Artemisia/Nota storica

Nota storica

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Atto V
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NOTA STORICA

Anche l’Artemisia fu scritta a Bologna, dopo gli Amori d’Alessandro, nell’estate del 1759, durante la sosta di due mesi e mezzo che il Goldoni, di ritorno da Roma, fece in quella città. "...Ora sto scrivendo una Tragedia in verso sciolto, che è il verso suo proprio, e procuro sia tragica, ma dilettevole. e di poca spesa" dice il Veneziano nella lettera del 21 agosto a S. E. Vendramin, proprietario del teatro di San Luca (D. Mantovani. C. G. e il teatro di S. Luca a Venezia, Milano, 1885, pag. 124). E aggiunge più avanti: "La Tragedia, che ora scrivo, è intitolata Artemisia, ed è appoggiata alla Sig.a Bresciani. Vi sono due donne sole" (pag. 130). Pochi giorni dopo, il 28, scrive ancora: "...La Tragedia fu finita ieri, ma la vo’ tenere qualche giorno in riposo, per rivederla, trattandosi di cosa d’impegno, soggetta a infinite critiche. Io mi compiaccio d’averla fatta, e la spedirò oggi otto (pag. 140). L’autore s’illudeva stranamente. e grandi cose aspettavasi dal pubblico per quel misero aborto. "La Tragedia, che ora le mando, è tal pezzo, che spero farà parlare di me" dice al Vendramin il 4 settembre (pag. 145). Ci vollero forse alcune replicate e irrimediabili cadute degli Alessandri, degli Enea nel Lazio, degli Zoroastri e il trionfo magnifico dei Rusteghi e della Casa nova perchè si convincesse di esser nato solamente a creare la buona commedia? Anche questa volta temeva del revisore Agazzi, che sapeva "persona onesta" (p. 141); e al Vendramin confessava: "S’Ella la crede [l' Artemisia] pericolosa per la revisione, non parlo: so bene, che quando non scrivo son criticato, e quando scrivo son tormentato". Chissà quante volte il buon Veneziano, che i posteri accusano di timidezza e peggio, avrà dovuto per forza chiudere in corpo quello che voleva dire a ogni costo!

Nella Introduzione intitolata Il Monte Parnaso, che fu recitata la sera dell’8 ottobre all’apertura del teatro di San Luca, la musa Melpomene esclama (Venezia. Pitteri. 1759, pp. 8-9):

Chi sa, dato non siami
Da quei mirar, cui lacrimar non piace,
Una tragedia tollerata in pace?
Artemisia destino
Per oggetto propor. La più costante
Femmina, che serbasse al pio consorte
Amor in vita, e fedeltade in morte...

Doveva essere la terza recita della stagione autunnale, cioè doveva far seguito agli Amori d’Alessandro e alla Scuola di ballo, ma nel catalogo [p. 252 modifica] aggiunto alle Memorie francesi il Goldoni afferma in nota che l’Artemisia non fu mai rappresentata, nè stampata. Anche nell’elenco delle principali novità goldoniane dal 58 al ’62 che il compianto amico Aldo Ravà mi mandò nel 1913, attinto dal Registro delle recite già conservato nell’archivio di San Luca e ora, come sembra, disperso, l’Artemisia non appare, e alla Scuola di ballo seguono gli Innamorati; apre poi la stagione di carnovale (26 dic.) l’Impresario delle Smirne, seguito dalla Guerra e quindi dalla Compagnia de Salvadeghi, cioè dai gloriosissimi Rusteghi. Così sarebbe fallito, dopo la seconda recita, il famoso programma del Monte Parnaso; e lo Zoroastro ed Enea nel Lazio vennero in fatti rimandati all’autunno del 1760.

Ma nella Introduzione alle recite dell’autunno 1760, recitata al teatro di San Luca da Caterina Bresciani (pubblicata da V. Malamani in Nuovi appunti e curiosità goldoniane, Venezia, 1887, pp. 173-5) c’è, dove il Goldoni annuncia il suo Enea nel Lazio, questo ricordo:

...La quarta si allontana dal stil della commedia.
L’autore non ardisce di dir: sarà tragedia,
Chè dopo l’Artimisia (sic), per lui si fortunata (? ).
L’impresa alle sue forze gli par sproporzionata.

Non sappiamo se debba leggersi fortunata o sfortunata, ma qui si accenna certamente a un’opera ben nota al pubblico.

Forse il viaggio a Roma e il ricordo di quelle auguste antichità indusse la mente del Goldoni a ripensare al grande Alessandro e al pio Enea, e a Zoroastro e alla fedele Artemisia: non potendo l’arguto sior Carlo far vedere sul palcoscenico gli abatini e i cardinali della Roma di Clemente XIII, vi portò almeno le anticaglie. Nella Drammaturgia dell’Allacci (rifatta a Venezia, 1755) è ricordato un dramma col titoto di Artemisia, scritto dal bergamasco Nicolò Minato, musicato dal famoso Cavalli a Venezia e rappresentato nel teatro dei SS. Giovanni e Paolo nel 1656, replicato a Milano nel 1664. Ho qui sul tavolo un’altra Artemisia "dramma per musica" edita a Milano nel 1662 e dedicata da Manuel Beltram de Mesquida al conte Gian Maria Alfieri: ma con la tragedia goldoniana nulla ha di simile, tranne il nome della regina e il Mausoleo. Solo trovo anche qui un Prologo in cui parlano, nella Reggia della Fortuna, il dio Apollo e le muse Melpomene Talia.

In una piccola nota che il Goldoni appose al ricordato catalogo dei Mémoires, dice dell’Artemisia: "C’est une imitation de Sémiramis de M. de Voltaire ". Non occorre dire quanto fosse familiare in Italia la Semiramide (1748) dell’autore francese, tradotta nel 1752 dall’Ambrogi, nell’anno stesso dall’abate Fabri di Bologna (stamp. 1764), e finalmente dal Cesarotti nel ’71 (L. Ferrari, Le traduzioni italiane del Teatro tragico francese nei secoli XVII e XVIII, Paris, 1925, pp. 236-240): recitata nel ’54 e nel ’55 nei teatri privati di Bologna e di Modena, e per ben ventidue sere replicata nel carnevale 1772-73 nel teatro di S. Gio. Grisostomo a Venezia, per merito di Maddalena Battaglia. Tuttavia fra la Semiramide e l’Artemisia non riusciamo a scoprire notevoli somiglianze (quelle grandi somiglianze che ci vede Johannes Merz, C. G. in seiner Stellung zum französischen Lustspiel, Leipzig. 1903, p. 44), poichè il riconoscimento del pastore Euriso [p. 253 modifica] nell’Artemisia deriva manifestamente dalla Merope del Maffei e il figlio sconosciuto accide anche qui il tiranno (Farnabaze) che aspira, per ambizione di regno, alla mano della regina. In Euriso o Nicandro si ritrova forse qualche lontana reminiscenza del Giustino dello stesso Goldoni (vol. XXIV della presente edizione). Certo dell’ombra di Nino nella Semiramide si rammentò il Goldoni quando Euriso penetra nella tomba di Mausolo e n’esce spaventato (atto III, sc. 10), ma più evidente è il ricordo negli Amori d’Alessandro (vedi scena ultima). Si noti poi che qui pure, come nella Merope, benchè più goffamente, la madre corre il pericolo di uccidere per un fatale errore il proprio figliuolo.

Ma della Merope e della Semiramide manca in questo triste aborto l’arte, la poesia, la vita, tutto: mancano azione, dialoghi e personaggi. Vent’anni e più dopo la Rosmonda e l’Enrico, il Goldoni tentava di nuovo la tragedia pura, benchè di lieto fine. e rimaneva malamente sconfitto nella inutile prova. E strano ch’egli non si accorgesse della propria goffaggine e non ridesse almeno fra sè quando la regina di Caria, armata di stile, penetra nel mausoleo per liberare il mondo da Farnabaze e immerge per tre volte " con viril mano avidamente il ferro" in un cadavere (atto V. sc. 9). Pare impossibile che il "pittore della natura", come lo chiamò Voltaire, scendesse a così assurde inverosimiglianze e a un linguaggio così artefatto. Quale fosse la sorte dell’Artemisia, come vedemmo, rimane oscuro. Se il revisore Agazzi, come il Goldoni temeva, avesse proibito le recite, avrebbe soltanto impedito un’offesa alle leggi della poesia; chè d’altre audacie non rimane più la traccia. Il vecchio autore mandò da Parigi a Venezia con altri suoi manoscritti l’Artemisia e il tipografo Zatta, recidendo forse qualche passo pericoloso, la stampò nel 1793 nel tomo XXXIII (t. X della classe 3) della grande edizione delle Opere Teatrali del Goldoni, pochi mesi dopo la morte del commediografo veneziano.

Il 30 gennaio del 1803 la compagnia Fabrichesi e Gnocola recitava nel teatro di San Luca a Venezia l’Artemisia (v. Giornale dei teatri di Venezia, A. VII, n. 4. parte 1. pag. 17): proprio quella, crediamo, del Goldoni; ma non pare che quel misero fantoccio osasse risalire mai più sulle pubbliche scene.

G. O.