L'autobiografia, il carteggio e le poesie varie/I. Autobiografia/III. Gli ultimi anni del Vico. Aggiunta del marchese di Villarosi

I. Autobiografia - III. Gli ultimi anni del Vico. Aggiunta del marchese di Villarosi
I. Autobiografia - II. Aggiunta fatta dal Vico alla sua autobiografia I. Autobiografia - IV. Due appendici

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Gli ultimi anni del Vico

Aggiunta del marchese di Villarosa.

Divenuto Giovan Battista Vico, com’egli stesso ci fa sapere, padre di non scarsa prole, e questa giá fatta adulta, cominciò a soffrire quei dissapori e quelle angustie che un avventuroso genitore non di rado è costretto a tollerare. Crescer vedea ogni giorno la domestica indigenza, perciocché, come confessò egli medesimo, fin dalla prima etá sua la provvidenza non volle costituirlo in agiata condizione, troncandogli tutti que’ mezzi che onestamente tentati avea per render la sua situazione migliore. Difatti egli stesso in dorso di una risposta fattagli dal cardinale Lorenzo Corsini, suo mecenate, il di cui patrocinio avea implorato per mandare alle stampe la prima edizione della Scienza nuova, e non essendo stato esaudito, scrive cosi: « Lettera di Sua Eminenza Corsini, che non ha facultá di somministrare la spesa della stampa dell’opera precedente alla Scienza nuova , onde fui messo in necessitá di pensar a questa dalla mia povertá, che restrinse il mio spirito a stamparne quel libricciuolo, traendomi un anello che avea, ov’era un diamante di cinque grani di purissima acqua, col cui prezzo potei pagarne la stampa e la legatura degli esemplari del libro, il quale, perché mel trovava promesso a divulgarlo, dedicai ad esso signor cardinale».

Il sostentamento della vita era costretto di ricavarlo tutto dallo scarso onorario della cattedra; e, niente questo bastandogli, videsi obbligato a dar in casa privata lezione di eloquenza e di lettere latine, ed ivi aveano in pregio i piú scelti gentiluomini della nostra capitale di mandarci i propri figliuoli, sicuri essendo che dal Vico, meglio di qualunque altro professore

G. B. Vico, Opere - v.

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di tali facoltá, apprender potessero la vera sapienza dalla piú esatta morale non iscompagnata. Oltre a coloro che le domestiche lezioni udivano dal nostro Vico, numerar debbonsi molti figliuoli de’ principali signori di questo Reame, nella casa de’ quali si conducea per istruirli, fra li quali per brevitá nominerò solo i Carafa di Traetto, gli Spinelli de’ principi di Scalea, i Gaetani de’ duchi di Laurenzana, perciocché i magnati della cittá nostra in quell’etá niuna cura trascuravano acciocché i loro figliuoli ed eredi saggi e scienziati divenissero, ben opinando che all’ uomo nobile, di agi fornito, niuna altra cosa tanto mal si conviene che Tesser confuso fra l’infinita schiera de’ folli ed ignoranti.

Ma tali aiuti non furon bastanti a minorare gli urgenti bisogni da’ quali era giornalmente oppresso ed avvilito. Avea avuto per fatai disgrazia una moglie quanto dotata di puri ed ingenui costumi, sfornita altrettanto di quei talenti che anche in una mediocre madre di famiglia si richiedono. Non sapendo neanche scrivere, pochissima cura prendevasi delle domestiche faccende, in guisa che il dotto uomo costretto era a pensare e provvedere non solo a’ vestimenti, ma di quanto altro i piccoli suoi figliuoli avean di bisogno.

Tenero oltremodo dimostrossi con costoro, e fra essi amò con predilezione le due figliuole; e, scorgendo che la maggiore, nominata Luisa, era fornita di talenti piú che a donna necessari e che mostrava un’inclinazione per le arti ingenue e specialmente per la poesia, d’istruirla egli stesso s’industriò con somma cura ed attenzione. Ebbe il contento che le sue cure vane non riuscissero, perciocché, adulta divenuta, si distinse molto nella italiana poesia, come lo dimostrano alcuni leggiadri componimenti di lei in diverse raccolte per le stampe promulgate. Ed era bello vedere il nostro saggio, nelle ore che gli rimanèvan libere dalle quotidiane e non interrotte noiose occupazioni, prender qualche leggiadro trastullo con le sue care figliuole; del che fu ocular testimone il padre don Benedetto Laudati cassinese, uomo per venerandi costumi e per sapere riputatissimo, che, visitandolo spesso, e trovandolo un di scher [p. 83 modifica] III. AGGIUNTA DEL VILLAROSA 83

zando con le sue figliuole, non potè a meno di ripetergli que’ versi del Tasso:

Mirasi qui fra le raeonie ancelle

favoleggiar con la conocchia Alcide;

del qual motteggio il tenero padre rallegrossi e sen rise.

La consolazione nondimeno che gli recavan le figlie amareggiata venne oltremodo dalla cattiva indole che mostrò fin dalla tenera etá un altro suo figliuolo, il nome del quale mi piace qui di occultare. Cresciuto questi in etá, lungi di dar opera agli studi ed alle oneste discipline, diessi interamente in preda ad una vita molle ed oziosa, ed in processo di tempo a* vizi di ogni maniera, in guisa che il disonore divenne dell’intera famiglia. Niun mezzo fu trascurato dal saggio padre onde il figliuolo, lasciata la torta via, al buon sentiere novellamente ritornasse. Frequenti ed amorevoli ammonizioni, autorevoli minacce di uomini saggi e riputati, riusciron tutte vani tentativi per rendere il traviato giovane migliore; a tal che l’addolorato padre, suo malgrado, nella dura necessitá trovossi di ricorrere alla giustizia per farlo imprigionare. Ma, nel momento che ciò si eseguiva, avveggendosi che i birri giá montavan le scale della casa di lui e l’oggetto sapendone, trasportato dal paterno amore corse dal disgraziato figlio e tremando gli disse: — Figlio, sáivati. — Ma un tal passo di paterna tenerezza non impedi che la giustizia avesse il corso dovuto, poiché il figlio condotto venne in prigione, ove dimorò lunga pezza, finché non diede chiari segni di essere veramente nei costumi mutato.

Tal domestica non lieve calamitá accompagnata venne da altra non inferiore: dalla cagionevole salute, cioè, di un’altra figliuola, che cominciò ad esser fieramente tormentata da dolorose infermitá. Mentre queste cagionavano la piú grande afflizione all’addolorato padre, lo costringevano a continui dispendi per medici e medicine, che con dolore ma senza risparmio erano forse inutilmente prodigalizzati. Tali e cosi gravi disturbi di animo non frastornarono mai il Vico dall’attendere alle sue lezioni, alle quali l’onore ed il dover suo lo chiamavano. Soffriva [p. 84 modifica]

tutto con eroica pazienza, e talvolta solo si udí con qualche suo intimo amico profferir queste gravi parole: « che la disgrazia l’avrebbe perseguitato fin dopo la morte... ». Funesto presagio, che disgraziatamente avverossi, come dopo si dirá.

Un raggio di miglioramento di sua condizione cominciò a splendere in lui con la propizia venuta in questo Regno dell’ immortai Carlo Borbone. Questo magnanimo e benefico sovrano, alle cui grandiose imprese in corto giro eseguite (a compimento totalmente ridotte dal degno figliuolo di lui e successore nel trono) tanto dee questo Regno, fra le non ultime sue cure ebbe quella di essere, qual altro Alfonso suo antecessore, sommo proteggitore de’ dotti e scienziati uomini. Quindi, essendogli state fatte palesi le rare prerogative del nostro Vico, col seguente onorevolissimo diploma lo destinò regio istoriografo coll’annuo stipendio di ducati cento:

Habiendose dignado Su Magestad en atencion d la doctrina que concurre en Vuestra Merced y d los trabajos que ha tenido en instruir por largo espacio de ahos la juventud en está reai universidad de los esludios, de eligirle por su historiografo, confiriendole el titulo y el empieo, con la confianza de que por su conocida habilidad lo ejercerd con el apiauso correspondiente d las otras eruditas obras que ha dado d la luz, y asignandole tambien por ahora otros cieti ducados sobre los que ya tiene en la universidad ; lo significo d Vuestra Merced de su reai orden para que sepa la grada que ha merecido de Su Magestad.

Dios garde d Vuestra Merced rnuchos anos, corno desco.

Ndpoles, d 21 de julio 1735.

Joseph Joachin de Montealegre. Senor don Juan Baptista Vico.

Maggiori tratti di sovrana beneficenza avrebbe sicuramente esperimentati il nostro Vico, se, cresciuto in etá, non gli fossero cresciuti quei malori che fin da’ suoi piú floridi anni l’aveano fieramente minacciato. Cominciò ad esser adunque sensibilmente indebolito in tutto il sistema nervoso, in guisa che a stento [p. 85 modifica]

potea camminare, e quel che piú lo affliggea era di vedersi ogni giorno infiacchire la reminiscenza. Fu costretto perciò ad astenersi d’insegnare in sua casa e di proseguir le lezioni nella regia universitá degli studi. Diede in séguito supplica al sovrano acciò si fosse degnato di fargli succedere almeno interinamente nella sua cattedra il figliuolo Gennaro, come colui che bastante prova dato avea per sostenerla, avendo varie volte in presenza del padre spiegate le oratorie istituzioni non senza soddisfazione del pubblico. Fu una tal domanda rimessa per udirne il parere a monsignor don Nicola de Rosa, vescovo di Pozzuoli e cappellan maggiore, alla qual carica in quei tempi unita era la prefettura de’ regi studi. Il saggio prelato, a cui il valore e la probitá del giovane Gennaro Vico era ben nota, non esitò punto di rassegnare al sovrano che, avendo riguardo ai lunghi servigi prestati da Giovan Battista Vico nella regia universitá ed alle buone qualitá che nel figlio concorrevano, potea degnarsi conferir al medesimo la cattedra di rettorica in proprietá. Il qual parere essendo stato dal clementissimo sovrano approvato, venne la cattedra di rettorica conferita a Gennaro Vico con inesplicabil contento del vecchio ed infermo genitore.

Il fiaccato corpo del saggio vecchio andò in séguito ogni giorno piú a debilitarsi, in guisa che avea perduto quasi interamente la memoria fino a dimenticare gli oggetti a sé piú vicini ed a scambiare i nomi delle cose piú usuali. Non piú si dilettava, come nel principio dell’ infermitá era uso fare, della lettura di qualche latino autore, che Gennaro di lui figliuolo amorosamente gli facea. Passava le intere giornate seduto in un angolo di sua casa tranquillo non solo ma taciturno, ed a stento si nudriva di scarse e leggiere vivande. Gli amici, che Io visitavano con frequenza, eran da lui appena salutati, né mai piú s’intrattenne seco loro, come sempre avea fatto, in onesti e gioviali ragionamenti. Né possibil fu togliere o render men forte un si pertinace malore col presidio dell’arte salutare, ad onta di efficaci rimedi che gli venivan suggeriti da valentissimi medici, suoi colleghi nella regia universitá; ché anzi si disperata infermitá, sempre piú avanzandosi, ridusse finalmente l’ infelice [p. 86 modifica]

Vico a non riconoscere i propri figli, da lui teneramente amati. Durò in un tale penosissimo stato un anno e due mesi, allorché, mancandogli le vitali forze per la somma ritrosia che aveva ad ogni qualitá di cibo, dovè sempre giacer nel letto, bevendo a lenti e dolorosi sorsi la morte. Alcuni giorni prima di esalare l’ultimo fiato, riacquistò l’uso dei sensi, e, come da lungo sonno destato, riconobbe i figliuoli e quei che gli eran d’intorno; del quale accidente quanto costoro rallegrati si fossero non è da dimandare. Ma un tal miglioramento però non gli fu ad altro giovevole se non a farlo avvertito della sua prossima fine. Quindi, da sé conoscendo che ogni umano rimedio gli riusciva vano ed infruttuoso, essendogli sopravvenuto un arresto al petto, che, attesa la gran prostrazione di forze, non avea modo di mitigare, da sé fe’ chiamarsi il padre Antonio Maria da Palazzuolo, dotto cappuccino e suo intimo amico, acciò gli avesse prestati gli ultimi amichevoli uffizi, assistendolo nel tremendo passaggio. Con la piú perfetta uniformitá al divino volere e chiesto perdono al cielo de’ commessi suoi falli, riconfortato co’ potenti soccorsi che Chiesa santa presta a’ suoi diletti figliuoli e ch’egli stesso avidamente richiese, recitando sempre i salmi di Davide, tranquillamente spirò nel di 20 gennaio 1744, avendo l’anno settantasei di etá sua trapassato.

Dopo la morte si avverò quel che molti anni prima, quasi da profetico lume ispirato, avea detto, cioè che la sventura l’avrebbe accompagnato fin dopo la morte. Un accidente fin allora inudito, e che con rossore, malgrado i vantati lumi del secolo, abbiam veduto ne’ giorni nostri rinnovellato, fece avverare una tal predizione.

Eran soliti i professori della regia universitá accompagnare alla sepoltura i cadaveri de’ loro trapassati compagni, lodevole costumanza che fra tante abolite ancora sussiste. Fissata l’ora dell’esequie del trapassato Vico, furon solleciti quasi tutti i professori di prestare quest’ultimo atto di gratitudine al loro estinto collega, portandosi nella casa di lui per associarne il cadavere. La confraternita detta di Santa Sofia, alla quale il Vico era ascritto, doveva partarlo a seppellire, come praticava con tutti [p. 87 modifica]

gli altri suoi confratelli. Giunta la medesima nella casa del defunto, cominciò a susurrare che non volea permettere che i professori dell’universitá portassero i fiocchi della coltre mortuaria. Sostenean per contrario i professori che un tal dritto onorevole a loro si apparteneva, molti esempi adducendone. Intanto fu calato il cadavere nel cortile della sua casa e situato sul feretro, insignito delle divise della regia universitá. Qui cominciò il rumor grande fra i confratelli della congregazione ed i professori, gli uni non volendo cedere agli altri e mostrando all’aspetto di morte fin dove giunga l’umana debolezza ed alterigia. Niente essendosi potuto amichevolmente combinare, la congregazione con inumano consiglio stimò di lasciare il cadavere ed andar via. I professori, non potendo essi soli far l’esequie, partirono, ed il cadavere dovè di nuovo esser condotto nell’antica sua abitazione. Quanto questo accidente avesse trafitto l’animo dell’addolorato figlio, che, dopo aver perduto un padre si caro, dovè soffrire di vederlo nuovamente riportare in casa, ciascuno potrá facilmente congetturarlo. Dato sfogo al giusto dolore, stimò chiamare il di seguente il capitolo della metropolitana chiesa acciò avesse condotto le spoglie del genitore al sepolcro, soggiacendo a quelle spese maggiori che in tali luttuose circostanze si debbono imperiosamente erogare. I professori non furon pigri di accompagnare il loro estinto socio alla tomba, e venne sepolto nella chiesa de’ padri dell’Oratorio detta de’ Gerolamini, come quella che era frequentata, mentre vi vea, dall’illustre uomo e da lui stesso prescelta ad accoglierne le ceneri.

Giacquero queste neglette ed ignote, come per l’ordinario a tutti gli uomini dotti nella cittá nostra avvenir suole, fin all’anno 1789; allorché dal piú volte nominato Gennaro, superstite figlio di si gran padre, gli fu in un remoto angolo di detta chiesa scolpita una breve iscrizione; potendosi a tal proposito rinnovare le antiche querele del poeta, allorché magnifico sepolcro ad inetto uomo venne innalzato:

Marmoreo Licinus tumulo iacet; at Calo parvo,

Pompeius nullo [p. 88 modifica]

L’iscrizione ivi posta è la seguente:

IO. BAPTISTAE VICO REGIO

CUM ELOQUENTIAE PROFESSORI TUM HISTORIOGR APHO QUI

IN VITA QUALIS FUERIT INGENIO DOCTRINA MORI BUS EIUS SCRIPTA SATIS DECLARANT IN QUIBUS PERFRUITUR FAMA SUI UBI IN MORTE CUM CATHARINA DESTITO CONIUGE LECTISSIMA HIC LAPIS OSTEND1T VIXIT ANNOS I.XXIV OBIIT XIII KAL. FEBRUAR.

ANNO MDCCXLIV IANUARIUS F. MOERENS P.

L’Arcadia di Roma, alla quale Vico era ascritto col nome di Láufilo Terio, gli eresse nel Bosco Parrasio la seguente memoria:

c. v. c.

LAUPHILO THERVO P. A.

PHILOLOGO

ET IURIS UNIVERSI DOCTRINA CLARO

DORALBUS TRIARIUS P. A.

MERENTI F. C.

OLYMP. DCXXX1I. A. IV. AB A. I. OLYMP. XVI.

AN. Ili