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La proprietà letteraria

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LA PROPRIETÀ LETTERARIA

Eran già i versi ai poeti rubati,
     Com’or si ruban le cose tra noi....
     A me quei d’altri son per forza dati
     E dicon tu gli arai, vuoi o non vuoi.
                         Berni



Così diceva il Berni alcuni secoli addietro, quando la proprietà letteraria era ancora nella mente del Signore Iddio, o tutt’al più era rappresentata dai privilegi che i Sovrani concedevano agli editori per un numero di anni limitato: e così ci tocca sentire anche oggi da Edmondo De Amicis, non solo derubato del suo, ma caricato per forza di quel d’altri. Dopo tanto gridare intorno alla proprietà letteraria, dopo tante chiacchiere di progresso, di civiltà, di leggi e di diritti, siamo al punto in cui si trovava il Berni: che anzi i tempi suoi possono invocare come attenuante l’assenza dei codici, dei Procuratori del Re, e delle guardie di pubblica sicurezza. E poi andate a negare il progresso!

In questa settimana stessa, la Corte d’Assise di Bologna condannò a due anni di prigione un tale che rubò dieci galline: che anzi i Giurati, teneri di cuore come sono, ammisero le circostanze attenuanti; [p. 116 modifica]se no il ladro di galline avrebbe riscosso forse un anno di carcere per ogni gallina rubata. Questa severità, non solo fa onore alla giustizia del nostro paese, ma è un titolo di gloria per la nostra Polizia. Le galline rubate sono soggette ad esser mangiate; il che rende difficilissimo il seguire le tracce della re furtiva. Ma nulla sfugge alla sagacia della nostra Polizia, che sa fiutare le tracce delle galline digerite colla stessa acutezza d’olfatto con cui il bracco annuncia la pastura delle starne o delle quaglie. E facendo questo dovuto elogio alla Polizia del mio paese, voglio mostrare d’esser giusto con lei, dovendo poi biasimarla per l’ottusità d’odorato che l’affligge quando si tratta d’altre materie.

I Procuratori del Re spiegano giustamente tutto il rigore di un animo onesto, offeso dalla scelleraggine dei ladri di galline; e dal loro gabinetto firmano ordini severi per assicurare l’inviolabilità dei volatili domestici, istruiscono importanti processi contro i perturbatori della sicurezza dei polli, e in faccia ai Giurati spiegano tutte le forze della dialettica, tutte le furberie degli esordi ex abrupto e delle perorazioni fondate sulla commozione degli affetti, per ottenere il che condanna, per liberare la società dei galantuomini dal pericoloso contatto dei ladri di polli. Nè crediate ch’io scherzi.

Anch’io posseggo dieci galline; tre delle quali fanno l’ovo; e rendo grazie alla Polizia che le protegge ed alla Magistratura che ne fa trionfare i sacrosanti diritti. Ma, oltre alle galline, posseggo qualche altra cosa, e vedrei volontieri l’abilità della [p. 117 modifica]Polizia e la severità del Procuratore del Re occuparsi anche di questa qualche altra cosa che mi preme almeno quanto i bipedi interessantissimi che fanno la gloria del mio pollaio. E sono certo che l’egregio De Amicis sarà della mia opinione.

Il caso del De Amicis è noto ai lettori. Un libraio che aveva parecchi esemplari invenduti di due romanzi, fa stampare tanti frontispizi nuovi quanti sono gli esemplari e, per facilitare la vendita, invece del nome del vero autore mette quello del De Amicis, simpatico al pubblico italiano e garanzia di esito certo. Il De Amicis protesta, il vero autore del libro protesta anch’egli, tutti protestano, ma.... in fondo chi ha avuto, ha avuto.

Il caso del povero Lorenzo Stecchetti ve lo dirò io. Quel disgraziato mise al mondo un libro di versi col titolo di Postuma al prezzo di lire tre italiane, e il libro, indegnamente, ebbe fortuna. Un editore pensò allora di contraffare l’edizione e di venderla a miglior mercato. Esaurita la prima falsificazione, ne fece una seconda, e i librai girovaghi la portano in giro e la vendono a buon mercato alle guardie di pubblica sicurezza che hanno istinti letterari. (Sono pochine, ma ce ne sono).

Il caso di Giosuè Carducci è lo stesso. Le Odi Barbare facevano meritamente fortuna e furono falsificate e vendute a buon mercato.

Il caso di.... Lasciamo andare, poichè i casi sono infiniti.

Per tornare a quel povero Lorenzo Stecchetti, cui voglio un bene grandissimo, vi dirò che, appena se [p. 118 modifica]ne accorse, s’informò e seppe nome, cognome, patria, età, insomma le generalità del suo ladro. Ma siccome le seppe, come accade sempre, sotto il sigillo di confessione, non potè citare testimoni. Egli si ricordava benissimo che in Italia c’era una Polizia astuta che, aveva sorvegliato attentamente la sua porta invece di quella di un vicino che si querelava di tentativi di furto con chiavi false. Egli si ricordava che, chiamato come testimonio in un processo, aveva sentito il Pubblico Ministero leggere preti per poeti in un’ode della Polemica, e gli era toccato di confessare le proprie opinioni politiche e sociali davanti ai Giurati come se fosse lui l’accusato. Indusse non ostante l’editore delle cose sue a ricorrere ai Magistrati.

Non solo tutto questo è vero come il vangelo e forse più, ma dopo gli accadde quel ch’è narrato nel vangelo. Anna lo mandò a Caifa, Caifa ad Erode, Erode a Pilato e così via. La Questura, la Procura e il resto si rimandarono l’una coll’altra il povero editore, al quale furono fatte stendere querele, istanze, ecc. Chi sa quanti quintali di carta furono scarabocchiati!

Uno di questi procuratori del Re, in una città lontana di qui quanto Roma, pregato, invitato, spinto anche da pezzi grossi che l’autore e l’editore avevano persuaso, mostrò la buona voglia di far qualche cosa, ma disse chiaro che se l’editore non indicava chi era il contraffattore e chi vendeva le edizioni contraffatte, sarebbe stato tempo perso. E infatti, se non si sa contro chi procedere, come si fa a pro[p. 119 modifica]cedere? Il desiderio dell’egregio Magistrato era giusto: ma pel ladro di dieci galline non si chiese ai derubati altrettanto. L’applicazione di questo nuovo canone di procedura condurrebbe a questo, che se l’assassinato non rivela il nome dell’assassino, non si potrà fare il processo: e in certi casi gli assassinati hanno delle gravi ragioni per non rispondere.

La quistione sta qui: che mentre pel furto di dieci galline si procede d’ufficio, si mette in moto la pubblica sicurezza, s’incomodano i Giurati con orazioni ciceronianissime, pel furto invece di diecimila lire fatto ad uno che ha il difetto di scriver versi (pare che i pennaruoli siano amati come li amava il re Bomba) bisogna che il derubato sporga querela e denunzi da sè stesso i rei, altrimenti i Magistrati hanno diritto di sorridere e di scherzare. Ora, non vorrei parere adirato, ma con tutta la freddezza possibile debbo dire che questa è una vergogna, non solo per quelli che sorridono e scherzano, i quali hanno tutti i diritti di non prendere sul serio altro che il ventisette del mese, ma pel nostro paese tutto, che si vanta d’esser còlto e lascia che simili delitti si compiano impunemente.

Non crediate che il dispetto mi faccia uscire dai gangheri. Parlo tranquillamente e noto che il De Amicis ha protestato energicamente in molti giornali, che il Carducci e lo Stecchetti sporsero querela, presentarono esemplari delle falsificazioni commesse a loro danno, fecero insomma più di quel che si domandi per far capire ai Magistrati che fu commesso un reato.... Ebbene, mentre i querelanti offrivano [p. 120 modifica]come saggio ai Magistrati gli esemplari delle falsificazioni, i Magistrati, con tutti i mezzi di azione di cui dispongono, non sono riusciti a sequestrarne uno; dico uno solo. Ma dunque le guardie di sicurezza pubblica debbono servire soltanto a votare pei candidati del governo?

Vedete dunque che non è il dispetto che mi fa parlare: oltre all’interesse privato offeso, mi pare che sia in ballo anche un poco l’interesse pubblico. Il pubblico infatti ama e stima le istituzioni a seconda dell’utile che gli fruttano, ed il contribuente in particolare venera la Giustizia, rispetta la Questura e le salaria tutte e due solo perchè gli danno la sicurezza del viver sociale. Ma quando la Questura ha troppo da fare per le elezioni e la Giustizia pei ladri da polli, tanto che il resto va come va, è ben naturale che la Magistratura non sia presa sul serio e le guardie di sicurezza pubblica siano bastonate come bistecche; il che in Romagna accade troppo spesso.

Visto che la Polizia era inutile per noi, cercammo di supplirla e molte volte abbiamo detto ai Magistrati: — Badate; nella tal città un venditore ambulante vende pubblicamente edizioni contraffatte. — I Magistrati erano subito infiammati dal santo zelo della loro professione e pareva che rispondessero — Ah! c’è un venditore ambulante, mettiamo a Viterbo, che si permette questo sfregio alle vigenti leggi! Ora vedrà! Ora l’avrà da fare con noi! — E qui carta, penna, calamaio, numeri di protocollo, firme, controfirme, lettere di un Procuratore del Re all’altro, di [p. 121 modifica]un Questore all’altro; e dopo quindici giorni di tempo, dopo un quintale di carta sporcata e un litro d’inchiostro sparso, si arrivava a stabilire colla massima serietà che il venditore ambulante di cui nella nota a margine segnata era già partito da Viterbo. Un’altra volta fu comprato un esemplare falsificato nella bottega di un libraio. Si ricorse subito al Magistrato, il quale prese la cosa di petto e ci si mise con tanta energia che i preliminari furono finiti in una settimana e si riuscì a risparmiare una dozzina di chilogrammi di carta. Intanto però la cosa era diventata così nota ai lippi ed ai tonsori, che quando la bottega del libraio fu finalmente perquisita, si trovò che il libro meno innocente che ci fosse era il catechismo. Il Magistrato si adirò giustamente perchè gli avevano fatto scomodare un innocuo libraio. Amen: il torto era diventato nostro!

Così tutto è stato inutile e si è dovuto venire al punto di far concorrenza ai ladri vendendo la roba a un prezzo derisorio. E poichè oramai l’edizione a buon mercato è tutta smaltita, ne farò un’altra a miglior mercato ancora, con una prefazione davanti, ornata dei nomi, cognomi e connotati di tutti quegli egregi uomini che si sono degnati di scriver tante lettere d’ufficio a proposito di un reato che non poterono scoprire benchè fosse consumato e si consumi ancora sulle pubbliche piazze. Noterò come in Italia si spendono più di ottanta milioni all’anno tra il Ministero di grazia e giustizia e quello dell’interno, e che quando un autore è leso ne’ suoi interessi, come il De Amicis, trova più naturale ricorrere alla [p. 122 modifica]Associazione della Stampa che alle autorità che costano ottanta milioni: e finirò notando che se quel che si chiama il prestigio dell’autorità scade tutti i giorni in Italia, la colpa non è tutta di quelli che mettono l’autorità in burletta, ma anche dell’autorità stessa che si diverte a farcisi mettere.

Poichè alcuni fatti audaci hanno attirato l’attenzione del pubblico sopra le falsificazioni che si commettono impunemente in Italia e poichè i giornali hanno gridato all’autorità che bisogna provvedere, vi dirò io quel che accadrà. Il Ministero scriverà una circolare ai Procuratori Generali perchè veggano, ecc. ecc., e la circolare sarà stampata in tutti i giornali officiosi. Il Procuratore Generale la trasmetterà ai Procuratori spiccioli, raccomandando loro, ecc. ecc. Questi alla loro volta.... Insomma tra carta scritta e carta stampata si consumerà qualche centinaio di lire, e tutti pari. A far molto, qualche venditore minchione le farà tanto grosse che per forza bisognerà sequestrargli la mercanzia e farlo condannare a due lire di multa con una requisitoria, dove sarà affermato e provato che la vigile Giustizia protegge i diritti di tutti e che non è poi vero che di certe cose non si occupi affatto.

Mi pare dunque che il De Amicis abbia mostrato troppa ingenuità protestando con tanta energia. Egli fa vedere di conservare ancora troppe illusioni per un uomo che ha viaggiato e conosciuto il mondo come lui. Crede dunque ancora a tutte quelle frasi fatte che si leggono ne’ giornali, che si sentono nelle Camere e nei Tribunali, come “la santità, l’inesorabilità, [p. 123 modifica]la severità della Giustizia; l’oculatezza, la perspicacia della Polizia giudiziaria” ed altre belle cose? Sono cose che si dicono così per dire e tutti sappiamo oramai quel che valgano. Io ho giuocato al tresette quasi tutte le sere per un anno intero con un Sostituto Procurator Generale, e quando nell’aula della Giustizia lo vedevo in toga con tanto di fascia e di berrettone e sentivo che gli davano del Rappresentante della Legge e qualche volta dell’Eccellenza, non potevo dimenticarmi che al tresette era una sbercia di prima scelta. Così, quando sento dire tutte queste bellissime cose a proposito della Giustizia e della Polizia, mi ricordo che tutte le cose umane, anche le guardie di pubblica sicurezza, sono imperfette, e che io non ho potuto ottenere che i miei diritti siano tutelati e che siano puniti coloro che li offesero.

Faccia come me l’egregio De Amicis. Si contenti che la Questura gli fa la guardia al pollaio e che, in caso, i Giudici, i Giurati, il Pubblico Ministero e il resto, puniscono chi gli rubò le galline. Non sia indiscreto e non chiegga alla Magistratura più di quel che possa dare. Io, per cacciare il malumore che qualche volta m’invade in faccia a certe enormità, mi distraggo raccogliendo molti casi che illustrano “la santità, l’inesorabilità, la severità ecc. della Giustizia”. Da quella Antologia si vedrà chiaro come noi ci contentiamo spesso delle parole e poco dei fatti. Vuole il De Amicis collaborare con me a questi Fasti? Se il Procuratore del Re ce li lascerà stampare, gli assicuro che saranno un bel libro.