L'isola misteriosa/Parte prima/Capitolo XX

Parte prima - Capitolo XX

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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CAPITOLO XX.


La stagione delle pioggie – La questione delle vestimenta — Una caccia alle foche — Fabbricazione delle candele — Lavori interni del Palazzo di Granito — I due ponticelli — Ritorno da una visita all’ostricaja — Ciò che Harbert trova nelle sue tasche.

La stagione dell’inverno cominciò veramente con quel mese di giugno che corrisponde al mese di dicembre dell’emisfero boreale. Essa esordì con acquazzoni e con venti che si succedettero senza tregua.

Gli ospiti del Palazzo di Granito poterono apprezzare i vantaggi di un’abitazione assolutamente al riparo dalle intemperie. Davvero i Camini sarebbero stati insufficienti contro i rigori d’uno svernamento, e si avrebbe dovuto temere che le grandi maree, spinte dai venti del largo, vi facessero irruzione. Cyrus Smith prese anzi alcune precauzioni, prevedendo questa eventualità, affine di riparare, quanto era possibile, la fucina ed i fornelli che vi si trovavano.

Tutto quel mese di giugno fu speso in diversi lavori che non escludevano la caccia, nè la pesca, e le provviste della dispensa poterono essere mantenute abbondantemente. [p. 81 modifica]

Pencroff, non appena ne avesse agio, si proponeva di stabilire delle trappole, da cui s’aspettava gran risultati. Egli aveva fabbricato lacci di fibre legnose, e non passava giorno che la conigliera non fornisse il suo contingente di roditori. Nab spendeva quasi tutto il suo tempo nel salare o nell’affumicare le carni; il che gli assicurava eccellenti provviste. La questione delle vestimenta fu allora discussa sul serio. I coloni non avevano altri abiti, fuor quelli che portavano indosso quando il pallone li gettò sull’isola. Codesti abiti erano caldi e solidi, e ne avevano preso gran cura al par della loro biancheria, e li tenevano in perfetto stato di nettezza, ma tutto ciò doveva presto essere necessariamente sostituito. Inoltre, se l’inverno fosse molto rigido, i coloni avrebbero a patire il freddo.

A questo proposito l’ingegnosità di Cyrus Smith venne meno; egli aveva dovuto provvedere ciò che più urgeva: creare l’abitazione, assicurare l’alimentazione, ed il freddo poteva sorprenderlo prima che la questione delle vestimenta fosse risoluta; bisognava dunque passare quel primo inverno senza lamentarsi. Venuta la bella stagione, si farebbe una caccia seria ai mufloni, di cui si era segnalata la presenza nell’esplorazione del monte Franklin; ed una volta raccolta la lana, l’ingegnere saprebbe pur fabbricare salde e robuste stoffe. Ed in qual modo?

Ci penserebbe.

— Ebbene, ce la caveremo coll’abbrustolirci i polpacci in Palazzo, disse Pencroff. Il combustibile abbonda e non v’ha ragione di farne risparmio.

— - D’altra parte, rispose Gedeone Spilett, l’isola Lincoln non è situata in una temperatura molto alta, ed è probabile che gl’inverni non saranno molto rigidi. Non ci avete voi detto, Cyrus, che questo 35° parallelo corrisponde a quello della Spagna dell’altro emisfero? [p. 82 modifica]

— Senza dubbio, rispose l’ingegnere, ma certi inverni sono freddi in Ispagna, neve e ghiaccio non vi manca, e l’isola Lincoln può essere posta a dura prova. Peraltro è un’isola, e come tale spero che la temperatura vi sarà più moderata.

— E perchè, signor Cyrus? domandò Harbert.

— Perchè il mare può essere considerato come un immenso serbatojo ove si accumulano i calori d’estate, che restituisce una volta giunto l’inverno; ciò assicura alle regioni vicine agli oceani una temperatura media, meno elevata d’estate e meno bassa all’inverno.

— La vedremo, disse Pencroff; io non voglio inquietarmi del freddo che farà o non farà. Certo è che i giorni sono già corti e le serate lunghe. Se trattassimo un po’ la quistione dell’illuminazione...?

— Nulla di più facile, disse Cyrus Smith.

— A trattare?

— A risolvere.

— E quando cominceremo?

— Domani, allestendo una caccia alle foche.

— Per fabbricare delle candele?

— Sì certo, delle steariche.

Tale era infatti il progetto dell’ingegnere; progetto facile a porre in atto, poichè egli aveva calce ed acido solforico, e gli anfibî dell’isola gli fornivano il grasso necessario per la fabbricazione.

Si era giunti al 4 giugno, e vi fu accordo unanime per osservare questa festa.

Venne interrotto ogni lavoro, e si levarono al Cielo molte preghiere; preghiere che oramai erano azioni di grazie. I coloni dell’isola Lincoln non eran più i miserabili naufraghi gettati sull’isolotto. Essi più non dimandavano, ringraziavano.

Il domani, 5 giugno, con un tempo molto incerto, si partì per l’isolotto. Bisognò ancora approfittare della marea bassa per guadare il canale; perciò fu convenuto di fabbricare alla meglio un canotto, che [p. 83 modifica]renderebbe più facile le comunicazioni e permetterebbe di risalire la Grazia, quando si facesse la grande esplorazione del sud-ovest dell’isola, che era stata differita ai primi bei giorni. Le foche erano numerose, ed i cacciatori, armati dei loro spiedi ferrati, ne uccisero facilmente una mezza dozzina. Nab e Pencroff le scuojarono, e non portarono al Palazzo di Granito altro che il grasso e la pelle, che doveva servire a fabbricare robusti calzamenti.

Il risultato della caccia fu questo: circa 300 libbre di grasso, che doveva essere interamente adoperato nella fabbricazione delle steariche.

L’operazione fu estremamente semplice, e se non diede prodotti proprio perfetti, li diede almeno tali da poter essere adoperati. Cyrus Smith, quand’anche non avesse avuto a sua disposizione che l’acido solforico, scaldando questo acido coi corpi grassi neutri (col grasso di foca per esempio) avrebbe potuto isolare la glicerina, e dalla nuova combinazione separar facilmente l’oleina, la margarina e la stearina adoperando l’acqua bollente. Ma per semplificare l’operazione egli preferì saponificare il grasso colla calce. Ottenne così un sapone calcareo, facile a decomporsi coll’acido solforico, che precipitò la calce allo stato di solfato e rese liberi gli acidi grassi.

Di questi tre acidi: oleico, margarico e stearico, il primo essendo liquido, fu cacciato da una pressione sufficiente; quanto agli altri due formavano appunto la sostanza che doveva servire alla fabbricazione delle candele.

L’operazione non durò più di ventiquattro ore.

Le miccie, dopo molti tentativi, furono fatte di fibre vegetali, e, bagnate nella sostanza liquefatta, formarono vere candele steariche, a cui venne data la forma colle mani, e che solo avevano bisogno di essere imbiancate. Esse non offrivano certo quel vantaggio che ha lo stoppino impregnato di acido borico di vetri[p. 84 modifica]ficarsi mano mano che si accende, e consumarsi interamente, ma avendo Cyrus Smith fabbricato un bel pajo di smoccolatoi, quelle candele furono molto apprezzate durante le veglie del Palazzo di Granito.

In tutto questo mese non manco il lavoro all’interno della nuova abitazione: i falegnami ebbero anzi un gran da fare, e si perfezionarono gli utensili che erano molto rudimentali.

Fra le altre cose, furono fabbricate delle forbici, ed i coloni poterono finalmente tagliarsi i capelli, e se non farsi la barba, almeno foggiarla a loro piacere. Harbert non ne aveva, e Nab nemmeno, ma i loro compagni erano così pelosi da giustificare l’uso delle forbici.

La fabbricazione d’una sega a mano, del genere di quelle che vengono chiamate gattucci, costò infinite pene, ma finalmente si ottenne uno strumento che, maneggiato vigorosamente, potè dividere le fibre legnose del legno. A questo modo si fecero tavole, armadî, sedie, che ammobiliarono le principali camere, telai di letti, i cui fornimenti consistevano in un unico materasso di zosteri. La cucina colle sue mensole, su cui erano schierati gli utensili di terra cotta, col suo fornello di mattoni, aveva un bell’aspetto, e Nab vi funzionava gravemente come in un laboratorio chimico.

Ma i falegnami dovettero essere presto sostituiti dai carpentieri. Invero, il nuovo sbocco fatto a colpi di mina rendeva necessaria la costruzione di due ponticelli, l’uno sull’altipiano di Lunga Vista, l’altro sul greto medesimo. Oramai, infatti, l’altipiano ed il greto erano trasversalmente tagliati da un corso d’acqua, che bisognava necessariamente superare quando si voleva recarsi al nord dell’isola. Per evitarlo, i coloni sarebbero stati obbligati a fare un gran giro ed a risalire nell’ovest fino al di là delle sorgenti del rivo Rosso. La cosa più semplice era dunque di stabilire sull’altipiano e sul greto due ponticelli lunghi da [p. 85 modifica]venti a venticinque piedi, e di cui alcuni alberi squadrati coll’accetta bastarono a formare tutta l’ossatura. Fu l’opera di pochi giorni. Stabiliti i ponti, Nab e Pencroff ne approfittarono per andare fino all’ostricaja, che era stata scoperta al largo delle dune. Essi avevano trascinato seco una specie di carro grossolano, che sostituiva l’antico graticcio, veramente troppo incomodo, e riportarono alcune migliaja di ostriche, il cui allevamento si compiè rapidamente in mezzo a quelle roccie che formavano altrettanti parchi naturali alla foce della Grazia. Quei molluschi erano di qualità eccellente, ed i coloni ne fecero una consumazione quasi quotidiana.

Come si vede, l’isola Lincoln, benchè i suoi abitanti non ne avessero esplorato che una piccolissima porzione, provvedeva di già a quasi tutti i bisogni, ed era probabile che, frugata in ogni angolo più riposto, in tutta quella parte boschiva che si stendeva dalla Grazia fino al promontorio del Rettile, essa prodigherebbe nuovi tesori.

Una sola privazione, però, tormentava i coloni dell’isola Lincoln. Il nutrimento azotato non mancava loro, e nemmeno i prodotti vegetali che dovevano temperarne l’uso; le radici legnose dei dragoni, posti a fermentare, davano loro una bevanda acidula, specie di birra, molto preferibile all’acqua pura; essi avevano anche fabbricato dello zucchero senza canne nè barbabietole, raccogliendo il liquore distillato dall’acer saccarinum, specie di acero della famiglia delle acerinee, che cresce in tutte le zone temperate, e che abbondava nell’isola; facevano un thè molto gradevole, adoperando le monarde raccolte nella conigliera; infine avevano sale in abbondanza, il sale che è il solo dei prodotti minerali che entri nelle alimentazioni... se non che mancava il pane.

Forse col tempo i coloni potrebbero sostituire questo alimento con qualche equivalente: farina di sagù o fe[p. 86 modifica]cola dell’albero del pane; ed era di fatto possibile che le foreste del sud contassero fra le loro essenze quegli alberi preziosi che finora non s’erano incontrati.

Pure la Provvidenza doveva in questa occasione venir direttamente in ajuto dei coloni. Fu in proporzione infinitesimale, è vero, ma in fine Cyrus Smith, colla sua intelligenza e colla sua ingegnosità, non avrebbe mai potuto produrre ciò che per caso Harbert trovò un giorno nella fodera della sua veste mentre la rammendava.

In quel giorno pioveva a torrenti ed i coloni erano radunati nella gran sala del Palazzo di Granito, quando il giovinetto esclamò all’improvviso:

— To’, signor Cyrus, un grano di frumento!

E mostrò ai compagni un grano, un unico grano che dalla tasca forata s’era introdotto nella fodera dell’abito. La presenza di quel grano si spiegava coll’abitudine che Harbert aveva, quando stava a Richmond, di nutrire alcuni colombi che Pencroff gli aveva regalati.

— Un grano di frumento! rispose vivamente l’ingegnere.

— Sì, signor Cyrus, ma uno solo pur troppo.

— Eh, fanciullo mio! esclamò Pencroff sorridendo, eccoci bene avviati in fede mia! Che cosa potremo fare con un solo grano di frumento?

— Ne faremo del pane, rispose Cyrus Smith.

— Del pane, dei pasticci, delle focaccie! replicò il marinajo. Via! Il pane fornito da questo grano non ci soffocherà tanto presto.

Harbert, dando pochissima importanza alla propria scoperta, stava per buttar via il grano in quistione, ma Cyrus Smith lo prese, l’esaminò, e riconobbe che era in buono stato; poi guardando il marinajo in faccia, gli domandò tranquillamente:

— Pencroff, sapete voi quante spighe può produrre un grano di frumento? [p. 87 modifica]

— Una, immagino, rispose il marinajo meravigliato della domanda.

– Dieci, Pencroff. E sapete quanti grani porta una spiga?

— In fede mia no.

— Ottanta in media, disse Cyrus Smith. Dunque se noi piantiamo questo grano, al primo raccolto ne avremo ottocento, i quali ne produrranno seicento quarantamila, che nel terzo raccolto ne daranno cinquecentododici milioni, e nel quarto più di quattro cento miliardi di grani! Ecco la proporzione.

I compagni di Cyrus Smith lo ascoltavano senza rispondere. Quelle cifre gli sbalordivano; pure erano esatte.

— Sì, amici miei, soggiunse l’ingegnere, tali sono le progressioni aritmetiche della feconda natura; e, d’altra parte, che cosa è questa moltiplicazione del grano di frumento, che non da più di ottocento grani, al paragone delle piante di papavero che danno trentaduemila grani, o delle piante di tabacco che ne producono trecentosessantamila! Senza le molte cause che ne arrestano la fecondità, queste piante invaderebbero tutta la terra.

Ma l’ingegnere non aveva finito il suo interrogatorio.

— Ed ora, Pencroff, sapete voi quanti moggi rappresentano quattrocento miliardi di grani!

— No, rispose il marinajo, io so solo che sono un asino!

— Ebbene, formerebbero più di tre milioni di moggi a centocinquanta grani per moggio.

— Tre milioni! esclamò Pencroff.

— Tre milioni.

— In quattro anni?

— In quattro anni, rispose Cyrus Smith, ed anche in due se, come spero, possiamo in questa latitudine ottenere due raccolti all’anno. [p. 88 modifica]

A questo, secondo la sua abitudine, Pencroff non credette di rispondere meglio che con un formidabile evviva.

Dunque, Harbert, tu hai fatto una scoperta importantissima per noi. Tutto, amici miei, tutto può servirci nella condizione in cui siamo; ve ne prego, non lo dimenticate.

— No, signor Cyrus, no, non lo dimenticheremo, rispose Pencroff, e se mai trovassi uno di quei grani di tabacco che diventano trecentosessantamila, vi assicuro che non lo getterò al vento; ed ora sapete quel che ci rimane a fare?

— Non altro che piantare questo grano, rispose Harbert.

— Sì, aggiunse Gedeone Spilett, e con tutti i riguardi che gli sono dovuti, perchè porta in sè le nostre messi future.

— Purchè germogli! esclamò il marinajo.

— Germoglierà, rispose Cyrus Smith.

Si era al 20 giugno. Il momento era dunque propizio per seminare quell’unico e prezioso grano di frumento. Dapprima și trattò di piantarlo in un vaso, ma dopo averci pensato si risolvette di riferirsene più direttamente alla natura e di affidarlo alla terra. Gli è ciò che fu fatto nel giorno medesimo, ed è inutile aggiungere che furono prese tutte le precauzioni perchè l’operazione riuscisse.

Il tempo essendosi leggermente rischiarato, i coloni salirono sulle altura del Palazzo di Granito. Quivi scelsero sull’altipiano un luogo riparato dal vento e da cui il sole del mezzodì doveva versare tutto il suo calore. Fu nettato il luogo, sarchiato con cura e perfino frugato per cacciarne gl’insetti od i vermi; ci si mise uno strato di buona terra corretta con un po’ di calce; lo si circondò d’una palizzata, poi il grano fu sepolto nell’umido strato.

Non pareva egli che i coloni ponessero la prima pietra [p. 89 modifica]d’un edificio? Ciò ricordo a Pencroff il giorno in cui aveva acceso il suo unico zolfanello, e tutte le cure che mise in questa operazione. Ma stavolta la cosa era più grave. Infatti i naufraghi sarebbero sempre riusciti a procurarsi del fuoco in un modo o nell’altro; ma nessuna forza umana avrebbe potuto rifare quel grano di frumento, se fosse andato a male.