Giro del mondo del dottor d. Gio. Francesco Gemelli Careri/Libro II/II

Libro II - Cap. II

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CAPITOLO SECONDO.

Si narra il viaggio sino ad Adrianopoli; descrivendosi

quella Città, e oltreacciò l’Isole di

Tenedos, e Mytilene, e la

Città di Gallipoli.


V
Enerdì 11. vedendo serenato il Cielo, e cessate le pioggie, mi licenziai dal Consolo, e dal Ripera; e convenuto del passaggio sopra un Ciamber Turco, m’imbarcai la sera del Sabato 12. pagando apparte la camera, per andar separato da quella canaglia. Verso la mezza notte facemmo vela con buon vento.

Domenica 13. con due ore di Sole, ci trovammo dirimpetto, e due miglia distante dalla Fortezza della Foggia. Questa è situata in quella punta di terra, che si vede a sinistra, nell’entrare il Golfo di Smirne (lungo 40. miglia) e che guarda l’ingresso del porto della Città di questo nome, posta nell’interiore seno. E’ picciola sì, ma circondata di mura; ed ha un’altro Castello per sua custodia. Giugnemmo su le 23. ore in Metellin, pigliando terra dopo 80. miglia di cammino. [p. 225 modifica]Metellin, o Mitylene (conosciuta dagli antichi sotto nome di Lesbos Voyages de Spon. liv. 2. to. i. pag. 20., Homerte, Macaria) la chiamano i Turchi Midillì, ed ha 360. miglia di giro. Non v’è nell’Arcipelago altra Isola più celebre; poiché fu ella patria di Pittaco, (uno de’ sette Savj della Grecia) della dotta Saffo, del musico Arione, e di altri uomini illustri. La Città Metropoli è porta dalla parte di Greco, sopra una rocca, che sporgendo in Mare, fa due porti separati. Quello, che riguarda da Oriente, serve per le Galee, come in fatti ce ne trovammo due: l’altro, per ogni sorte di navi. Sono amendue guardati da un Castello sul colle; e da un’altra Fortezza alle falde dello stesso, che riguarda ad Occidente.

Le case della Città sono basse, ed abitate da’ Turchi, e Greci; vi è nondimeno un’ottimo Bazar. Il suo fertile terreno produce buoni vini, e ogn’altra cosa, per poter vivere comodamente. Fu presa quest’Isola da Mahomet II. l’anno 1464.

Levammo l’ancora Lunedì 14. cinque ore prima del giorno; e ci partimmo con poco vento, che si rese contrario dopo mezzo dì. Al cader del Sole passammo [p. 226 modifica]per lo stretto di Babà (cinque, o sei miglia largo) formato dalla punta più occidentale dell’isola di Metellin, e’l Capo di Babà nella Terra ferma di Natolia. Fu detto di Babà (per quello mi riferirono) in memoria di un vecchio ivi sepellito; il quale mentre, era vivo, rendeva avvisati i Turchi, se nel canale, o fuori erano corsali Cristiani. Verso le due ore di notte demmo fondo in una spiaggia di là del Castello della Terra di Molova, a fine di 60. miglia. Il Castello suddetto è situato su l’alto del monte, due miglia lungi dal porto; nel quale spazio è la Terra di Molova, appartenente all’Isola di Metellin.

Martedì 15. quattro ore prima di giorno, ripigliammo il cammino; interrotto dalla timidezza del Turco (che di notte non viaggiava per tema de’ Corsali) non già da mancanza di vento. Continuando il buon tempo, con due ore di Sole, fummo fra l’Isola di Tenedos, o Bosciada in lingua Turca, e la Terra ferma di Natolia, a fine di 50. miglia. Si vedevano molto da vicino le reliquie della distrutta Troja; di maniera tale, che cessato il vento, mi feci porre a terra, a fine di dilettarmi, in riguardando le [p. 227 modifica]memorie, che recano de’ Troiani. Trovai lungo la spiaggia, per più d’un miglio, marmi bianchi, e colonne, così per terra, come in piedi; che si scorge essere state del porto della Città: e camminando dentro terra per più d’un miglio, fra gli alberi, vidi fabbriche antiche, tutte fatte di pietra viva, parte in essere, e parte cadute. Vidi anche una gran Torre quadrata, di grosse pietre, che avea alcune picciole finestre d’intorno al primo cornicione, e’l tetto terminava in rotondo; dal che io giudicai aver servito di Tempio all’antichità. Non andai più avanti, perché non mi diede tempo il Rais; il quale mi riferì, che per una giornata dentro terra, si truovano sempre simiglianti fabbriche rovinate, e buoni marmi per terra. La chiamano i Turchi Costantinopoli la vecchia.

Non v’ha pericolo, che questi Maomettani trascurino di fare le loro preghiere cinque volte al dì: cioè la prima allo spuntar del giorno; la seconda, a mezzo dì; la terza a 21. ora; la quarta a 24. ore, e a due ore di notte la quinta; variando solamente la terza nella State, che si principia prima. Egli è vero che ogn’uno le fa da per se [p. 228 modifica]inginocchiato sopra un panno rivolto alla Mecca; però quando sono in luoghi abitati, vanno tutti alla Moschea, avvisati da sopra un’alta Torre, con spaventevoli grida, da un de’ loro Preti.

Ritornato il vento, entrammo l’istesso giorno nel porto di Tenedos. Questa Isola, per l’addietro detta Leucophrys, e Lyrnessos Taver. liv. 3 ch.7. p. 309. de pers. Geograf. Blaviana in descr. Natoliæ. Arcipelago del Boscolini P. 80. e 82.; ed oggidì da’ Turchi Bosciada; è una delle più Settentrionali dell’Arcipelago inverso l’Asia. Fu grandemente popolata, e ricca in tempo dei Re Priamo, e Laomendonte; onde ebbe a dire il Poeta:

Insula dives opum, Troiæ dum regna manebant.

L’esservi ivi nascosti i Greci nel principio della guerra Trojana; e le differenze, che ebbero i Veneziani, e Genovesi fra di loro, per averne il possesso, l’han fatta celebre appresso gli Scrittori. Il mezzo dell’Isola è piano, e lo di fuori montuoso, che produce buoni vini moscati. Nel suo circuito di 50. miglia, sono più Casali; e la Città principale dell’istesso nome, è posta a piè d’un monte nell’angolo orientale dell’Isola, che riguarda i Dardanelli; da’ quali è solamente discosta 18. miglia. [p. 229 modifica]Ella non è delle inferiori Città dell’Arcipelago; e fu celebrata appreso gli antichi per un Tempio di Nettuno, che avea vicino, al quale, e le vicine, e le lontane nazioni offrivan voti, e sagrifici. Sebbene aperta, è nondimeno grande; stendendosi le sue basse case, abitate da’ Greci, e Turchi, sino alla falda della collina, e sulla riva del mare. Il Castello, che la domina, fabbricato sopra la punta d’uno scoglio, ha parimente dentro le sue mura molte abitazioni di Turchi, e soldati del presidio. Il medesimo Castello difende il porto, ch’è ottimo, e capace di armate; vi erano attualmente le due galee di Rodi, comandate da Ammazza-mamma.

Non molto lontano da Tenedos, è un’Isola due volte più grande, detta Tassi, e in lingua Turca Himbros; nella quale vivono Greci, che pagano tributo a’ Turchi, e a’ Veneziani. Cadde la notte del Mercordì 16 grandissima pioggia, che pose a mal partito i passaggieri, che dormivano nella coperta; però al far del giorno si serenò il tempo, e si mosse vento tale, quale ci bisognava, per entrare le bocche; onde subito levò via le ancore il sonnacchioso [p. 230 modifica]Rais, che la sera avea voluto dormire in porto, come se avesse avuto a navigare con una feluca. Mancò il vento a vista del Casale di Ghiaurchivii, posto in Asia, tre miglia lontano dalle bocche de’ Dardanelli; di maniera tale, che a forza di 20. remi bisognò portare il Ciamber avanti il Castello di Natolia, detto da’ Turchi Anadolissar. Dirimpetto è l’altro, chiamato da’ Turchi presentemente Urmeli-Issar, cioè Castello di Romelia; per esser posto nel suolo della Provincia di tal nome. Queste Fortezze furono non è gran tempo fabbricate, per difendere l’entrata del canale; però io son di parere, ch’essendo lontane una dall’altra dodici miglia, non potriano impedire le navi, che volessero passare appunto per lo mezzo. Quella di Asia è situata in piano, con due bastioni paralelli alla bocca, ed altrettanti al canale; forniti tutti di grossa artiglieria; siccome anche la Cortina, nella quale ne sono ben 60. oltre i piccioli posti nella parte superiore. E’ custodita da 200. soldati di guarnigione (per quello, che mi dissero) i quali abitano parte nel Castello, e parte in molte case fabbricate al di fuori: il Casale de’ Greci è nell’alto del monte. Quella di Romelia stà [p. 231 modifica]su le balze d’una collina, sulla quale, per lungo spazio di buone fabbriche, si stende. Nel mezzo sono le case del Comandante, e degli altri Turchi, con Moschea, e magazzeni: per la parte, che riguarda il canale, è fortificata d’altrettanti bastioni, quanti ne ha quella di Natolia, e col medesimo ordine; se non che ne ha due altri dalla parte di terra: nè in bontà di artiglieria, o in numero cede all’altra. Il Casale dell’istesso nome si vede parimente sopra la sommità della collina.

Tre ore prima di giorno, il Giovedì 17. spiegammo le vele ad un buon vento di Tramontana, che prima di mezzodì spinse il nostro Ciamber fra gli altri due Castelli, detti dagli antichi Sesto, ed Abido; i quali essendo nel più stretto del canale, lontani solamente l’un dall’altro due miglia; guardano sì fortemente il passo, che vana, o troppo perigliosa impresa fora l’entrarvi contro il volere de’ Turchi. Abido, che è dalla parte di Natolia, è più forte, e migliore dell’altro, imperciocchè tiene sei bastioni da tutti e tre i lati, che guardano il canale, con circa 30. grossi cannoni; oltre i pezzi piccioli, che sono nella parte superiore; nel mezzo vi è un buon [p. 232 modifica]Cavaliero; ed all’intorno un profondo fosso, con ponte levatojo. L’abitazione vicina non ha mura, ed è mal sana nella State per l’acque cattive; con tutto ciò vi è un Consolo Francese, deputatovi dall’Ambasciadore, che risiede alla Porta. L’altro Castello di Romelia, non è sì regolare, come il mentovato, a cagion del sito ineguale della collina, sulla quale è posto: ha nondimeno un bastione nell’angolo, che riguarda i primi Castelli; nel mezzo una ritirata, difesa da un grande, e ben’inteso Cavaliero; e tre picciole Torri dal lato di Terra, con una lunga cortina sul canale. Quanto all’artiglieria, ne ha quanto l’altro; e di più un pezzo di sì grande bocca, che dentro può sedervisi una persona. Le abitazioni, e case de’ Turchi sono fra la muraglia della Fortezza, e un’altra più discosta da quella parte, che riguarda i nuovi Castelli. La Terra, sulla medesima collina, è dall’arte di ottime case abellita; e dalla natura provveduta di buone acque, fecondo terreno, e miglior’aria.

Poste a terra dal Rais alcune balle di sapone, ripigliammo il cammino; lasciando dopo tre miglia sul terreno di [p. 233 modifica]Romelia Maidos, Terra grande, abbondante di vino; che soglion comperare i mercanti Francesi a buon prezzo, avendosene per due grani della moneta di Napoli da 48. oncie.

Passate 9. altre miglia, si vede l’antica Città di Schie-stambul (che fu la prima, che conquistarono i Turchi, quando scacciarono i Cristiani, e s’impadronirono di Costantinopoli) della quale oggi non resta, che un Castello rovinato. In fine, prima del tramontar del Sole, arrivammo in Gallipoli, Città 30. miglia discosta da’ due Castelli. Ammirai molto i prodigj di natura, in passando per questo canale; imperocché tal fiata è stretto tre miglia; altrove si dilata dieci; e nella maggior larghezza trenta: stendendosi in lungo da 300. miglia sino al Mar nero, e cagionando varie alterazioni da per tutto, ove passano rapidamente le sue acque.

Sbarcato che fui, andai dal V. Consolo Francese, per provvedermi di comodità sicura, per passare alla Corte d’Adrianopoli. Costui non permise, che io pigliassi altro alloggio, che in sua casa; ciò che accettai volontieri, per non avere a dormire sul suolo, dove si vende [p. 234 modifica]il caffè; non trovandosi in Gallipoli Xan. Mi diede la sera un’ottima cena, e miglior letto; che veramente mi facea di bisogno, per aver patito cinque notti in mare: però essendo egli Giudeo, Rabbino della sua legge, e per conseguente dotto, e puntuale osservatore dell’Ebraiche superstizioni; non poteva io accomodarmi alla sua Farisaica maniera di vivere, intorno alle vivande, e modo di mangiarle. Egli giammai non permetteva, che lo tagliassi il pane col mio coltello, ma solo col suo; e quel, che più mi faceva ridere era; che quei coltelli, con cui tagliava la carne, non adoperava in null’altra cosa; e tutti aveano ad essere senza macchie. Quanto al mio viaggio, rispose, che se fussi giunto un giorno prima, avria potuto andare con un Giannizzero, che portato avea alcune lettere della Corona di Francia all’Ambasciadore (consignategli da un Capitano di Vascello Francese, che in 24. giorni era venuto da Marseglia); ad ogni modo, che avria fatto ogni possibil diligenza, per ritrovar comodità sicura: giacché io avea ricusato l’imbarco sopra detto Vascello per Costantinopoli, per lo gran desiderio di vedere prima la Corte Ottomana. [p. 235 modifica]

Gallipoli, in lingua Turchesca Gebbole (a gradi 42. d’elevazione di Polo) è Città di tre miglia di circuito, situata sul terreno di Romelia verso Occidente. Non è serrata da mura; e le sue case, sebbene basse, sono però fabbricate di pietra viva, ed hanno buoni, e dilettevoli giardini. Vi era anticamente una Fortezza sul colle, che dominava il porto; ma poi per la balordaggine de’ Turchi, andò in perdizione. A’ lati del molo erano anche gli arsenali; uno a destra per starvi a coperto tre galee; e l’altro a sinistra per dodici; ove mi disse il Vice Consolo, che riposero i Turchi le loro galee, rimase dalla rotta loro data da un vascello Veneziano alla bocca dei Castelli: le quali col tempo si marcirono inutilmente. E’ caduto oggidì il tetto delle arcate, e rimangono in piedi le sole mura. V’è un buon’ostello, o Burza coperta di piombo, con più cupolette, che s’affitta a’ mercanti da’ Governadori d’una moschea. Abitano in questa Città da sei mila anime, tra Greci, Giudei, e Turchi; i quali sono occupati la maggior parte in fare buonissime freccie. Per l’opportuno sito, in cui si truova, per passare a Costantinopoli, ed Adrianopoli, è di [p. 236 modifica]grandissimo commercio; tal che il Bassà, che la governa, ha di rendita circa 10. m. piastre l’anno; oltre gli emolumenti del Cadì, Agà, ed altri officiali. Questa Città anticamente era luogo di delizie d’una vecchia Città, che tiene all’incontro, porta in Asia; della quale non si vedono oggi, che le ruine sulla riva, e’l colle; ove s’eresse poi una picciola Città detta Lapsic. Abbonda Gallipoli di grano, vini, e frutta; particolarmente d’ottimi melloni d’Inverno, avendone io comprati nove eccellenti per tre carlini della moneta di Napoli. La campagna non manca di cacciagione di cervi, lepri, pernici, anitre, ed altri volatili. Il Bazar della Città è molto grande, e più abbondante dell’Alessandrino; essendovi diversità di mercanzie; e di artefici, ed arti distinte, ciascheduna al suo luogo.

Usò più diligenze il Venerdì 18. Rafaele figlio di Simone Viceconsolo, di trovarmi comodità sicura per Adrianopoli: ma non si trovò la caravan, che suole portar la bambagia; né altra compagnia, colla quale potessi andar senza sospetto de’ Giannizzeri: i quali ritornando dalla guerra a’ quartieri d’Inverno nella Natolia, si sbandano per istrada, per gir [p. 237 modifica]rubando, ed assassinando chiunque incontrano. Il Xaxam, o Rabbino intanto mi persuadeva a pigliar la strada di Costantinopoli, o Rodeston; perché mi avria dato sua lettera, colla quale avrei trovato più sicurtà, e brevità nel viaggio; ma non perciò mi rimossi dalla mia determinazione. S’interessava egli con tanto ardore nella sicurezza del mio passaggio, per avergli io dato ad intenderò, ch’era mandato dal Commercio di Marseglia, con lettere di grande importanza all’Ambasciadore. Nè paja strano, che io mi abbia fatto tal volta scudo della menzona, perch’essendo in paese di Barbari nemici del nome Cristiano, e in tempo di guerra; era d’uopo fingere più personaggi, mentir l’abito, nazione, e negozio, per non perder la libertà, e la roba. I Turchi sono sospettosissimi, e facilmente calunniano un Franco, quando egli è troppo facile a dire il fatto suo, e non sa trovar parole per isfuggire il male, che gli sovrasta.

Mentre stava riflettendo al cammino, che dovea prendere, per mia buona fortuna venne una carrozza, che se ne ritornava vuota in Adrianopoli; onde fatto chiamare il cocchiere da [p. 238 modifica]un’Armeno (che dovea far l’istessa strada) patteggiai di dargli per me un zecchino, ed una piastra per lo servidore. Quindi conducendol’avanti il Vice-Consolo, acciò mi dasse il suo parere, se poteva sicuramente andare; mi disse di sì, perché il cocchiero era Cristiano Bulgaro (della Terra di Felibè quattro giornate distante d’Adrianopoli) e conosciuto, per aver fatto più viaggi in Gallipoli: dopo di che, essendo stabilito il contratto, il Bulgaro mi diede dieci parà di caparro; al contrario d’Italia, dove ricevono, non danno i vetturini.

Frattanto attese il Consolo a regalarmi bene; essendo persona comoda, che avea molti schiavi al suo comando, e supellettili all’Italiana: di maniera che avendomi dato la mattina bene da desinare, non lasciò la sera di fare una lauta cena di pesce per me, e carne per lui; non tralasciando però nel mangiare le sue superstizioni Giudaiche, sì nelle orazioni, come in non permettere, che io partissi il pane. Trovando i melloni ottimi, e migliori dì quelli di Parabita nel Regno di Napoli, ne feci una buona provvigione il Sabato 19. dopo di che prese congedo da me il Rabbino, per andare [p. 239 modifica]alla Sinagoga, o scuola; pregandomi a compatirlo se mancava d’accompagnarmi, e che lo raccomandassi all’Ambasciadore; perché credeva egli, che io avessi grande amicizia col medesimo. Intanto l’Armeno, ch’attendeva alla porta, mi dava fretta, a cagione, che il Bulgaro era all’ordine, e poteva partirsi senza di noi; onde mi vidi in gran confusione per far condurre la mia roba; essendo giorno di Sabato, in cui non v’era Giudeo, che volesse portarla; non esercitandosi i Turchi in tal mestiere. Supplirono nondimeno il servidore, e l’Armeno, portandola sino al Xan, dove era il Bulgaro con la carozza pronta. Postomi nella medesima, camminammo per paese piano, e ben coltivato, interrotto tal volta da qualche vistosa collina; sempre però tenendo a destra il canale. A fine di 14. m. lasciammo indietro Buloyr Terra grande; e restammo la sera in Caùe, dopo altrettante miglia. Quivi avemmo la stanza comune co’ cavalli, senz’altra differenza, che della mangiatoja; essendo la nostra due palmi più alta della loro. In Turchia gli Xan, o Karvanserà non sono altro, che lunghe stalle, in mezzo delle quali stanno i cavalli, e da’ lati [p. 240 modifica]più in alto i Padroni, che deono provvedersi del vitto, ed apparecchiarlo. Quello bensì v’è di buono, che la mattina non si sente molestia dell’oste, come in Cristianità; perché l’alloggio è gratuito, per legato pio di Turchi defonti, in suffragio delle loro anime. Un Giannizzero però, che veniva a piedi, m’assistè in tutto quello, che mi bisognava, accomodando con stuoje il letto, e facendo fuoco tutta la notte, per riscaldare la fredda stanza; è ben vero, che io non dormii per lo tanto cicalare, e fumare, ch’egli faceva, in compagnia di tre Spay suoi amici.

Domenica 20. prima del dì, montammo di nuovo in carrozza, e camminammo per strade piane, e terreno coltivato per lo spazio di l0. m. sino al Casale d’Iuligia-Mussurmà: dopo di che entrammo fra’ monti coperti di piccioli alberi inutili. Passate 8. altre miglia ritornammo a camminare per simili pianure, e ci riposammo dopo 7. m. in Malgarà.

Questa è una Città, posta su le falde d’un monte, che sarà da 10. m. anime fra Turchi, Armeni, e Greci; al governo di cui, e di 300. Casali di sua vicinanza risiede un Bassà. Ha sette moschee [p. 241 modifica]coperte di piombo; ed un gran luogo serrato, con sei cupole dell’istessa materia, che serve per Burza, o Bazar delle mercanzie più preziose. Se non vi fusse stata la montagna, avriamo fatto quel giorno 40. m. perché il Bulgaro facea ben trottare i cavalli. Io poi non essendo accostumato a sedere alla Turchesca, con le gambe incrocicchiate come cucitore; pativa molto in quella carrozza, senza sedie, e fatta, in modo, ch’ogni Europeo l’avria anche sperimentata penosa. Alloggiammo nell’istessa maniera la notte, gratis, in un Xan, o karvanseras unitamente con le bestie.

Partimmo un’ora prima di giorno Lunedì 21. viaggiando sempre per terreno piano poco coltivato; e fatte 20. m. di cammino, trovammo il Casale d’Armanlì. La sera, dopo altre 20. m. di strada, ci fermammo nel Casale di Casunchiuprì; presso al quale è un famoso ponte di 164. archi di pietra viva, lungo due miglia, sopra il fiume è palude di Coghinè. Questo fiume è largo quanto il Volturno di Capua nel Regno di Napoli, e per non aver letto bastante, sbocca sovente fuori.

Il Martedì 12. volli passare il ponte a [p. 242 modifica]piedi; onde mi parve non men singolare nella struttura, che lungo. Facemmo poi 4. miglia per una strada fangosa, e piena di creta, per cui a gran fatica passavano i cavalli. L’essere ancor notte, e’l vedere un Giannizzero favellar segretamente col Bulgaro, il quale non voleva passare avanti, fece sospettarmi di qualche tradimento; ma vedutomi con lo schioppo in mano, si partì il Giannizzero, e noi seguitammo al far del giorno il viaggio, in compagnia d’una caravana di cammelli. Incontrammo più bande di Giannizzeri, per lo tratto di 30. m. ch’avemmo a fare (sempre per buona strada, e terreni poco coltivati per difetto di villani) ed in fine giugnemmo su le 22. ore in Adrianopoli.

Orestesit, Oreste, o Viscudama per l’addietro; oggi in nostro idioma Andrinopoli, o Adrianopoli (detta forse così dal nome d’Adriano Imperadore) e nel Turco Edrinè, è situata a gradi 43. di elevazione di Polo. Ella è in paese così ameno edificata, che Amurat Imperador de’ Turchi, lasciata Bursa, vi trasferì il suo seggio Imperiale, ed alcuni suoi successori lo vi continuarono: di maniera tale, che non solo si conservò, [p. 243 modifica]ma si aumentò altresì di abitatori. Tiene dì giro sette in otto miglia, compresavi, la Città vecchia, e molti giardini. Non v’ha vaghezza alcuna, essendo le case basse, composte di legno, e fango, ed alcune di mattoni; e le strade si piene di sporchizie, che uguagliano quelle di Madrid, e bisogna usare stivali nell’inverno: ond’è che sembra più tosto un gran Casale, che Città. Egli non può recarsi in dubbio, che gl’Imperadori Ottomani l’han renduta molto più popolata, come si scorge dall’accrescimcnto delle sue fabriche; poiché la Città antica, in cui essi dimoravano prima dell’acquisto di Costantinopoli, era molto minore; avendo io numerato nel circuito delle sue mura, dall’edificio detto Alì-Bassà sino alla porta di Magnasiapsi (cioè porta dei fiume) 24. sole Torri, parte cadute, e parte in piedi, e ben vicine l’una all’altra. Essendo caduto il rimanente delle mura, non curano i Turchi di rialzarlo, e lasciano in tal guisa tutta Adrianopoli aperta.

Circondano la Città più acque; ma le principali sono i tre fiumi, Tungia (che si passa per tre ponti di pietra) Arda, e Merici; ed ha alcuni monti, che la [p. 244 modifica]dominano dalla parte d’Oriente. E’ abitata da Greci, Giudei, Armeni, Turchi, Valacchi, ed altre nazioni; il numero però non è sempre l’istesso, perché nell’inverno vi sono molti soldati, che ritornano dalla guerra: con tutto ciò poco più, o meno saranno da 100. m. Il vivere è caro, perché viene la maggior parte di fuori. L’aria, come è detto, è sana; e’l terreno delizioso, particolarmente nella state, per la verdura de’ prati, e giardini innaffiati da tante acque; siccome nell’inverno copioso di cacciagione. Per lo più le strade si veggono ornate di ottime botteghe, coperte di tavole, in sì fatta maniera, che vi entra bastevol lume da’ lati. Il sito della Città per la più parte è in piano, il resto in valli, e colli; donde vien cagionata la sporchizia delle piazze.

Durai gran fatica la sera per trovar camera; e se un Francese non mi dava quella d’un’altro, che stava in Costantinopoli, sarei restato a dormire su la piazza: perocchè nella Città non sono alloggiamenti bastevoli per tutti; e i pochi che vi sono, erano occupati da’ soldati, che ivi si fermano finita la campagna, per assistere all’Imperadore. Fui il Mercordì 23. a far la riverenza [p. 245 modifica]all’Ambasciador di Francia, il quale abitava passato il ponte, e Casale di Jenimaret, lontano due miglia dalla mia stanza, e vicino al serraglio del G. Signore, detto da’ Turchi Serray-ovasi. Saputo il mio arrivo mi ricevè con molta cortesia, offerendomi la sua protezione, della quale mi facea d’uopo in vero in paese così barbaro, e pieno di calunnie. Dopo desinare andai a vedere una maravigliosa Burza, lunga mezzo miglio, detta Ali-bassà dal nome del Fondatore. Consiste in una gran volta con sei porte, che da ambi i lati ha 365. ricche botteghe d’ogni genere di preziose merci (compresevi anche quelle, che sono lotto la volta della porta maggiore) tenute da’ Turchi, Giudei, Armeni, e Greci; che pagano agli eredi del fondatore, e a’ compratori cinque piastre per ciascheduna il mese, e mezza piastra alla Moschea di Vecerfelì; per donativo fatto dal G. Signore, a cui apparteneva. Vicino a questa Burza, è la strada di Scracì, con ben’ordinate botteghe di varie mercanzie, che per un miglio porgono dilettevole oggetto alla vista. Ella è coperta con tavolette a forbice, che lasciano a’ lati piccioli forami, per [p. 246 modifica]ricevere il lume.

Pigliatomi un Giudeo il Giovedì 24. andai a vedere la Moschea di Sultan Selim (detta così, per esser stata fabbricata d’ordine di quest’Imperadore) la quale essendo posta su l’alto di un Colle, ch’è in mezzo della Città, si rende da tutte le parti oggetto d’ammirazione con la sua superba fabbrica. S’entra per quattro porte nella prima spaziosa piazza, ch’è all’intorno della Moschea; indi per tre altre porte nella interiore, ch’è coperta di 13. cupole di piombo, e sostenuta da 16. buone colonne di marmo, a modo di chiostro; fra le quali ne sono quattro verdi avanti la porta della Moschea: nel mezzo di questo chiostro è una buona fontana di marmo, per lavarvisi, all’usanza Turchesca, le persone, che vi entrano ad orare. Si entra poi nella Moschea per cinque porte, due delle quali sono serrate, dando l’ingresso a’ palchetti del Gran Signore; l’altre aperte, per uso comune. Otto ben grossi pilastri sostengono la gran cupola di mezzo, e’ dodici archi, sopra i quali stanno appoggiate le otto altre cupole, tutte dipinte d’arabeschi. All’intorno sono gallerie, sostenute da colonne di marmo, e [p. 247 modifica]nel basso circondate da balaustri. Sì vede tutto il pavimento coperto di buoni tappeti; e pendenti dagli archi cinque gran cercini di ferro, con infinite lampadi alla loro maniera. Nel mezzo della Moschea era un gran palco quadro, alto da terra otto palmi, e circondato di balaustri di legno, (credo per gli Mullah, o Sacerdoti Maomettani) vicino al quale si vedeva un fonte. L’altro palchetto, che serve per lo Gran Signore, a destra della nicchia principale, (che noi diriamo Altar maggiore) e serrato di gelosie, è parimente alto da terra otto palmi: v’era a sinistra un bel pulpito di pietra, ed all’incontro più catedrette per gli Mullah. Le cupole, di cui si è ragionato, sono coperte di piombo, che al riflesso del Sole sanno bellissimo vedere. Corrispondono alla grandezza di questa Moschea le stanze, ed abitazioni per coloro, che la servono; e quattro superbe Torri a gli angoli di differente lavoro, e di pietre ben’alte, che sanno bellissima veduta da lungi. In una di esse (posta allato della gran porta) volli salire, per vedere l’artificio della sua fabbrica, non mai simile a’ miei di veduto; poiché entrando per l’unica [p. 248 modifica]porta, che tiene, ritrovai tre scale, delle quali una conduce alla prima; l’altra alla seconda; e la terza al terzo piano della Torre: in modo tale, che ponno ugualmente bene salirvi tre persone all’intorno, senza mai scontrarsi fra di loro; e se vogliono per altre porte venire alle altre scale, è in lor potere. L’Ingegniere, che la fece, era de’ primi d’Europa; e l’artificio merita d’esser veduto.

Andai poscia a vedere la Moschea di Eschigiamì, che significa Moschea vecchia. Ella tiene due alte Torri di pietra viva, ed all’intorno otto cupole di piompo, oltre la grande del mezzo. Non ha cortile, nè fontana, come l’altra, ma bensì avanti la gran porta sei grossi pilastri, per sostenere la volta, e cinque archi. Dentro sono tre ale sostenute da quattro pilastri quadrati, ed all’intorno gallerie, sopra di legno, e sotto di marmo. Quanto al pavimento, è coperto, come quello dell’altra, di tappeti; e nella stessa guisa evvi fatto il pulpito, e’l palchetto per lo Gran Signore: perocchè tutte le Moschee sono simili al di dentro, con una nicchia cavata nel muro, e più lampadi appese.

In ritornando entrai nel Bisisten ivi [p. 249 modifica]vicino; luogo coperto, e sostenuto da grossi pilastri, che formano due strade nel mezzo; nelle quali sono circa 200. botteghe di ricchi mercanti, che tengono drappi d’oro, e d’argento, scimitarre, pistole, selle, morsi, staffe, e altri arnesi d’oro, e d’argento ingiojellati, per armare un Cavaliero. Queste botteghe similmente pagano due piastre a’ padroni, e mezza alla suddetta Moschea d’Eschigiamì, per donativo del gran Signore. Era quasi mezzo dì, e sentii in questo prezioso luogo risonare una dissonante musica, e corrispondervi una turba di Turchi barbaramente; di che interrogato il Giudeo, mi rispose, che si facevano le preghiere per lo Gran Signore. Contigue a questa Burza sono le botteghe degli Argentieri, ed Orefici, in una lunga strada coperta.

Dopo desinare, venuto il Giudeo a ripigliarmi, andammo nella Moschea di Vecerfalì, senza essere impediti da quattro Mullah, che vi stavano orando. Questa tiene una piazza sola, o chiostro, da cui per tre porte si entra nella Moschea, che tiene la sua galleria sostenuta all’intorno da 12. buone colonne di marmo verde; oltre sei più grosse bianche, che [p. 250 modifica]sono avanti le mentovate porte. E’ coperto il tetto da 15. cupole di piombo ben fatte. A’ 4. angoli esteriori della Moschea si veggono 4. ben alte Torri di pietra viva; e nel mezzo del chiostro un fonte ben fatto, per lavacro de’ Turchi. Al didentro tiene cinque cupole; quattro negli angoli, ed una grande nel mezzo, sostenuta da due gran pilastri; dipinte tutte di arabeschi. Nel mezzo pendono molte lampadi, giusta il loro costume, ed a sinistra della nicchia è un pergamo di marmo; siccome a destra un palchetto alto, e serrato di gelosie per lo Gran Signore; ed un’altro a sinistra, a piedi del pilastro, però senza gelosie: il pavimento era parimente coperto di buoni tappeti.

Passai poscia ad osservare il palagio del Gran Visir; dove giunto non trovai magnificenza corrispondente alla grandezza del suo posto, ma una comoda, abitazione alla maniera Turchesca. Entrammo primieramente in un gran cortile, nel quale erano le stalle, ed ufficiali delle stesse. Indi passammo ad un secondo, nel mezzo del quale era una fontana; e molte persone a cavallo, che assistevano a’ servigj di sì alto [p. 251 modifica]Ministro. Era in fronte del medesimo cortile un lungo Soffà, sopra il quale erano molti, che attendevano l’audienza. Negli appartamenti non si potè passare, onde convenne ritornarmene indietro.

Per istrada incontrammo una Sposa, che era condotta a casa del suo marito. Marciavano a cavallo 50. Turchi a due a due, ed in fine veniva lo sposo a man sinistra (ch’è la più stimata fra Turchi); indi la sposa in una carrozza serrata, con altre due di corteggio. Poco più avanti incontrai l’Ambasciadore di Francia, che ritornava a casa, sopra un cavallo falbo, seguito da otto staffieri, vestiti di color rosso, due camerieri di turchino, e quattro Giannizzeri, tutti a piedi.

Mi condusse in fine il Giudeo in una loro Scuola, avanti la quale era gran moltitudine di donne, che tenevano i loro figliuoli per mano. Entrato dentro, trovai all’intorno della medesima molte vesti appese, e sei persone, che sonavano. Mi dissero, che ogni anno di quel tempo si dispensavano 500. vestiti a’ poveri scolari di loro Religione; in che dalla comunità si spendono due mila scudi: ed in fatti vidi varj scolari [p. 252 modifica]vestiti di nuovo da capo a piedi in mia presenza.

Il Venerdì 25. per esser giorno della Natività di Nostro Signore Giesù Cristo, andai a sentir Messa, e confessarmi nella Chiesa de’ Ragusei, posta dentro la Città vecchia; dove venne un Padre Cappuccino, Cappellano dell’Ambasciadore di Francia a dirla, non essendovi altri Sacerdoti Cattolici. Per esser il Venerdì giorno festivo fra’ Turchi, nel quale il Gran Signore và alla Moschea, com’è detto altre volte; fatte le mie divozioni andai a vederlo; ma lo trovai di già entrato a far le preghiere nella Moschea di Sultan Selim; sicchè aspettai due ore, per vederlo uscire. Andai osservando fra questo mentre la carrozza, e corteggio. Ella era di legno dorato per tutte le parti, con gelosie di legno, ch’erano aperte, fuorche quella di dietro. In vece di cojame era coperta d’un panno rosso fino, e foderata di drappo di seta giallo con fogliami d’oro, rivolto sopra, in modo che si vedeva tutto il legno; e per ciaschedun de’ lati erano sedici pomi d’argento dorati per ornamento. Perche era alta da terra, vi si montava per una scaletta levatoja [p. 253 modifica]d’argento di tre gradini. La tiravano sei cavalli bianchi, sul primo de’ quali, e terzo a sinistra, sedevano i due cocchieri. In una sola parola, era una carrozza per un privato Cavaliere d’Italia; essendo anche i cavalli molto ordinari: dentro bensì erano piegate alcune coltri, per sedervisi su, con le gambe in croce, due sole persone, e non più, per la sua strettezza. Quanto al corteggio erano nel cortile 200. Giannizzeri con le loro mitre di solennità, fatte di feltro bianco, (lunghe tre palmi, e larghe uno, e mezzo) che cadendo dietro le spalle, terminano in due punte: avanti però, per tenerle sollevate sulla fronte, è una piastra d’argento ben lavorata, e dorata, che s’adatta sopra un legno, siccome notai favellando del Cairo; però alcuni ufficiali non la portano, ed altri la tengono coperta di drappo verde. Vi erano altresì a cavallo da 18. Chiaùs, con una piumetta nera sul turbante; e 50. altri cortigiani ben vestiti, oltre 30. Baltagì similmente montati, che aveano una berretta acuta di color di cannella. Vi erano a piedi più Bustagnì, che portavano un lungo berrettone rosso, con la punta rotonda della medesima larghezza della testa; e si [p. 254 modifica]dee notare, che si distinguono queste persone di servigio nel portamento solo del capo, poiché la veste ogn’uno la porta di quel colore, che gli piace. Erano anche in piedi all’intorno la carrozza dodeci Odabasci (cioè a dire uomini di camera del Gran Signore) che portavano in testa una picciola berretta bianca, come il Corno Ducale di Venezia, con l’orlo guernito d’oro; però la punta si rivoltava in dietro, e lasciava un’apertura. Da una parte dì questa berretta era posto un gran pennacchio bianco, a modo di ventaglio; e più sotto un’altro di penne nere, per dilettar l’occhio con la varietà. L’Agà de’ Giannizzeri portava l’istessa berretta, con gli estremi di tela all’intorno, ma senza piume. V’erano altresì 14. altri servidori vestiti come alla Romana, d’un drappo di seta, ed oro; con altra veste di sotto a frange d’oro, e calzone di raso cremesì. Costoro camminavano a piedi, ed aveano una berretta d’argento dorato, appunto come un’orinale, con un pennacchio nero diritto dalla parte d’innanzi: i Turchi gli chiamano Iscioglan, cioè paggi del Gran Signore.

Terminate le preghiere vidi uscire, e [p. 255 modifica]porre in carrozza, dagl’istessi gradi della Moschea, il Gran Signore appellato Hamet II. Egli era di bassa statura, pieno di corpo, di faccia bruna, e rotonda, con una gran barba nera, che cominciava ad incanutirsi; e per quel che dimostrava all’aspetto, sembrava avere da circa 50. anni. Portava piume d’Airone nel turbante, arricchite di diamanti; ed era vestito di bianco. Nell’istessa carrozza entrò, e si assise dalla parte de’ cavalli il Selettar, che porta la di lui spada, e caccia via le mosche la State. Il popolo lo salutò con urli, come anche avea fatto dentro la Moschea, con un dissonante concerto di più istrumenti, mentre egli orava. Quando volle partire, fecero ala nell’istesso cortile i Giannizzeri in postura umile, con le mani sopra lo stomaco; e lo seguitarono giusta l’ordine riferito, i Chiaùs, ed altri ufficiali. Inchinava Hamet II. a toccare un’istrumento Turchesco, come una picciola chitarra, e cantare sopra di quello, per alleviamento della malinconia cagionatagli da 40. anni di prigione. Tutto ciò, ch’è detto della sua persona, e vestire, si vedrà meglio nella seguente figura. [p. 256 modifica]Ritornato tardi a casa desinai con Mr. Graniè, che m’avea accompagnato a vedere il G. Signore.

Sabato 26. passate, sopra due ponti di pietra, amendue le braccia del fiume Tungia, che bagna il lato Settentrionale della Città; trovai a destra una gran Moschea, detta Gnegni-jenimaret; nella quale entrato, vidi un grande, e spazioso cortile intorniato di bellissime fabbriche, coperte di piombo, per uso di coloro, che servono la Moschea, e de’ poveri, che vi si alimentano. A questo cortile può entrarsi per tre porte, che sono in fronte, e a’ lati; e per altrettante si passa al Chiostro più addentro, comporto di 12. colonne di marmo bianco da tre de’ lati, e di sei verdi da quello, dov’è la porta della Moschea; che tutte sostengono 20. cupolette all’intorno coperte di piombo. Nel mezzo si vede una bella fontana, ed a’ lati due altre Torri, presso alle quali sono altre fabbriche, eziandio con cupole di piombo: di modo che oltre la grande, sono in questo edificio circa 100. di tai cupolette.

La medesima (siccome tutte le altre descritte) ha grandissime rendite per gli ufficj di pietà, che vi si esercitano; come [p. 257 modifica]istruire i fanciulli, nutrire i poveri, e’ pazzi della Città. Oltreacciò vi si dispensano ogni settimana ad altri poveri, mille oke di riso cotto, (che montano a mille, e ottocento libre nostrali) e carne sufficiente. Lasciate le scarpe a guardare al Giudeo, entrai nella Moschea, nella quale trovai di buoni tappeti coperto il pavimento, e più di mille lampane appese nel mezzo; a destra della nicchia era un gran palco; a sinistra un’altro palchetto, ed un pergamo molto alto per la predica.

La medesima mattina di Sabato, per esser festa di S. Stefano Protomartire, andai a sentir Messa in casa dell’Ambasciador di Francia (non molto lontana dalla Moschea) il quale mi ritenne a desinar seco, insieme con un Cavalier Franceso, detto il Conte di Friol e Marchese de l’Orada; il quale ogni campagna assistea appresso il Gran Visir per la direzione delle armi, e disciplina militare.

Andai parimente la Domenica 27. a sentir Messa nella Cappella dell’Ambasciadore; e nel ritorno entrai a vedere il palagio di Carà Mustafà,(già primo Visir, strangolato dopo l’assedio di Vienna) [p. 258 modifica]abitato dalla sorella del G. Signore, che fu sua moglie: la sua fabbrica, e cortile non ha cosa di ragguardevole, che s’uguagli a’ palagi d’Italia; ma solo una gran prateria serrata in quadro per passatempo.

Dopo desinare passai a vedere una gran volta detta Arastà, lunga un quarto di miglio, e coperta di piombo; da un lato della quale si và in un’altra volta di 50. passi: ivi sono tutte le botteghe di scarpari, che ne pagano l’affitto alla Moschea di Sultan Selim, vicino alla quale sono fabbricate. Essendo il giorno chiaro, e’l primo dopo il mio arrivo, che comparisse il Sole; entrai di nuovo in questa Moschea, per vedere se nella Torre a sinistra, erano eziandio le tre maravigliose scale, che dissi aver vedute nell’altra a destra: e per potere dalla sua alta cima veder meglio la grandezza della Città. Il Custode della porta, col pagamento di pochi parà, mi condusse su, sino al terzo piano, dove terminano tutte e tre le scale, che sono a lumaca, compone di 252. gradini l’una. V’ha però questa differenza, che la prima, e seconda, che portano al primo, e secondo piano, giungono anche sino al terzo; ma la scala posta a [p. 259 modifica]destra, non conduce, che al terzo piano solamente: maravigliosa fabbrica in vero, corrispondente alla grandezza di colui, che la fece. L’altre due Torri non tengono che una scala.

Andando il Lunedì 28. a vedere il ballo de Deruis nella Muradia, incontrai un cavallo morto; e molti Turchi, che facevano a gara chi potesse tagliarne miglior boccone. Non è altro la Muradia, che un Convento di Monaci Turchi, posto sopra un colle dentro la Città: quivi salito trovai una picciola Moschea, avanti la cui porta erano cinque cupole coperte di piombo, sostenute di cinque pilastri. Cavatemi la scarpe (come avea praticato nell’altre Moschee) ed entrato, senza essere impedito da’ Turchi, come in Egitto; trovai a’ lati due balaustrate per starvi persone di condizione. A destra della nicchia un gabinetto serrato di gelosie, alto da terra otto palmi, che mi dissero servire per lo G. Signore. A sinistra era il pulpito per la predica, ed altri due a’ lati, alti quattro palmi, e fatti a modo d’una bara quadrata senza Cielo; dove suol leggere il Mullah sedendo con le gambe incrocicchiate. Otto palmi sopra il solajo, era il muro incrustato [p. 260 modifica]tutto di fina porcellana; il pavimento coperto di buoni tappeti; e gran quantità di lampane appese nel mezzo.

Passai quindi a vedere le abitazioni, che sono intorno la Chiesa, per uso de’ Religiosi; e poi in altre danze, nelle quali trovai quantità di poveri, che ricevevano per limosina piatti di grano cotto, ed un poco di carne, e pane; ciò che si distribuisce ogni Lunedi, e Giovedi, che si chiamano giorni del giro.

Fatte le preghiere di mezzo dì, il Superiore co’ Dervis, o Religiosi passò dalla Moschea in una stanza vicina; dove era nei mezzo un palco quadro, col pavimento di tavole, alto tre palmi da terra, e serrato da balaustri lontani dal muro quattro palmi; nel quale spazio sedevano all’intorno più Turchi. Per una scala di dieci gradi si montava su d’un’altro palchetto, lungo il muro, con un gabinetto serrato di tavole; in cui, degli otto Dervis, che vi entrarono, sei sonavano flauti e tamburi; uno cantava, ed un’altro (cessando la musica) predicava. A capo della danza erano due sedie scoperte, alte sei palmi da terra: in una s’assise il Superiore, e nell’altra un vecchio vestito di rosso; a’ piedi de’ quali sedeva un’altro [p. 261 modifica]vecchione vestito di verde, come il Superiore; ed all’intorno del palco descritto, dalla banda di dentro, gli altri Dervis.

L’abito di costoro non è limitato, ma ciascheduno si veste di quel drappo, e color, che gli piace; la berretta però dee esser di lana bianca, e fatta come un pan di zucchero: è ben vero, che il Superiore, e i due vecchioni portano di più la Sessa intorno, con una tovaglia al collo.

Cominciò la cerimonia del giro uno degli otto, ch’erano nel palchetto superiore, con tuono assai lugubre, come quello si pratica fra noi nelle lamentazioni di Geremia la Settimana Santa: dopo di che il Superiore fece una predichetta, esplicando anche un libro, che si leggeva da due in due versi, con molta gravità, da un Dervis seduto al suo lato; nel mentre i Religiosi con molta sommissione bassata la testa, ascoltavano. Durò l’esplicazione mezza ora; dopo di che scese il Priore dalla catedretta, e si pose a sedere sopra un tappeto, con le gambe alla maniera de’ Turchi. Ricominciò dal palco il Dervis a cantare, e leggere in un libretto con l’istesso tuono malinconico: finito ch’ebbe, si toccarono i flauti, e’ tamburi, al suono de [p. 262 modifica]quali rizzati in piedi il Superiore, e’l vecchio vestito di verde suo compagno, fecero un ridicolo ballo. Si alzarono appresso gli otto Dervis, e passando per lo luogo, dove s’era tornato a sedere il Superiore, chinato il capo, e rivolti al medesimo, gli fecero umile riverenza; alla quale fattosi di nuovo in piedi il Priore, corrispose con cortesia, e poi tornò a sedere. Dopo di ciò gli otto Religiosi si levarono la sopraveste, recando con quella di sotto serrata come una gonna, ed una mezza casacca di sopra. In sì fatto abito, uno appresso l’altro passarono avanti il Superiore, e facendogli riverenza, cominciarono a girare intorno con le braccia aperte, e piedi nudi fermi l’un sopra l’altro; che io non so, come non cadessero. Si regolava quello penoso ballo a misura, che gli stromenti sonavano piano, o velocemente; e durò in tutto mezzo quarto d’ora. Terminato il primo ad un certo segno, s’alzò il Superiore, e fece due riverenze a’ pazzi Dervis, i quali corrisposero con umili inchini; dopo di che principiarono il secondo giro, che durò l’istesso spazio, con l’istesse riverenze in fine. Quindi cominciò il terzo, e finì [p. 263 modifica]colle medesime circostanze: dopo le quali entrò in mezzo il Superiore (che innanzi camminato avea pian piano, e grave col vecchio suo compagno) e girò sopra un piede galantemcnte, come i suoi Dervis; dandogli maggior garbo il fiocco, che cadeva dalla sua Sessa. Vi era fra i medesimi un vecchio di 60. e più anni, che non so come resistesse a non cadere stordito a terra. Questo quarto giro fu accompagnato dagli strumenti, e dal canto d’uno degli otto, che era sopra; e finì con le solite riverenze. Dopo di ciò un vecchio lesse non so che in un libro, ed il Superiore replicollo, al quale tutti i circostanti risposero con un’acclamazione spaventevole; e i Dervis si ritirarono, baciata prima la mano al Superiore.

Ritornai a casa alle 21. ora, per vedere questa pazzia Turchesca, simile al giro de’ Cervi, quando sono in amore; e che, per lo continuo calpestio, rende lucido il pavimento di tavole, come un marmo. Trovai avanti la porta della mia stanza alcuni involti di robbe; e dimandatane l’ostessa, mi disse, ch’erano d’un Turco, venuto all’ora da Costantinopoli. In tanto sopravvenne Mr. [p. 264 modifica]Vancleve (che mi avea fatto dar la camera) e mi riferì, che avea avuto parole con quel Turco, il quale era venuto con temeraria inciviltà a farmi uscire dalla camera, per entrarvi in mia vece: dicendo, che per esser egli uomo giusto, e di buona legge, ed io di cattiva, ed infedele, dovea esser preferito: tanto più, che era stato altre volte nella medesima camera. Vancleve gli rispose, che la camera era stata presa per un Franco, che non avrebbe mai sofferto tal villania da lui; e che poteva altrove provvedersi: ma il Turco persistendo nella sua impertinenza, lasciate avanti la porta le robe suddette; borbottando se n’era andato dal Cadì, per far eseguire ciò che diceva. Ciò udito, serrai la porta, ed attesi, che venisse; come in fatti di là ad un’ora ritornò, e bussò la porta tre volte, ma io non volli aprire, e lo mandai in malora: di maniera tale, che vedendo pari difficoltà in me, e nel Cadì (che non avea voluto pigliare impegno con Franchi); si pose la notte al coperto d’una loggia, aperta per tutti i lati, e freddissima; essendo in tempo, che il paese era tutto gelato con tre palmi di neve. Ivi patendo egli, e’l suo [p. 265 modifica]compagno freddo intollerabile; non fecero altro tutta la notte, che bruciar carboni, per scaldarsi un fianco, mentre l’altro si tornava ad agghiacciare sulla morbidezza delle tavole. Io da dentro, sentendo bene spesso soffiare il fuoco col mantice, non faceva altro, che ridere, e dire, che l’uomo della buona legge passava una pessima notte, e quello della mala si riposava in un comodo letto, e camera. Al far del giorno si partì il povero Turco con le labbra gelate.

Martedì 29. andai a caccia nel Casale di Caragascì, abitato da’ Greci; onde mi convenne passare il fiume Tungia, vicino la Città dalla parte di Oriente, sopra un ponte di dieci archi, detto da’ Turchi Jenìchiuprì (cioè a dire, Ponte nuovo); cento passi più avanti il fiume Merici, sopra un ponte di legno, e Copra un’altro la palude. Vengono ad unirsi questi fiumi a mezza lega dalla Città. Poca caccia potei fare così solo; sapendo il Giudeo più di lingua, che di caccia.

Cadde gran quantità di neve il Mercordì 30. che cagionò eccessivo freddo; con tutto ciò volli uscire il Giovedì ultimo del mese, e per mia ventura [p. 266 modifica]incontrai il Kam de’ Tartari sopra un cavallo falbo, che se ne ritornava dal Serraglio al suo palagio, che è in un Casale sei miglia lontano da Adrianopoli. Egli si era di giusta statura, bruno di volto, e d’aspetto fiero, ma di età cadente, di 80. anni in circa. Era vestito di color verde, e portava in testa un Carpàs, o montiera dello stesso colore all’uso Tartaro, nella quale erano porte due lunghe penne diritte, che s’incrocicchiavano nell’alto. Lo seguivano 20. servidori a cavallo ben vestiti alla lor maniera; oltre altrettanti mandatigli appresso dal G. Visir, per onorarlo.

Venerdì primo di Gennaio 1694. essendo giorno festivo fra’ Turchi, andai avanti al Serraglio, per vedere uscire il G. Signore. Quattro Bustagni a cavallo portarono prima alla Moschea gli arnesi di panno rosso, per coprire il palchetto: dopo qualche tempo, che già poteva essere mezzo giorno, si videro 20. Chiaùs a cavallo, appresso a’ quali venivano 14. Iscioglan, o paggi del G. Signore, e circa diece Grandi della Corte anche a cavallo; ed in fine la carrozza, accompagnata da 12. Odabasci, o uomini di camera, da 12. Eunuchi bianchi, e [p. 267 modifica]neri a cavallo; e da più Baltagì a piedi: vicino la Moschea erano in arme nella piazza da 400. Giannizzeri. Il Gran Signore era nella medema carrozza, che dissi di sopra, dalla quale venne fuora sulla porta della Moschea, detta Moxadia, presso al Serraglio. Osservai, che portava una veste di seta a color di rosa secca: ornavano la sua berretta picciole penne nere, su le punte delle quali erano alcune macchie bianche, e rosse, che sopra la fronte facevano vaga veduta: all’orlo della berretta erano ben grossi diamanti, posti insieme in un giojello fatto a piramide, da’ lati del quale pendevano più catenette d’oro, che si annodavano da dietro. Essendo salutato dal popolo, corrispose gentilmente, chinando molto la testa. Dopo di lui uscì di carrozza il Selettàr (al contrario di Cristianità, dove il Padrone resta l’ultimo) che portava la scimitarra. Finita l’orazione, che durò un’ora, lo vidi uscire dalla Moschea col medesimo seguito: però non portava la berretta (che avea lasciata in mano d’un servidore) ma un turbante verde con Sessa bianca, ed un’altra veste gialla di seta. Entrato il G. Signore in carrozza, salutò il popolo da amendue le parti, e [p. 268 modifica]passato che fu, tutti i Giannizzeri, e Signori del corteggio se ne andarono pel’ fatto loro, senza accompagnarlo. Ho notato separato niente l’uscite vedute in due Venerdì, acciò possa il Lettore da se stesso riflettere a qualche picciola varietà d’accompagnamento nell’una, e nell’altra; riserbandomi in un capitolo apparte dichiarare i varj nomi degli Uficiali Turchi, che compongono la numerosa, e Imperial Corte di questo Monarca.

Non è altrimente vero quello che scrive il Tavernier Relation du Serrail to. 3 pag. 384., che il Gran Signore porta tre egretti sul turbante, in segno de’ tre Imperii a lui soggetti, cioè Costantinopoli, Babilonia, e Trabisonda; poiche in tutte le due volte, non glie n’ho veduto che uno: e molto meno quello, che narra del G. Visir, cioè, che quando va alla guerra, il G. Signore gli dona una di quelle piume; in virtù della quale i Giannizzeri lo salutano, e riconoscono per loro Superiore: e che perciò si conosce quando il Visir è in campagna, dal vedere due soli egretti sul turbante del suo Signore. Certamente informatomi da molti Francesi (oltre il testimonio degli occhi proprj) mi dissero, che sempre l’hanno osservato con un solo [p. 269 modifica]egretto; e che avendo più volte veduto partire il G. Visir per gire alla guerra, giammai non era loro occorso di vedere un tal donativo; ma solamente il Gran Signore, assiso su d’un’alto palco, sotto il quale passando quel Ministro, scende da cavallo, e prostratosi umilmente per terra, gli è posta su le spalle una veste, che gli dona il G. Signore: il che si pratica eziandio con tutti i Bassà, che vanno alla guerra.

Sabato 2. mi trattenni qualche tempo in una strada, per veder venire il G. Visir al serraglio. Lo precedevano 30. Chiaùs, e circa 60. Turchi di qualità, che essendo ritornati da’ loro governi, lo corteggiavano per loro pretensioni. Seguivano da 60. servidori a piedi, in mezzo de’ quali veniva questo primo Ministro, vestito di rosso, sopra un bel cavallo nero. Egli si era di giusta statura, ed all’aspetto mostrava d’essere in età di 54. in 55. anni. Mi dissero, ch’era molto inchinato alla caccia.

Domenica 3. dopo aver sentita la Messa, fui a vedere il palagio del G. Muphtì (ch’è come un Papa fra’ Turchi) vicino la Moschea d’Alim Selim; e lo trovai di struttura men che mezzana. V’erano due [p. 270 modifica]carrozze nel cortile; però verso mezzo dì lo vidi uscire a cavallo con dodici persone di corteggio. Era vestito di verde, con un gran turbante dello stesso colore; in giorni solenni però veste di color bianco: dimostrava essere in età di 80. in 83. anni.

Avendo Mr. Graniè corrispondenza dentro il serraglio, col suo mezzo fui introdotto il dopo desinare a vederne parte; ciò che difficilmente si permette a’ Franchi. Entrammo prima nelle due stalle, che sono vicine a questo Real Palagio: nella prima erano 50. cavalli per gli Paggi; nella seconda altrettanti per servigio del G. Signore, di miglior qualità, e governati con incredibile diligenza. In una stanza vicina mi furono fatte vedere da un Bustangì le selle, briglie, targhe, valdrappe, ed altri arnesi ricchissimi d’argento, e d’oro, tempestati di rubini, smeraldi, e turchine, per ornamento de’ cavalli, de’ quali si serve ordinariamente il G. Signore, e’ suoi favoriti. Avanti il medesimo palagio si vede una piazza d’un miglio, in mezzo della quale è una fontana, e l’asta dello stendardo, dove si pone quello di Maometto in tempo di sedizione; acciò i fedeli prendano l’arme [p. 271 modifica]per gastigare i colpevoli.

Il serraglio, o serray (che in lingua Persiana vuol dire Casa Reale) è una fabbrica bene ordinata in luogo piano, vicino al fiume Tungia. Tiene di circuito due miglia, con sette porte per comodità di coloro, ch’entrano, ed escono; oltre quelle de’ giardini, che occupano molte miglia all’intorno. Entrammo adunque accompagnati dal Bustangì per la più grande, e frequentata porta, in una gran piazza di cento passi in quadro, coperta all’intorno, per poter passare da una in un’altra delle altre 3. porte, che vi corrispondono. Entrati a man destra, nella prima e seconda cucina vidi più Halvaggì, o Haccì (cioè cuochi) con loro berrette bianche acute, (tanto quanto l’altre) i quali apprestavano il mangiare per lo G. Signore, e sua Corte; in luogo però separato da quello, ove si cuocono le galline, e castrati. Nella terza trovai i confetturieri, che fan sorbetti, ed altri lavori di zucchero, vestiti, e coperti dell’istessa maniera. All’incontro la gran Porta si ha l’ingresso negli appartamenti degl’Iscioglan, o paggi del G. Signore. Non hanno cosa alcuna di ragguardevole, che possa uguagliarsi [p. 272 modifica]a’ nostri palagi d’Italia; ma sono come lunghe sale, nelle quali fanno tutti i loro esercizj. Sopra di essi è un Belvedere per le donne, che tengono le stanze ivi vicine. La terza porta dà l’adito agli appartamenti Reali, dove non è permesso l’entrare. Di Hamet II. che all’ora imperava, non saprei che dire; imperciocchè per molto che avessi proccurato d’informarmi, persona del Mondo no mi seppe dire le sue particolari inchinazioni; essendo egli stato in prigione molti anni, e perciò svogliato del tutto: poco dedito alla caccia, ed alle donne tanto, quanto la fragiltà umana lo facea cadere. Avea però piacere di render giustizia per tutti i suoi Regni, premiare i buoni, e gastigare i mali. Ebbe da un parto della Sultana due figliuoli maschi, de’ quali uno solo era vivente chiamato Ibraim; sono però in vita due suoi nipoti figli di Mahomet IV. suo fratello, uno chiamato Mustafà di anni 31. l’altro Hamet di 18. rinserrati in prigione per l’antica politica di loro casa.