì gran frangente, fanno singolare testimonianza della quiete, della tranquillità e della severità di quell’anima.

Nel tornare da palazzo lunedì 9 di agosto del 1563, gli mandai a dire che venisse a desinar da me; ed egli mi fe’ rispondere che stava un po’ poco bene, e che anzi avrebbe [p. 5 modifica]caro ch’io passassi un’ora con lui prima della sua partenza per Medor. Appena desinato andai là: era sul letto vestito; e già mi pareva di vedergli in viso qualcosa di mutamento. Mi disse che era una diarrea con dolori di corpo presa il giorno innanzi nel giocare col signor d’Escars in giustacore sotto un abito di seta: e che il fresco gliel’aveva fatto dell’altre volte. Gli dissi che aveva fatto bene a pensare di uscir da Parigi; ma che per quella sera non andasse più là di Germignano distante due sole leghe; e lo faceva per amor della strada dove stava, vicina a un quartiere infetto di peste, della quale viveva in qualche apprensione, come tornato di fresco dal Perigord e di Agenois, dove ogni cosa era appestato; ed anche, perchè in caso simile mi aveva fatto bene il mutar aria. E di fatto ei partì accompagnato da sua moglie madamigella de la Böetie, e dal signor Boüillonnas suo zio.

La mattina prestissimo eccoti un servitore da parte di madamigella de la Böetie a dirmi che la notte era stato molto male per una forte dissenteria; che era venuto per un medico e uno speziale, e che, s’io potevo, andassi là; come di fatto dopo desinare vi andai. Appena mi vide parve che si sentisse tutto riavere; e quando gli dicevo addio per venirmene, promettendogli di tornare il giorno dopo, con più affetto e con più premura che mai avesse fatto per altra cosa, mi pregò ch’io stessi con lui più che potevo. Questo mi diede una certa commozione: tuttavia ero sull’andarmene, quando madamigella de la Böetie, che già indovinava qualche [p. 6 modifica]guajo, mi si raccomandò con le lacrime agli occhi che per quella sera non mi movessi. Allora rimasi; ed ella se ne mostrò proprio consolata. La mattina di poi venni via; e tornai a fargli visita il giovedì. Egli andava sempre di male in peggio: il flusso di sangue e i dolori di corpo, che lo indebolivano anche di più, rinforzavano da un momento all’altro. Il venerdì lo lasciai da capo: ci tornai il sabato, e lo trovai di già molto, prostrato. Egli mi disse che il suo male era un po’ contagioso, e per di più stomachevole e melancolico: “Conosco bene il tuo naturale: vienci per a momenti; ma tornaci più spesso che puoi”. Non lo lasciai più. Fino alla domenica non mi era mai entrato in che cosa pensasse del suo stato; e non parlavamo se non delle bisogne occorrenti alla sua malattia, e di ciò che ne avevano scritto i medici antichi. Di cose pubbliche a fatica; che fin dal primo giorno se ne mostrò stucco. La domenica fu preso da svenimento; e quando si fu riavuto disse ch’e’ gli era parso di essere come nel Caos, non aver altro veduto che una fitta nube, una bruna nebbia, dove tutto era in combutta e senza ordine; ma che tuttavia non gli era punto rincresciuto tutto questo caso. Ed io gli dissi: “La morte, credi, non è cosa più amara di questa”.

Da quel punto non avendo preso sonno da che s’ammalò, e con tutte le medicine dava sempre in peggio, tanto che già gli avean fatto pigliate certe bevande che non si danno, se non a chi è in fine, e’ si giudicò, e me lo disse. Il giorno stesso, parendo a tutti che fosse bene [p. 7 modifica]il farlo, gli dissi, essendogli così stretto amico, mi saprebbe male il non darmi cura che, siccome quando era sano tutti i suoi atti erano stati esempio di prudenza e di senno, come potea fare chi altri si fosse, così seguitasse anche malato; e che, dove piacesse a Dio ch’e’ peggiorasse, mi sarebbe una spina al cuore, se per mancanza di previsione lasciasse qualche suo interesse in dissesto, non solamente per il danno che potessero averne i parenti, quanto per gelosia della sua fama: e questo egli prese in buonissima parte. E dopo aver chiarite le difficoltà che teneanlo sospeso in questa materia, mi fece chiamare suo zio e sua moglie soli, per significar loro quanto avea deliberato rispetto al testamento. “Ma tu gli sgomenterai” gli dissi: “No no, mi rispose, io gli consolerò, e darò loro migliore speranza che non ho io della mia sanità”. Poi mi domandò se gli sfinimenti avuti da lui ci avevan fatto paura. “Ma non è nulla, sai, gli risposi: in queste malattíe lo fa sempre”. “Tu dici bene, fratello, egli replicò: non è nulla, anche quando avvenga ciò che voi più temete”. Ed io: “Per te sarebbe una felicità: il male sarebbe per me, che perderei la compagnía di sì grande, sì savio e sì provato amico; tale che sarei certo di non trovar più l’eguale”. “Eh, potrebb’essere, riprese egli: e ti giuro, che, se una cosa mi tiene di mala voglia, e non mi fa andar sì di buone gambe per quel varco che ho bell’e passato più di mezzo, gli è il pensiero di perder te, quel pover uomo, e quella povera donna (suo zio e sua moglie), che tutti vi amo [p. 8 modifica]amicissimamente; e che non potranno consolarci, ne son certo, della mia perdita, la qual davvero è grandissima per loro e per te. Io penso anche al dolore che ne avranno parecchi galantuomini, i quali mi volevano bene e mi stimavano mentre vissi, la conversazione de’ quali, se stesse a me, vorrei non perderla ancora. Anzi, se io me ne vado, fratel mio, tu che gli conosci, ti prego di far ad essi testimonianza del bene che ho loro voluto fino all’ultimo fiato. E forse, vedi, io non ero così inutile, ch’i’ non potessi render qualche servigio al paese: ma in ogni modo eccomi disposto ad andarmene quando piacerà al Signore, certo come sono di godere la beatitudine che mi annunziate. Tu poi, amico mio, io ti conosco sì savio che, senza dubbio, per quanto interesse tu ci abbia, ti acconcerai pazientemente e di buona voglia al decreto della maestà divina; e ti prego di badar bene che il dolore di perdermi non ispinga quel buon uomo e quella buona donna oltre i confini della ragione”. E qui domandò come già si contenevano. “Bene assai, per la gravità della cosa” risposi: “Sì sì, e’ riprese, per ora che c’è sempre un po’ di speranza. Ma quando non ce ne sarà più, tu vedrai, fratel mio, quanto ti ci vorrà a contenerli”. Per questo, finchè ebbe fiato, celò sempre loro la certezza ch’egli avea di morire, e pregava anche me di fare altrettanto. Quando se gli vedeva dattorno, mostravasi più liete nel viso, e dava loro dolcissime speranze.

Qui io lo lasciai per andare a chiamargli: essi [p. 9 modifica]compesero il volto alla meglio per un poco; e messici tutti a sedere intorno al letto, egli disse queste parole con faccia tranquilla, e quasi direi tutta lieta: “Moglie mia, zio mio, vi accerto sul mio onore che niun novello assalto della malattía, o sinistra opinione ch’io abbia della mia guarigione, non mi mosse a farvi chiamar qui da me a dirvi quel che ora udirete; perchè, grazie a Dio, sto benino, ed ho buona speranza. Ma avendo imparato da gran tempo, sì per lunga esperienza, e sì per lungo studio, quanto poco c’è da fare insegnamento sulla incoetanza e mutabilità delle cose di quaggiù, e sulla vita altresì, che noi abbiam tanto cara, e pur non è se non fumo e cosa da nulla; e ripensando ancora che in questa malattía mi son veduto così vicino il pericolo di morire; ho pensato di acconciare le cose di famiglia e di sentirne il vostro consiglio.”

E voltosi allo zio: “Voi, mio buon zio, s’io dovessi qui ricordare tutte le grandi obbligazioni ch’io v’ho, mi ci vorrebbe troppo: basta che fino ad ora, dovecchè io sia stato, o con chiunque ne abbia parlato, ho sempre detto che quanto un savio, un ottimo, e un liberalissimo padre può far per un figliuolo, voi lo avete fatto per me, così per le cure che vi ci è voluto a istruirmi nelle buone lettere, come per avermi messo nel corso de’ pubblici uffizj: per modo che tutta quanta la vita mia è stata sempre confortata di abbondantissimi ed efficacissimi segni del bene che mi avete voluto. Insomma tutto quel che ho l’ho avuto da voi, lo [p. 10 modifica]riconosco da voi, ne sono a voi debitore; voi siete il mio vero padre: e però, come figliuol di famiglia, non posso dispor di nulle, se a voi non piace il darmene licenza”. Qui tacque; ed aspettò che i sospiri e le lacrime avessero lasciato rispondere al zio, come quel che faceva egli era ben fatto. Allora, volendolo far suo erede, lo pregò di accettare da lui le sue facoltà. Poi, volgendo il suo parlare alla moglie: “Sembianza mia, gli disse (così spesso la chiamava, per qualche antica convenzione passata fra loro), essendo stato unito con te per il santo vincolo del matrimonio, uno dei più reverendi ed inviolabili che Dio abbia ordinato quaggiù a conservazione della umana compagnia, io ti ho amato, ti ho voluto bene, e ti ho stimato quanto più ho potuto; e son certo che tu mi hai corrisposto: nè tanto che basti potrei ricompensartene. Ti prego che quella parte del mio, che io ti lascio, tu l’accetti e te ne contenti, contuttochè io sappia, bene non essere la ricompensa pari al merito”. In fine, parlando a me: “Fratel mio, disse, da me si commenta diletto, scelto fra tanti altri a rinnovellar teco quella virtuosa e schietta amistà, il cui uso per colpe del vizio è de sì lungo tempo perduto tra noi, che solo ne rimane qualche debol ricordo nella memoria dell’antichità, ti prego di accettare in dono la mia biblioteca e i miei libri, come piccolo segno del bene che ti voglio: il dono è piccolo, ma viene del cuore; e sta bene a te, che tanto amore hai per le lettere. E ti sarà un Mnemosinon tui sodalis1.” Poscia, [p. 11 modifica]parlando a tutti in generale, ringraziò Dio che in sì estremo articolo vedevasi accompagnato dalle persone più care che avesse al mondo; e che per lui era una consolazione il veder raccolti insieme quattro così concordi e così legati d’amicizia; essendo cosa mirabile, diceva egli, che no’ ci volessimo bene l’uno per amor dell’altro. Ed avendo raccomandato ciascuno di noi all’altro, continuò: “Dato sesto al patrimonio, bisogna pensare all’anima. Io son cristiano, son cattolico: tale ho vissuto, e tale voglio morire. Chiamatemi un prete, chè, non vo’ mancare a questo ultimo debito di cristiano”. Qui cessò il suo parlare, cui egli avea continuato con tal viso fermo, con tal forza di parola e di voce, che, dove, entrandogli in camera, l’avevo trovato debole, strascicar le parole a fatica, co’ polsi abbattuti come da febbre lenta, quasi in bocca alla morte, pallido e smorto, allora parea che quasi per miracolo avesse ripreso novello vigore: colorito, il polso più forte, tanto che gli feci tastar il mio per confrontargli. Sì, sul momento mi si strinse il cuore, e non seppi come rispondere: due ore dopo, non solo per mantenergli questa grandezza di coraggio, ma anche perchè zelatore come sempre sono stato del suo onore e della sua gloria, avrei voluto più testimonj a sì nobili prove di magnanimità, e più gente lì in camera, gli dissi di aver fatto il viso rosso dalla vergogna per essere a me mancato il coraggio di udire quello che egli così grave malato aveva avuto coraggio di dirmi: che sino allora non aveva mai pensato che Dio ci desse così gran [p. 12 modifica]vantaggio sopra gli accidenti umani; e sempre ero andato a rilento nel credere quanto alle volte ne leggevo per le storie; ma, avutane tal solenne prova, ringraziavo Dio che ciò fosse stato in una persona da cui tanto era amato, e cui sì teneramente io amava, e che mi servirebbe d’esempio per fare, quando toccherà a me, il medesimo. Egli mi ruppe il discorso per pregarmi di giovarmene veramente, e di mostrare col fatto che i discorsi fatti tra noi mentre eravamo sani, non gli avevamo solamente sulle labbra ma profondamente scolpiti nel cuore, da mettergli in atto quando occorresse il bisogno; affermando che questo è il vero uso de’ nostri studj e della filosofia. E prendendomi per la mano, mi disse: “Fratello e amico mio, credi che mi pare di aver fatto in vita mia parecchie cose con la pena e con la difficoltà di questa qui: e ti dico cha da gran tempo ci ero preparato, e sapeva a mente la lezione. O che non basta l’essere arrivato alla mia età? son per entrare ne’ trentatre anni. Dio mi ha fatto la grazia d’avermi fino ad ora tenuto sano e benavventuroso; e come le cose umane sono instabili, così ciò non poteva durar di più. Era oggimai venuto il tempo di mettersi alle gravi faccende, di vedere mille spiacevolezze, come gl’incomodi della vecchiaja da’ quali sono scapolato per questa via. E poi è da presumere che fin qui io abbia vissuto con più semplicità e meno malizia che non avrei fatto per avventura, se Dio mi avesse lasciato tanto vivere che mi si fosse ficcata in testa la sollecitudine di diventar [p. 13 modifica]ricco e di accomodarmi l’uova nel paniere. Io, a buon conto, son certo che di là vo a trovare Dio e il soggiorno de’ beati”. E perchè mi si vedeva in viso l’accoramento che aveva nell’ascoltarlo: “Come! fratel mio, egli disse, mi vuoi far venir paura? O a chi starebbe a tormela via, se mai l’avessi? Non istarebbe a te?”

A bujo, venne il notaro che era stato chiamato a rogarsi del testamento: io feci distendere l’atto, e poi gli feci dire se voleva firmarlo: “Firmarlo no, rispose; lo vo’ far tutto da me. Ma vorrei un po’ di quiete, perchè ora mi sento troppo aggravato, e così debole che non ne posso più”. Io allora lasciavo andare; ma egli a un tratto si ripentì, e mi disse che la morte non aspetta i nostri comodi; e volle ch’io sentissi se il notaro avea la mano lesta, perchè egli detterebbe senza interrompersi. Chiamai il notaro, ed egli dettò senza metter tempo in mezzo così spedito il suo testamento, che era un impiccio andargli dietro. Finito ch’ei l’ebbe, mi pregò di leggerlo, e intanto mi disse: “Ecco bella cosa son le ricchezze; e proprio da affannarcisi attorno! Sunt hæc quaœ hominibus vocantur bona.” Firmato il testamento, ed essendo la camera piena di gente, mi domandò se il parlare gli faceva male: dissi di no, se avesse parlato sotto voce. Allora e’ fece chiamare la sua nipote, madamigella di San Quintino, e le disse: “Cara nipote, dal punto che ti conobbi mi è parso di veder rilucere in te de’ lampi di buona indole; ma queste ultime cure che tu mi presti con sì [p. 14 modifica]dolce effetto e con tanta diligenza nella mia presente necessità mi promettono gran cose di te; ed io te ne sono proprio tenuto e te ne ringrazio carissimamente. Del rimanente, per isdebitarmene, io ti ricordo di essere prima divota a messer Domeneddio; chè questo è senza fallo il primo de’ nostri doveri, e senza esso niuno atto nostro non può essere nè buono nè bello; dove, esercitandolo diligentemente, porta seco di necessità ogni altro atto virtuoso. Dopo Dio ti tocca ad amare e ad onorare il babbo e la mamma, la mia sorella che io reputo delle migliori e delle più savie donne del mondo; e ti prego di farti specchio sempre di lei. Fa che i piaceri non ti vincano: fuggi come la peste il trovarti da sola a solo con uomini, come qualche volta tu vedi far follemente alle donne; perchè, sebbene sul principio non ci sia nulla di male, tuttavia adagio adagio lo spirito se ne guasta, si fa capo alla oziosità, e poi passo passo si precipita nel lezzo dei vizj. Credi a me: la ritenutezza è la più sicura custode della castità d’una fanciulla. Ti prego, anzi dirò voglio che tu ti ricordi di me, affinchè tu abbia spesso dinanzi gli occhi il bene che t’ho voluto, e non per sentirne rammarico e dolerti della mia perdita. Della qual cosa, quanto io posso ne fo divieto a tutti gli amici, dacchè e’ parrebbe che m’invidiassero il bene che io, mercè la mia morte, andrò presto a godere; e t’avverto, figliuola mia, che, se Dio mi desse ora il partito o di tornare a viver dell’altro, o di fornire il cammino da me cominciato, io [p. 15 modifica]non saprei che cosa scegliere. Addio, mia dolcissima nipote”. Dopo fece chiamare madamigella d’Arsat sua figliastra, e le disse: “Figliuola, tu non hai gran bisogno de’ miei ricordi, perchè hai tal madre che io ho sperimentato sì prudente e sì conforme alle intenzioni mie ed alle mie volontà, che mai hammi dato cagion di rimprovero. Una sì fatta maestra ti istruirà dirittamente: ma non ti paja strano, se io, che non ho parentela teco, mi do cura e mi mescolo delle cose tue. Essendo tu figliuola di una persona che sì m’è accosta, è impossibile che tutto ciò che appartiene a te non tocchi anche me; e per questo ho sempre avuto gelosa cura come delle mie proprie, delle faccende del signor d’Arsat tuo fratello. Tu sei ricca, sei bella, e sei nata bene. Rimane che tu renda conformi i doni dello spirito a quelli della provvidenza: e ti prego di farlo. Non ti dico fuggi il vizio, che tanto è detestabile nelle donne, perchè non vo’ neanche pensare che mai tu ci possa volger la mente; e certo io credo il nome solo ti faccia raccapriccio. Addio, figliuola mia.”

Tutta la camera era piena di pianto e di lacrime, che per altro non interrompeano minimamente il filo de’ suoi discorsi assai lunghi. Alla fine comandò che uscissero tutti di camera, fuorchè la guarnigione, così chiamò le fantesche che il servivano; e poi, chiamando o a sè Beauregard, mio fratello, gli disse: “Signor di Beauregard, vi ringrazio di cuore della sollecitudine che vi date per me: vorreste, lo so, ch’io vi manifestassi qual cosa che ho sul cuore da dirvi”. E [p. 16 modifica]dettogli mio fratello che era vero, continuò: “Io vi giuro che fra tutti coloro, che si son messi alla riforma della Chiesa, non ho mai dubitato essercene uno solo, che siacisi messo con migliore e più puro zelo, con più sincera e più intera affezione di voi: e credo di certo, i soli vizj de’ nostri prelati, i quali senza fallo abbisognano di gran correzione, ed anche qualche imperfezione che il corso de’ tempi ha fatto trapelar nella Chiesa, avervi mosso a ciò. Nè io voglio ora rimuovervene, perchè io non prego volentieri nessuno di far checchessìa contro coscienza; ma vo’ bene assennarvi che, per rispetto alla buona riputazione acquistata dalla vostra casa con la continua concordia (casa a me cara quanto veruna altra al mondo: Dio mio, che casa! da cui non è mai uscito un’azione se non di uomo da bene), per rispetto alla volontà di vostro padre, quel buon vecchio a cui tanto dovete, per rispetto del vostro buon zio, de’ vostri fratelli, voi vi cansiate da tali eccessi: non siate sì acerbo e violento: accordatevi con loro: non fate campo e schiera da voi: state uniti. Lo vedete quali rovine hanno partorito al regno simili dissensioni; e vi prometto che gliene partoriranno delle più gravi. E come voi siete buono e saggio, così guardatevi seminar tali guaj anche tra la vostra famiglia, per amor di non farle perdere quella gloria e quella felicità onde ha goduto sin qui. Signor di Beauregard, queste parole pigliatele in buona parte, e come certa prova di amicizia; chè a questo effetto ho aspettato a dirvelo ora; e forse, [p. 17 modifica]dicendovele nello stato che mi vedete, avranno appresso di voi più peso e più autorità”. Mio fratello gliene rese efficacissime grazie.

Il lunedì stava sì male, che non gli rimaneva più speranza; tanto che appena mi vide, chiamommi con atto di gran dolore, e mi disse: “Fratel mio, non hai compassione del vedermi tanto soffrire? Non ti sei ancora accorto che tutte le cure tue non fanno altro che allungarmi il dolore.” E subito si svenne, per modo che il lasciavamo per morto; ma poi a forza di vino e d’aceto ritornò. Per altro campò poco più, e udendo i nostri gemiti, ci disse: “Dio mio, che tormento! e perchè mi si turba quel grande e dilettoso riposo che io godo? Andatevene per carità.” E udendo la mia voce, disse: “Ah! ci sei anche tu, eh? Dunque tu non vuoi ch’io guarisca! Oh quale asilo voi mi fate perdere!” Da ultimo, essendosi rimesso anche meglio, chiese un po’ di vino; dal quale sentendosi confortato, mi disse ch’esso era il miglior liquore del mondo. “No, ve’, dissi io, per richiamarlo al proposito, è l’acqua.” “Sì, replicò egli, è il mio ὕδωρ Ἄριστον2. Già egli avea tutte le estremità, ed anche il viso, diacce marmate: gocciolava tutto quanto di un sudore mortale, nè gli si trovavano quasi più i polsi. La mattina si confessò; ma perchè il prete non avea portato il bisognevole, non potè dirgli la messa. Ma la mattina di poi e’ disse che la voleva, perchè l’ajutasse a [p. 18 modifica]fare l’ultimo suo atto di cristiano. Così udì la messa, e si comunicò. Quando il prete si licenziò, gli disse: “Padre, vi supplico umilmente, voi e gli altri del vostro clero, pregate Dio per me, che, se egli nell’abisso del suo giudizio ha destinato che io finisca ora i miei giorni, che egli mi abbia misericordia, e mi perdoni i peccati che sono senza numero, dacchè è impossibile che una sì vile e sì umil creatura come me, abbia potuto osservare i comandamenti di sì alto, e sì potente signore; se poi a lui sembra che io possa esser tuttora utile di qua, e voglia farmi campare qualche altra ora, supplicatelo che faccia cessar presto e gli spasimi che io soffro, e che mi faccia la grazia di guidare da qui in là i miei passi dietro alla sua volontà, e di rendermi migliore che non sono stato fino adesso.” Qui si chetò un poco per riprenda fiato; e vedendo il prete andarsene, lo richiamò e gli disse: “Vo’ dire un’altra cosa in presenza di voi. Io dichiaro che, come io son stato battezzato, così muojo in quella fede e religione, che Mosè fondò prima in Egitto, che poi i Padri riceverono in Giudea, e che di mano in mano per succedersi di tempi è stata portata in Francia.” A vederlo, pareva che avrebbe parlato anche di più, se avesse potuto; ma cessò, pregando lo zio e me di pregare Dio per lui, “perchè, e’ disse, questo è il miglior servizio che i cristiani possono farsi l’un l’altro.” Nel parlare gli s’era scoperta una spalla, e benchè avesse più vicino un servitore, pregò suo zio di ricoprirgliela; e poi guardando me, disse: Ingenui est cui [p. 19 modifica]multum debeas et plurimum velle debere. Dopo mezzo giorno gli venne a far visita il signor di Belot; e prendendogli la mano, gli disse: “Mio buon amico, mi son trovato anch’io sul punto di pagar il mio debito; ma trovai un creditore che me lo condonò.” Poco appresso, come riscotendosi tutto sossopra: “Bene, bene; la venga quando le pare: ho vissuto abbastanza: vo’ morire, e l’aspetto anche subito sicuro, ed a piè fermo.” Tali parole le disse due o tre volte nel corso della sua malattia. Poi, siccome gli si aprì un poco la bocca per fargli prender qualcosa; volgendo il parlare al signor di Belot disse: An vivere tanti est? Verso sera cominciò proprio a buono a tirare gli ultimi tratti; e come io immaginavo, mi fece chiamare che non era più se non l’ombra di uomo (come diceva egli stesso: Non homo, sed species hominis), e mi disse con molto stento: “Fratel mio, mio amico, Dio volesse che delle immaginazioni che mi son passate per il capo, io ne vedessi il fatto.” Aspettate un pezzettino, che non parlava più, e metteva pietosissimi sospiri per isforzarsene, dacchè la lingua avea già cominciato a negargli il suo ultimo ufficio: “E quali sono, fratel mio?” gli domandai. “Grandi, grandi,” rispose. Ed io: “Non c’è stata mai una volta che tu non mi abbia onorato di mettermi a parte di tutte quelle che ti passarono per la mente, potresti darmi ancora questa consolazione?” “Con tutto il cuore, fratel mio, rispose egli, ma non posso. Sono mirabili, infinite, ineffabili.” Restammo qui; che egli non ne poteva più. Pochi [p. 20 modifica]momenti innanzi avea voluto veder sua moglie, e con viso lieto quanto più gli era riuscito di contraffarlo, le avea detto che aveva da rammentargli non so che; e parve che si sforzasse a parlare; ma la lena gli fallì, e chiese un po’ di vino per racquistarla. Ma non fu possibile, perchè tosto si svenne, e perse per lungo tempo il vedere. Era già in sul morire, e udendo gemere madamigella de la Boëtie, la chiamò e dissele queste parole: “Idolo mio, tu ti disperi avanti tempo: vuoi tu aver compassione di me? fatti coraggio. Io, vedi, provo più strazio il doppio per il male che mi fai soffrir tu, che per il mio; e sta bene, perchè i mali che proviamo in noi, non gli proviamo veramente noi, ma certi sensi che Dio ha in noi posto; ma quello che proviam per altrui, lo proviamo per un cotal giudizio e discorso di ragione... Ma io me ne vo.” Questo diceva sentendosi mancare il cuore; poi, per paura di aver colpito acerbamente sua moglie, riprese: “Io me ne vo a dormire: buona sera, moglie mia: va un poco di là.” E questo fu l’ultimo addio che le dette. Partita che fu, mi disse: “Fratello, sta qui da me, fammi il piacere.” E poi o sentendo le ferite della morte più profonde e più acerbe, o che fosse la forza di qualche medicina eccitante fattagli prendere, mise fuori una voce più chiara e più forte, e si rivoltava con molta forza per il letto; tanto che cominciammo tutti a ripigliare un po’ di quella speranza che innanzi la sola debolezza aveaci fatto perdere. Allora tra l’altre cose si mise a pregarmi e ripregarmi amorosamente che [p. 21 modifica]io gli dessi un posto; e però ebbi paura che vagellasse. Anzi, avendogli fatto dolce rimprovero come mai si lasciasse vincere al male, e che tali parole non erano degne del suo senno, non si arrese al primo colpo, ma ripetè con più forza: “Come! fratel mio, come, fratel mio, tu mi neghi un po’ di posto?” Allora io mi sforzati di vincerlo con la ragione, dicendogli che, se egli respirava e parlava, vuol dire che il posto l’aveva “Sì, sì, rispose, del posto ne ho, ma non è quel ch’i’ voglio io: e poi quando s’è detto e detto, io non ho più esistenza.” — “Dio, gli replicai, te ne darà testè una migliore.” — “Oh! se lo facesse subito, fratel mio! rispose egli: è tre giorni che son tutto sossopra per partire.” Fra queste smanie ogni tanto mi chiamava per sentire se ero lì da lui: all’ultimo prese come un po’ di sonno, il che ci confermò nella buona speranza; per forma che, uscendo di camera, andai a rallegrarmene con madamigella de la Boëtie. Ma dopo un’ora o così, nominandomi una o due volte, e tirando con tutta forza il fiato a sè, spirò circa alle tre di mattina, mercoledì 18 di agosto del 1563, dopo aver vissuto 32 anni, 9 mesi e 17 giorni.




Note

  1. Un ricordo del tuo amico.
  2. Sono parole di Pindaro che suonano: L’acqua è ottima cosa.